Liberalizzare significa sempre rendere contendibili delle posizioni consolidate, aprire a degli outsider la porta di ingresso in spazi finora occupati solo da vecchi insider
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Intervista a cura di Alessandro Rossi pubblicata su Mondo Padano il 9 marzo 2018 – In argomento v. anche il mio articolo sul Corriere della Sera del 17 giugno 2017, Il valore sociale della contendibilità del servizio pubblico, e la mia intervista del 22 novembre 2013 A cosa servono le liberalizzazioni .
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L’indice delle liberalizzazioni in Italia sarà presentato oggi alle 18 a Spazio Comune nel corso di un incontro promosso dall’associazione Cremona Liberale. Relatori: Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, e Pietro Ichino, docente all’Università di Milano. Modera Alessandro Rossi, direttore di Mondopadano. L’obiettivo è quello di valutare, in dieci settori dell’economia, a che punto siamo nella loro apertura al mercato, confrontandoci con i 28 partner europei.
Professor Ichino, tra i settori che nel corso degli ultimi anni sono stati maggiormente riformati nel nostro Paese ci sono quello del lavoro e quello delle banche. Quali sono stati i principali benefici introdotti?
Per quel che riguarda il mercato del lavoro, il solo per il quale io abbia una competenza specifica, le riforme del 2012 e del 2015 hanno innanzitutto contribuito a renderlo più fluido, meno ingessato. Questo è importante per favorire il passaggio delle persone dalle aziende meno efficienti a quelle più capaci di valorizzare il loro lavoro: se vogliamo aumentare la produttività del lavoro italiano, dobbiamo smettere di difendere con le unghie e coi denti le aziende poco produttive, e sostenere invece robustamente, sul piano economico come su quello della riqualificazione professionale, i loro dipendenti nella transizione verso le imprese più forti. Le quali oggi in Italia stentano a trovare la manodopera qualificata di cui hanno bisogno.
Restando in tema di lavoro, le liberalizzazioni sono sempre portatrici di effetti positivi oppure debbono anch’esse essere governate per evitare che producano nei settori interessati conseguenze controproducenti, magari non previste?
Qualsiasi riforma di un mercato deve sempre essere governata. E, poiché in genere essa non produce soltanto benefici per tutti, ma c’è sempre anche qualcuno che ci perde qualcosa, è indispensabile che la riforma sia accompagnata da misure di sostegno per i perdenti. In riferimento specifico alla riforma del lavoro, però, stento a individuare dei veri e propri “perdenti” tra i lavoratori: la nuova disciplina non ha portato ad alcun aumento della frequenza dei licenziamenti, il cui tasso è rimasto identico a prima. I veri perdenti, qui, sono gli avvocati giuslavoristi, visto che il contenzioso giudiziale si è ridotto di due terzi dal 2012 a oggi.
Nel settore del commercio, però, le liberalizzazioni degli orari, definite selvagge dalle associazioni che rappresentano i lavoratori di questo settore, sono state aspramente criticate dai titolari dei piccoli negozi perché ritenute penalizzanti, anche in termini economici, per chi ha un a piccola attività e, al contrario, un aiuto altrettanto importante ai grandi centri commerciali su cui si fa ricadere, almeno in parte, la responsabilità della desertificazione delle attività commerciali nei centri cittadini. Che cosa ne pensa?
Ogni misura di liberalizzazione viene, normalmente, qualificata come “selvaggia” da chi ha qualcosa da perderci. Ma occorre sempre chiedere il parere di chi invece ne trae dei benefici. Nel caso del commercio al minuto, avendo vissuto l’epoca in cui la spesa si faceva dal lattaio, dal fruttivendolo, dal droghiere, dal panettiere e dal macellaio, sono convintissimo che per i consumatori la possibilità di farla invece a un supermercato porti dei vantaggi enormi, in termini di qualità e di prezzi delle merci, di possibilità di scelta, e anche di comodità. È vero che i piccoli dettaglianti hanno invece da rimetterci: è dunque necessario che essi vengano in qualche modo indennizzati, o sostenuti nella transizione verso attività organizzate più modernamente.
Posizioni contrarie alla liberalizzazione del settore sono emerse anche da parte dei rappresentanti dei farmacisti: sul banco degli imputati sono finite, anche recentemente, le parafarmacie, giudicate un problema per i titolari delle farmacie tradizionali. Qual è il suo giudizio al riguardo?
Sono molto favorevole alle parafarmacie.
In 32 pagine di manifesto “elettorale” di Confindustria le parole “privatizzazioni” e “liberalizzazioni” non compaiono nemmeno una volta. Perché, secondo lei, la più importante associazione di rappresentanza dell’impresa italiana non le giudica una priorità per il Paese?
Liberalizzare significa sempre rendere contendibili delle posizioni consolidate, aprire a degli outsider la porta di ingresso in spazi finora occupati solo da vecchi insider. Qualche volta la Confindustria, come del resto molti sindacati dei lavoratori, invece che come esponente di un interesse generale dell’industria, troppo spesso si comporta come una associazione di insider.
Durante l’ultima legislatura i governi Renzi e Gentiloni hanno contribuito, almeno in parte, ad ammodernare il Paese, ad esempio nel settore del lavoro e delle poste. Ma si sono dovuti scontrare con grandi resistenze e la nuova geografia politica che si è delineata dopo il voto non sembra particolarmente favorevole alla liberalizzazione. Che cosa ne pensa?
Sono, ovviamente, molto preoccupato.
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