Un giuslavorista aperto al confronto con gli economisti del lavoro discute degli effetti della riforma del lavoro sullo stock e i flussi occupazionali, contestando metodo e risultati di una ricerca in proposito
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Intervento di Valerio Speziale, professore di diritto del lavoro nell’Università di Chieti e Pescara, 30 gennaio 2018, in risposta all’articolo di Andrea Ichino, professore di economia del lavoro all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, pubblicato sul Corriere Economia del 24 dicembre 2017, Quanto hanno pesato gli sgravi e quanto la nuova disciplina dei licenziamenti sulle assunzioni stabili , che a sua volta si riferiva al saggio di Paolo Sestito ed Eliana Viviano, Firing costs and firm hiring: Evidence from an Italian reform in corso di pubblicazione sulla rivista Economic Policy – All’intervento di V.A. risponde A.I.: per rendere più chiaro il confronto, in questo post le risposte sono inserite subito dopo il passaggio dell’intervento di V.S. a cui si riferiscono, evidenziate con margine rientrato, carattere corsivo e colore blu – Il dialogo, ovviamente, resta apertissimo: altri interventi, sia di Valerio Speziale sia di chiunque altro, verranno pubblicati e segnalati nella Nwsl settimanale – In argomento v. anche il Dialogo tra un economista e un giuslavorista sulla riforma dei licenziamenti .
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Nel dibattito sulle conseguenze delle recenti riforme del lavoro, vi sono commenti contrastanti che tendono ad enfatizzare o a sottostimare i risultati conseguiti. Sono d’accordo sulla necessità di operare con giudizi prudenti, evitando i commenti da campagna elettorale. Non vi è dubbio, peraltro, che i dati a nostra disposizione ci consentono alcune considerazioni.
È vero, innanzitutto, che la sostanziale invarianza nel numero dei licenziamenti sia prima che dopo il 2015 conferma che la nuova disciplina non ha incentivato i recessi del datore di lavoro. Essa tuttavia costituisce una conferma empirica di quanto molti giuristi ed economisti stanno da tempo sostenendo: e cioè gli effetti limitati (o in molti casi inesistenti) delle riforme del lavoro su alcune variabili economiche, come la “fluidificazione del tessuto produttivo” (per usare le parole utilizzate nella Newsletter del 15 gennaio), o l’aumento/diminuzione dei livelli di occupazione. Mentre, al contrario, sia a livello europeo che nazionale, si sostiene esattamente il contrario, favorendo l’introduzione di riforme che riducono in modo consistente i diritti dei lavoratori senza realizzare i risultati economici sperati.
Il Jobs Act non può aver avuto effetti percepibili sui licenziamenti nei mesi immediatamente successivi al 2015 perché si applica solo ai nuovi assunti. In ogni caso il semplice confronto tra prima e dopo il 2015 è poco informativo, quale che sia la variabile considerata, dato che sarebbe un confronto tra fasi cicliche diverse. Proprio per questo è necessario un esercizio econometrico come quello di Sestito e Viviano, finalizzato a effettuare confronti a parità di ogni fattore di confondimento degli effetti causali del Jobs Act. (a.i.)
La drastica diminuzione del contenzioso giudiziale nel settore privato è un’altra realtà indiscutibile. Essa, peraltro, non mi sembra possa essere valutata positivamente, nella misura in cui si consideri la tutela giurisdizionale come un fattore fondamentale nell’ambito di uno stato di diritto. Tra l’altro, il “crollo” del contenzioso è qui legato alla “inutilità” di un processo che ha costi elevati (sia in termini di tasse per l’accesso al servizio giustizia che di compensi agli avvocati) e conseguenze molto scarse, vista l’esiguità delle tutele garantite dalla legge in caso di licenziamento ingiustificato. In sostanza, non si fanno cause, perché non ne vale la pena dal punto di vista economico e in quanto i diritti tutelati sono assai modesti. Si tratta di una “deflazione” della tutela giurisdizionale attuata con la sottrazione dei diritti sostanziali e con l’aggravio dei costi processuali che non è coerente con i principi costituzionali a tutela del lavoro.
Non spetta a me, economista, valutare dal punto di vista giuridico i costi e i benefici del contenzioso in materia di lavoro. Dal punto di vista economico, i costi sono indubbi e sono stati misurati da numerosi studi sia per le parti in causa che per la collettività. Proprio per questo è auspicabile l’incentivazione degli accordi extra-giudiziali, previsti dalla legge Fornero. Sarebbe opportuna una raccolta sistematica dei dati relativi a questa soluzione delle controversie, per valutarne oggettivamente gli effetti anche in termini di tutela effettiva dei lavoratori. (a.i.)
Venendo alla questione degli effetti sull’occupazione del Jobs Act, mi sembra che i dati siano indiscutibili. I forti incentivi economici triennali (gennaio 2015 – dicembre 2017) hanno svolto un ruolo determinante, se non addirittura esclusivo. I dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps mettono in evidenza che, dopo il boom del 2015 – con un 54% di rapporti stabili determinato dal forte sgravio contributivo che è all’origine del 60,8% di queste assunzioni – i contratti a tempo indeterminato si sono drasticamente ridotti già nel 2016 (32,9%), per poi diminuire ulteriormente nel 2017 (24% nei primi otto mesi). Diminuzione legata all’esaurirsi dell’incentivo economico iniziale, con la sua sostituzione con uno sgravio molto più ridotto o riferito solo ad alcune categorie di lavoratori. Le rilevazioni Istat riferite a Novembre 2017 mostrano come – su base annua – i nuovi posti di lavoro siano 497 mila, di cui 450 mila a termine e 48 mila permanenti. È evidente dunque, che la nuova disciplina del contratto a tutele crescenti (CTC) ha avuto effetti inesistenti (o assai ridotti) sulle assunzioni stabili.
Lo studio della Banca D’Italia di Paolo Sestito e Eliana Viviano conferma queste conclusioni. L’analisi cerca di distinguere gli effetti sull’occupazione degli sgravi contributivi rispetto a quelli determinati dalla riduzione di tutele nei licenziamenti. Gli autori concludono che il 40% delle nuove assunzioni – che corrisponde al 20% del totale dei nuovi contratti nel periodo – è legato agli incentivi economici, mentre il 5% dei nuovi rapporti di lavoro – pari all’1% del totale includendo altri contratti – può essere ascritto alla interazione delle due interventi (sgravi contributivi e riforma dei licenziamenti con il contratto a tutele crescenti). Alcune considerazioni: a) i risultati mi sembrano assai modesti, in senso assoluto; b) l’effetto è ancora meno positivo se si pensa alla drastica riduzione delle tutele garantite al lavoratore in caso di licenziamento; c) questi risultati, contrariamente a quanto sostenuto da Andrea Ichino, non sono dovuti esclusivamente al CTC, bensì all’azione congiunta dei benefici economici e della riforma dei licenziamenti. Non mi sembra comunque che vi sia un dimostrazione sicura degli effetti sull’occupazione del contratto a tutele crescenti.
Lo studio quasi sperimentale di Sestito e Viviano misura gli effetti che riassumo così nel mio articolo: “Durante il 2015, nel campione esaminato, le nuove assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato sono state circa 10.000 al mese. Di queste, il 20% è attribuibile alla decontribuzione e l’8% è dovuto alla nuova disciplina dei licenziamenti.” E lo fa in modo attendibile perché controlla, in modo quasi sperimentale, per i fattori di confondimento che invece rendono difficile interpretare le statistiche da lei riportate. Se gli effetti siano grandi o piccoli è un giudizio di valore che lascio ai lettori. Certamente non si può affermare che la modifica della disciplina dei licenziamenti non abbia avuto effetti. (a.i.)
Lo studio, comunque, si presta anche a critiche di metodo. Gli autori analizzano i flussi del mercato del lavoro nei mesi di Gennaio e Febbraio (per i benefici contributivi) e le assunzioni permanenti dovute ad entrambe le politiche (CTC e incentivi) da marzo a giugno 2015. La comparazione è effettuata tra imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15 dipendenti. Un primo rilievo critico è legato alla brevità dei periodi temporali esaminati. Si tratta di tempi troppo esigui per poter fornire conclusioni con un certo grado di attendibilità e la successiva evoluzione delle assunzioni in conseguenza dell’esaurimento dei benefici economici conferma questa osservazione.
Su questo parzialmente concordo: i tempi sono esigui. Tuttavia, a causa delle differenti date di entrata in vigore delle diverse norme, offrono comunque la possibilità di una valutazione quasi sperimentale più informativa del semplice confronto tra “il prima e il dopo”, almeno secondo gli standard della moderna analisi econometrica. Inoltre, l’effetto dell’incentivo fiscale potrebbe aver comportato un’anticipazione delle assunzioni future, ma l’esercizio empirico di Sestito e Viviano prova proprio a tenere conto di questo. (a.i.)
Inoltre vengono presi in considerazione lavoratori che vengono selezionati tra coloro “eligibili” – e cioè idonei per l’incentivo in quanto non occupati su basi permanenti nel semestre precedente alla nuova assunzione – e i lavoratori privi di tale caratteristica oltre che sulle imprese con più di 15 o con meno di 15 dipendenti. Una seconda critica è connessa al fatto che l’analisi dei gruppi di lavoratori dovrebbe essere effettuata su soggetti omogenei per quanto riguarda fattori – che condizionano le assunzioni – quali la capacità professionale, la caratterizzazione settoriale e così via. Queste distinzioni non vengono, invece, prese in considerazione.
Non è così: nelle stime si controlla per le caratteristiche dei lavoratori invarianti nel tempo. Quindi l’analisi è a parità di caratteristiche osservabili. (a.i.)
Un’ulteriore critica (la terza) può essere estesa anche al campione di imprese selezionato. Quelle analizzate avrebbero dovuto essere omogenee per quanto riguarda tecnologia, settore produttivo, tipologie di produzione (che sono tutte variabili che possono influire sulla scelta o meno di assumere).
Non è così: nelle stime si controlla per le caratteristiche delle imprese quali quelle menzionate. Inoltre il fatto di considerare le imprese di una sola regione consente di isolare anche effetti differenziati di ciclo economico tra regioni. (a.i.)
Inoltre (quarta critica), con una disciplina basata su risarcimenti economici, l’omogeneità dovrebbe essere valutata in relazione alla potenzialità finanziaria dell’impresa. Infatti la medesima entità del risarcimento produce effetti molto diversi a seconda della forza economica del datore di lavoro. Se un’impresa con 13/14 dipendenti potrebbe essere vicina, da questo punto di vista, ad una con 17/20 addetti, la questione è radicalmente diversa per le imprese molto più grandi. Con la conseguenza che lo stesso risarcimento del danno ha effetti economici assai diversi e può incidere in modo completamente differente sulla scelta se licenziare o meno e sulla stessa propensione all’assunzione.
Questo punto è uguale al precedente e – a mio avviso – ugualmente infondato. Come già detto, la tecnica econometrica utilizzata (che include i cosiddetti effetti fissi di impresa) permette di controllare per differenze stabili nella capacità finanziaria delle imprese, quali quella menzionata nell’esempio. (a.i.)
In considerazione di queste osservazioni, non mi sembra che si possa sostenere che lo studio della Banca d’Italia dimostrerebbe che “la riduzione dei costi di licenziamento e della loro incertezza ha avuto un effetto causale positivo e non trascurabile sulle assunzioni e sulle trasformazioni a tempo indeterminato” (Andrea Ichino). Senza dimenticare gli effetti non economici – in termini di minori diritti – connessi alla riduzione delle tutele in materia di licenziamenti, che, in una valutazione della riforma, dovrebbero essere considerati di importanza almeno pari a quelli legati al (presunto) incremento dell’occupazione.
Secondo quale metrica dovrebbe essere operata la comparazione qui proposta? In quale scala è possibile ponderare i minori diritti di chi è licenziato e i diritti (non tutelati nel nostro ordinamento) di coloro cui viene tolta l’opportunità di essere assunti per proteggere il posto di un lavoratore improduttivo? (a.i.)
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