Poiché anche M5S e Lega sembrano aver rinunciato alle velleità anti-UE e anti-euro, dal prossimo Governo, quale che ne sia il colore, dobbiamo attenderci subito una conferma dell’intendimento dell’Italia di partecipare da protagonista al processo di costruzione della nuova Unione – Comunque non c’è da temere una contro-riforma del lavoro
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Intervista a cura di Carlo Terzano pubblicata sul sito StartupItalia.eu il 22 febbraio 2018 – In argomento v. anche Il M5S e la volatilità della buona politica
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Professor Ichino, quali sono le cose che il prossimo esecutivo, indipendentemente dal colore e dalla composizione, dovrà fare nei primi 100 giorni?
Poiché in questa campagna elettorale il partito anti-euro e anti-UE sembra improvvisamente scomparso, e persino M5S e Lega si dichiarano favorevoli al processo di integrazione europea, alla sua domanda posso rispondere che, comunque sia composta la maggioranza, il nuovo Governo dovrà confermare l’impegno dell’Italia su questo terreno, quindi dare subito un impulso positivo al negoziato per il trattato Italia-Francia proposto da Macron, confermare l’impegno dell’Italia al rispetto dei vincoli di bilancio previsti dai trattati, se necessario fare le correzioni imposte da quei vincoli, e rivendicare per l’Italia un ruolo di primo piano al tavolo sul quale si sta disegnando la nuova Unione Europea.
Qual è il suo parere sulla flat-tax proposta da Berlusconi e, con aliquota persino inferiore, da Salvini?
L’idea della flat tax non è in sé sbagliata; ma se il progetto intende rispettare seriamente la regola costituzionale della progressività dell’imposta sul reddito, esso deve prevedere una no tax area di entità apprezzabile, più alta dell’attuale. E se la no tax area è di entità consistente, l’aliquota unica non può che essere notevolmente più elevata rispetto a quella indicata da Forza Italia. Non parliamo di quella indicata da Salvini, che appartiene al libro dei sogni: genererebbe un deficit mostruoso. Infatti i progetti più seri di semplificazione drastica dell’imposta sul reddito prevedono non una sola aliquota, ma due. Ma allora occorre riconoscere che non è più flat tax.
Un recente report dell’Ufficio Valutazione Impatto del Senato ha raccolto le principali teorie economiche degli ultimi 20 anni, confrontandole anche con i dati OCSE e della Banca Mondiale ed emerge che non siamo ancora riusciti a comprendere se la flessibilità sul lavoro aumenta davvero la base occupazionale. Lei è l’ideologo (mi passi il termine) del Jobs Act: come replica a chi dice che scarseggiano ancora le prove che le riforme iniziate da tutto il mondo occidentale circa 20 anni fa rappresentino la ‘strada giusta’?
Né io, né Tito Boeri, né Pietro Garibaldi, né alcun altro autore di progetti mirati al superamento del regime di job property istituito con il vecchio articolo 18 e al passaggio a un regime fondato su di una liability rule, abbiamo mai sostenuto che questa riforma avrebbe avuto un effetto diretto di aumento dell’occupazione. Mai, in nessuna sede. Quello che abbiamo sempre sostenuto è che un regime di job property, con l’alto tasso di vischiosità del tessuto produttivo che esso comporta, e conseguentemente anche di vischiosità del mercato del lavoro, ha l’effetto di impedire o rallentare molto il passaggio dei lavoratori dalle aziende poco produttive a quelle più produttive, e ha indirettamente un effetto depressivo sulle retribuzioni. Nel caso dell’Italia, poi, quel regime ha costituito una peculiarità negativa del sistema nel panorama delle economie occidentali, che ha contribuito a ridurre l’attrattività del Paese per gli investitori stranieri. Nell’ultimo quinquennio l’afflusso di investimenti esteri in Italia è notevolmente aumentato, anche se resta più basso rispetto alla media UE. Certo, su questo aumento ha influito probabilmente anche la riduzione della pressione fiscale e una riduzione del differenziale di costo dell’energia rispetto al resto d’Europa; ma è presumibile che abbia influito anche l’allineamento del nostro ordinamento del lavoro rispetto ai migliori standard dell’Oecd.
Oggi la percezione diffusa è che, con il Jobs Act, siano venute meno molte tutele e i diritti, soprattutto quelli dei lavoratori anziani, siano divenuti privilegi. Un tempo c’era la lotta di classe, oggi si prefigura una lotta generazionale?
Se per “tutele” intende il regime di job property, il suo superamento è stato, certo, uno degli obiettivi principali delle riforme del 2012 e del 2015. Ma questo non ha portato affatto alla “precarizzazione” dei rapporti di lavoro stabili denunciata dagli oppositori della riforma. Il tasso di frequenza dei licenziamenti è rimasto sostanzialmente invariato rispetto a prima: intorno all’1,4 per cento all’anno rispetto ai rapporti di lavoro stabili. Quanto alla percentuale di contratti a termine, quella italiana, intorno al 15 per cento, è perfettamente in linea rispetto alla media UE. Anche gli oppositori del superamento del monopolio statale del collocamento, o del riconoscimento delle agenzie di lavoro temporaneo, sostenevano che queste riforme avrebbero minato il sistema di protezione del lavoro; ma dopo pochi anni dal varo di queste riforme esse erano già state ampiamente metabolizzate, e oggi nessuno, neanche all’estrema sinistra, si sognerebbe di proporre un ritorno indietro rispetto ad esse.
Dunque lei non crede che il nuovo governo dovrebbe intervenire per aumentare le tutele, mantenendo comunque la flessibilità del mercato del lavoro?
Se per tutele intende un ritorno alla disciplina rigida del rapporto di lavoro, la risposta è certamente no. La risposta è convintamente sì, invece, se per tutele lei intende la protezione e il sostegno al lavoratore nel mercato del lavoro, nella transizione da un vecchio a un nuovo lavoro. Su questo terreno la riforma del 2015 prevede un trattamento universale di disoccupazione – la NASpI – che può essere rafforzato favorendo la negoziazione di trattamenti complementari a carico delle imprese che licenziano, e prevedendo un suo prolungamento da due a tre anni nelle situazioni di crisi occupazionale più grave. Inoltre quella riforma prevede l’attivazione di servizi efficaci di ricollocazione finanziati mediante l’assegno di ricollocazione, sulla cui implementazione si sta registrando un ritardo inaccettabile. Perché nessuno protesta contro questo ritardo?
In questi giorni tiene banco l’iper-attivismo del Ministro Calenda sul caso Whirpool. Lei alla controleopolda azzurra di #IdeeItalia (alla quale partecipai come cronista per la nostra comune testata Formiche.net) dichiarò che bisognerebbe smetterla di ‘fare la respirazione bocca-a-bocca alle imprese in crisi e smettere di avere paura dell’imprenditore straniero’. Può spiegare il concetto?
Nel caso Whirpool-Embraco c’è una dichiarazione ufficiale della casa madre brasiliana alle autorità di borsa competenti, nel senso della prossima chiusura dello stabilimento torinese. Si può considerare questa scelta sbagliata, ingiusta verso i lavoratori e il Paese che ha ospitato lo stabilimento; ma se il Governo italiano non è in grado di far revocare questa scelta della casa madre, non ha alcun senso prendersela con la direzione aziendale italiana perché non chiede la Cassa integrazione. È la legge – precisamente il d.lgs. n. 148/2015 – che vieta in modo drastico di attivare la Cassa quando non vi sia alcuna prospettiva di ripresa dei rapporti di lavoro nell’impresa. La legge lo vieta perché in un caso come questo la Cassa integrazione fa il danno dei lavoratori, tenendoli legati a una struttura produttiva che non c’è più, facendo finta che i loro posti di lavoro ci siano ancora e rinviando sine die l’attivazione della ricerca della nuova occupazione. In questi casi le iniziative per la ricollocazione devono partire immediatamente; e per questo è indispensabile attivare non la Cig, ma la NASpI, cioè il trattamento di disoccupazione. Mi risulta che nel caso Whirpool l’impresa sia disponibile a erogare un trattamento di disoccupazione che porterebbe il sostegno del reddito a un livello superiore rispetto alla Cig, e a finanziare misure di assistenza intensiva di riqualificazione mirata dei lavoratori. Perché si rifiuta di discutere di queste misure? Collocare i lavoratori in Cig, in un caso come questo, significa cacciarli in un vicolo cieco, nel quale la loro employability si riduce ogni giorno che passa.
Non mi ha risposto sulla paura dell’imprenditore straniero, delle multinazionali.
Più che paura, in Italia vedo una ostilità bi-partisan nei confronti delle multinazionali: da destra ci si oppone al loro intervento in nome della difesa dell’“italianità” delle nostre imprese; da sinistra si considerano le multinazionali come un pericolo per la democrazia e addirittura per la sovranità nazionale. La realtà è che nel mondo globalizzato, o impariamo ad attirare selettivamente i migliori imprenditori stranieri in casa nostra e a negoziare efficacemente con loro la scommessa comune sul successo dell’insediamento, oppure ci condanniamo alla domanda di lavoro debole e alla produttività stagnante che le imprese a capitale e management indigeno mediamente riescono a garantire.
Le posso chiedere come mai ha deciso di interrompere la carriera politica?
Mi sono sempre considerato non come un politico professionista, ma come uno studioso prestato alla politica. Nel 2008 venni chiamato da Walter Veltroni perché portassi in Parlamento il mio progetto di riforma organica del lavoro; e ho avuto la ventura di vedere, nell’arco di un decennio, quel progetto in larga parte realizzato. Ora dunque è il tempo, per me, di tornare a fare il mio mestiere all’Università e come opinionista. Che non significa certo abbandonare la politica.
Una domanda più ‘politica’: come commenta la scelta dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, cui lei risulta legato, di non personalizzare troppo la campagna elettorale? Aveva davvero trasformato il partito da Pd a PdR?
Renzi ha fatto nel 2016 l’errore madornale di personalizzare troppo la campagna per il referendum costituzionale. Oggi mostra di aver imparato bene quella lezione.
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