“TUTTI DOVEVANO MORIRE, NOI COMPRESI”

Nel Giorno della memoria, 27 gennaio, propongo la pagina sconvolgente in cui Shlomo Venezia, un ebreo greco deportato ad Auschwitz, addetto al forno crematorio, assiste all’entrata nella camera a gas di un proprio parente

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Brano estratto dal libro di Shlomo Venezia,
Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, 2007, pp. 127-130 – V. anche il brano ripreso per il Giorno della Memoria dello scorso anno, tratto dal libro di Aldo Zargani, Per violino solo     .
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Un'immagine di Yad Vashem, il Museo della Memoria di Gerusalemme

Un’immagine del’asse centrale dello Yad Vashem, il Museo della Memoria della Shoah, a Gerusalemme

Poco tempo prima dello scoppio della rivolta, durante le ultime gassazioni di massa nel Crematorio, mi trovai per caso nello spogliatorio all’arrivo di un gruppo di prigionieri selezionati all’ospedale del campo. C’erano due o trecento persone e tutti sapevano perché si trovavano lì. A un tratto sentii qualcuno che mi chiamava: “Shlomo!”. Sorpreso, mi girai per vedere chi poteva conoscermi. La voce ripeté: “Shlomo, non mi riconosci?”.  Osservando l’uomo che aveva parlato, finii col riconoscere il cugino di mio padre, Leon Venezia. La sua voce era cambiata; era pelle e ossa. Era stato deportato nel mio stesso convoglio ma non era stato selezionato per il Sonderkommando. Mi raccontò che aveva lavorato alla canalizzazione delle acque. Aveva ricevuto un colpo al ginocchio, che si era gonfiato, ed era stato portato all’ospedale. Qui chiunque non guariva naturalmente rischiava, nel giro di qualche giorno, di venire selezionato per la camera a gas. Disgraziatamente era quello che gli era successo; senza cure il suo ginocchio si era gonfiato ancora di più e lo avevano scelto durante la selezione. Mi supplicò di andare a parlare con l’SS Unterscharführer di guardia per cercare di convincerlo a prenderlo nel Sonderkommando. Provai a spiegargli che non serviva a niente, che eravamo tutti nella stessa situazione, ma lui insistette. Allora, per calmarlo andai a parlare con il tedesco, che mi rispose con un gesto della mano: “Ah! Das ist scheissegal!”, “Non me ne frega niente!”. Tornai da Leon e per distrarlo gli chiesi se aveva fame, sapendo che non doveva aver mangiato gran che da chissà quanto tempo. Corsi a prendere una fetta di pane e una scatola di sardine che tenevo sotto il letto e ridiscesi rapidamente dalla soffitta per non correre il rischio che fosse già nella camera a gas. Gli diedi tutto e lui, talmente era affamato, inghiottì quello che gli offrivo senza neanche masticare, come se fosse acqua. Nel frattempo era venuto il suo turno per entrare nella camera a gas. Era tra gli ultimi e il tedesco si mise a urlare. Lo presi per il braccio mentre continuava a farmi domande sconvolgenti: “Quanto tempo ci si mette a morire? Si soffre molto?”.

La sala circolare dello Yad Vashem, dove per ogni vittima della Shoah viene conservato un dossier personale

La cupola della sala circolare dello Yad Vashem, dove di ogni vittima della Shoah viene conservato un dossier personale, per ridare un’identità a coloro cui gli sterminatori volevano toglierla

Non sapevo cosa rispondergli e per rassicurarlo mentii, dicendogli che non sarebbe durato molto, che non avrebbe sofferto. In realtà passare tra i dieci e i dodici minuti alla ricerca di aria è lungo… Dopo esserci abbracciati, lui entrò per ultimo e il tedesco chiuse la porta dietro di lui. I miei compagni mi sostennero e mi fecero allontanare perché non lo vedessi all’apertura della porta della camera a gas. Era già duro averlo visto così. Poi, quando lo portarono davanti ai forni, ci chiamarono me e mio fratello, per recidare un kaddish prima di bruciare il corpo. […]

Nessuno poteva sopravvivere. Tutti dovevano morire, noi compresi.

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