Perché non dobbiamo avere paura che i robot e l’intelligenza artificiale ci condannino alla disoccupazione, o disumanizzino il lavoro
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Intervista a cura di Francesca Ceci, pubblicata l’11 febbraio sul portale Teleborsa – In argomento v. anche la mia intervista del 15 febbraio a Italia Oggi e la mia relazione al congresso dell’Associazione Giuslavoristi Italiani su Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto e sul mercato del lavoro, del 15 settembre 2017 .
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(Teleborsa) Come sarà il lavoro del futuro? La tecnologia è alleata o nemica? Minaccia oppure opportunità? Quesiti di grandissima attualità ai quali ci ha aiutato a rispondere Pietro Ichino, giuslavorista di lungo corso e professore di Diritto del Lavoro all’Università Statale di Milano, che ci ha spiegato come e perché non dobbiamo avere paura del progresso tecnologico.
Professore, il lavoro è sicuramente la più grande emergenza dei nostri tempi. Il risultato è una spaccatura che sembra insanabile tra una generazione di adulti ipertutelati e una generazione di giovani alle prese con prospettive drammatiche. Dov’è che abbiamo sbagliato? E, soprattutto, si può trovare un punto di equilibrio?
Il cambiamento profondo delle condizioni di lavoro che il tessuto produttivo dei Paesi occidentali offre oggi alle nuove generazioni riflette un notevole aumento delle disuguaglianze di produttività tra le imprese e tra gli individui. Questo fenomeno è a sua volta l’effetto di un processo molto rapido di evoluzione tecnologica, che aumenta la distanza tra chi è capace di appropriarsi delle nuove tecniche e chi no. Ed è anche un effetto della globalizzazione, che mette in difficoltà una parte della forza-lavoro dei Paesi più ricchi esponendola alla concorrenza della forza-lavoro dei Paesi in via di sviluppo. Più che chiederci “dove abbiamo sbagliato”, mi sembra che dobbiamo chiederci come far fronte alla sfida di questo aumento delle disuguaglianze, di fronte al quale i vecchi strumenti di protezione del lavoro appaiono molto inadeguati.
Come, secondo lei?
Alla difesa statica del posto di lavoro e della professionalità, che serve sempre meno, dobbiamo sostituire un diritto soggettivo alla formazione e alla riqualificazione professionale, che deve essere assicurato a tutti: occupati, disoccupati e giovani all’ingresso nel mercato del lavoro. Ma questo diritto deve avere un contenuto pratico molto preciso: oggetto del diritto è una formazione o riqualificazione mirata a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti, ed efficace per accedervi. Per questo è indispensabile che venga rilevato in modo sistematico e capillare il tasso di coerenza tra formazione impartita da ciascun centro di formazione, scuola o facoltà universitaria, e sbocchi occupazionali ottenuti da chi ne ha ottenuto il diploma. E questo dato deve essere conoscibile da tutti.
Quanto gli spazi aperti dall’evoluzione delle nuove tecnologie rischiano di penalizzare il lavoro umano?
Sono portato a dar credito alla visione della “corsa tra automazione e creazione di nuovi mestieri” come un fenomeno ciclico: ogni ventata di innovazione tecnologica determina una riduzione del costo del lavoro che a sua volta incentiva l’invenzione di nuove funzioni da attribuire al lavoro umano, donde un freno ai nuovi investimenti in innovazione tecnologica.
Però c’è una differenza assai rilevante tra la sostituzione di lavoro umano mediante macchine cui si è assistito in passato e quella a cui probabilmente assisteremo nel prossimo futuro: oggi i robot dotati di intelligenza artificiale incominciano a sostituire anche lavoro umano di contenuto professionale molto elevato.
Chi sottolinea questo ha ragione. È evidente che la riconversione di figure come quella di un radiologo, di un revisore contabile, di un agente assicurativo, di un commercialista, di un capitano di nave o pilota di aereo, è molto più difficile e costosa di quanto non sia insegnare a una ex-lavandaia il mestiere della cameriera o della magazziniera. Ma questa sfida non è affatto persa in partenza: certo, in alcuni casi la soluzione più ragionevole consisterà in un puro e semplice indennizzo dei losers, mediante un prepensionamento; ma nella maggior parte dei casi sarà invece possibile puntare a una riconversione capace di valorizzare le conoscenze e l’esperienza anche del pilota e del chirurgo. Per esempio, il robot-chirurgo oggi rende possibile un grande aumento delle operazioni delle quali fino a ieri erano capaci soltanto pochissimi ospedali molto specializzati e pochissimi chirurghi di alto livello; ne consegue un aumento dei chirurgi di livello medio richiesti per svolgerle anche a grande distanza dall’ospedale specializzato, con corrispondente aumento della domanda di formazione in cui sono impegnati i chirurghi di alto livello, ma anche della domanda di aiuti e di personale paramedico per l’assistenza al maggior numero di persone che possono essere operate.
Bill Gates ha recentemente sostenuto che i robot dovrebbero pagare un ammontare di tasse equivalente al gettito di tasse e contributi relativi alle persone da essi rimpiazzate. È davvero questa la soluzione del problema?
Quand’anche fosse possibile accertare e misurare la “quantità di sostituzione” dell’uomo da parte della macchina, e fosse possibile gravare il progresso tecnologico di un’imposta applicabile in modo uguale in tutti i Paesi del mondo, questo gioverebbe poco al genere umano. Se negli anni ’50 fosse stata messa un’imposta sulle lavatrici, essa non avrebbe giovato alle lavandaie chine sui lavatoi del Naviglio Grande con le mani nell’acqua gelida: avrebbe solo ritardato il loro passaggio a lavori meno faticosi e più produttivi. Il problema non è di ritardare il progresso tecnologico, ma di redistribuirne i benefici e di riqualificare le persone cui i robot si sostituiscono, in modo che esse possano dedicarsi ai molti altri lavori richiesti ma vacanti già oggi, e soprattutto all’infinità di lavori nuovi che saranno richiesti domani e che le macchine non potranno svolgere. Oggi in Italia c’è almeno mezzo milione di posti di lavoro che rimangono permanentemente scoperti per mancanza di persone competenti: tecnici informatici, elettricisti, falegnami, infermieri, artigiani dei mestieri più vari. Domani ci sarà comunque – se gli consentiremo di esprimersi – un bisogno senza limiti di lavoro umano non sostituibile dalle macchine nei settori dell’assistenza medica e paramedica alle persone, dell’istruzione, della diffusione delle conoscenze, dei servizi qualificati alle famiglie e alle comunità locali, della ricerca in tutti i campi, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Certo, tutte funzioni nelle quali l’alfabetizzazione digitale sarà sempre più indispensabile: per questo diventa centrale il diritto soggettivo alla formazione e riqualificazione, di cui parlavamo poco fa.
Negli ultimi giorni, si è parlato molto dei “braccialetti” della discordia che hanno fatto finire Amazon nella bufera. Qual è la linea di confine tra doveri dei lavoratori e violazione dei diritti?
A proposito del nuovo brevetto ottenuto da Amazon si è parlato di “nuovo schiavismo”. Ma quel brevetto non ha per oggetto alcun dispositivo di controllo a distanza: serve solo per facilitare il reperimento dell’oggetto giusto sugli scaffali e segnalare l’eventuale errore. Solo che, essendo in forma di braccialetto, ha richiamato alla mente quello usato dalla polizia giudiziaria. In realtà sono due cose completamente diverse. Una risposta un po’ più meditata di lavoratori e sindacato alla novità di cui hanno parlato i media dovrebbe consistere, per un verso, nel controllare che nel nuovo strumento non vengano inseriti a tradimento dispositivi, oggi non previsti, capaci di trasmettere a una centrale i dati relativi ai movimenti dell’operatore e ai suoi eventuali errori; per altro verso nel rivendicare che i frutti del guadagno di produttività conseguito per effetto dell’uso del nuovo strumento siano spartiti equamente fra l’impresa e i lavoratori. Maggior reddito con minore fatica. Se la cosa viene governata contrattualmente in questo modo, il “nuovo schiavismo” possiamo cercarlo altrove.
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