Uno studio rigoroso su quanto è accaduto nel Veneto nel 2015 attribuisce quasi un terzo dell’aumento delle assunzioni stabili verificatesi alla nuova disciplina dei licenziamenti, poco più di due terzi alla decontribuzione
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Articolo di Andrea Ichino pubblicato sull’inserto Corriere Economia del Corriere della Sera il 24 dicembre 2017 – In argomento v. anche la mia intervista L’incentivo economico alle assunzioni stabili è servito o no? , il mio articolo Lavoro: che cosa è imputabile al Jobs Act e che cosa no e l’articolo di Luca Ricolfi Mercato del lavoro: l’eredità della crisi e il peso del debito
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Un difetto grave del dibattito sulla politica economica nel nostro Paese, è che raramente si basa su evidenza sperimentale. Nel campo della sanità invece i farmaci, prima di essere messi a disposizione degli utenti, vengono generalmente valutati alla luce di dettagliati protocolli sperimentali. Qualcuno ricorderà il dibattito sulla «cura Di Bella» contro il cancro, incredibilmente diventato uno scontro tra destra e sinistra in questo strano nostro Paese: i risultati di una sperimentazione pubblicati sul British Medical Journal nel 1999, anche se caratterizzati da alcuni limiti nel disegno sperimentale, hanno poi evidenziato l’assenza di effetti positivi e di quella cura non abbiamo più sentito parlare.
Se qualcosa di simile fosse avvenuto per il Jobs Act, anche il dibattito su questo intervento non sarebbe stato guidato dalle aprioristiche convinzioni dei favorevoli e dei contrari, e oggi avremmo informazioni sufficienti per decidere in modo non ideologico se i suoi effetti siano stati positivi o negativi, piccoli o grandi. Si potrebbe pensare che sia difficile valutare in questo modo una modifica della disciplina dei licenziamenti, ma non è così. Una sperimentazione informativa sarebbe stata possibile e in altri Paesi è normale che le politiche del lavoro (e non solo) siano accompagnate dagli strumenti che ne consentono la valutazione.
Anche quando sperimentazioni controllate di questa natura non sono possibili (o è ormai troppo tardi per realizzarle), il giudizio sulle politiche dovrebbe comunque basarsi su stime di effetti causali, non di semplici correlazioni. È evidente a tutti, per esempio, che dove è più alta la densità di dottori è più alta anche la densità di malati, ma sarebbe ovviamente errato concludere che la presenza di dottori sia la causa delle malattie. Gran parte della ricerca empirica degli economisti è proprio finalizzata a sfruttare caratteristiche istituzionali o ambientali che consentano di identificare nessi causali anche in assenza di sperimentazioni controllate.
Nel caso del Jobs Act, un articolo di Paolo Sestito e Eliana Viviano (Banca d’Italia), in corso di pubblicazione su Economic Policy, è un esempio di valutazione seria che purtroppo raramente si osserva in Italia. Il loro obiettivo è misurare l’effetto, sulle assunzioni a tempo indeterminato e sulle trasformazioni di contratti a termine, dei due interventi principali che costituiscono il Jobs Act: da un lato la riduzione (permanente) dei costi di licenziamento e della loro incertezza connessa all’aleatorietà delle decisioni dei giudici, e dall’altro l’introduzione (temporanea) di una significativa riduzione dei contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Separare tra loro gli effetti di questi due interventi e separare entrambi dalla evoluzione del ciclo economico è ovviamente difficile senza un esperimento. Sestito e Viviano riescono a farlo sfruttando i dati di www.venetolavoro.it sull’universo dei rapporti di impiego in questa regione (ministro Poletti, perché questi dati essenziali per la valutazione delle politiche del lavoro sono disponibili solo per il Veneto?).
Il metodo da loro utilizzato è il seguente. Supponiamo che esistano due tipi di imprese, T (trattate) e C (non trattate), e che l’intervento entri in vigore ad una data D. Consideriamo il numero di nuove assunzioni effettuate dalle imprese T e C prima e dopo la data D. Supponiamo di osservare che la differenza tra le imprese T e C sia costante per un lungo periodo prima della entrata in vigore del provvedimento, ma aumenti subito dopo. Poiché l’unica cosa che cambia alla data D è l’entrata in vigore del provvedimento, è ragionevole concludere che l’aumento della differenza tra i comportamenti delle imprese T e C sia imputabile al provvedimento (Difference-in-Difference).
L’applicazione concreta di questo metodo ai due provvedimenti del Jobs Act è più complessa, ma comunque possibile per due motivi. In primo luogo, grazie al divario tra le date nelle quali sono entrati in vigore (rispettivamente gennaio e marzo 2015). In secondo luogo, grazie ai diversi gruppi di imprese ai quali sono stati applicati: gli incentivi erano infatti destinati a tutte le imprese che avessero assunto dipendenti privi di un contratto a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, mentre la riduzione dei costi di licenziamento ha interessato le imprese con più di 15 dipendenti.
La figura riassume i risultati. Durante il 2015, nel campione esaminato, le nuove assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato sono state circa 10.000 al mese. Di queste, il 20% è attribuibile alla decontribuzione e l’8% è dovuto alla nuova disciplina dei licenziamenti. Mentre il primo di questi risultati è scontato, anche data l’entità della riduzione contributiva, il secondo non lo è affatto: grazie a questo studio possiamo affermare che la riduzione dei costi di licenziamento e della loro incertezza ha avuto un effetto causale positivo e non trascurabile sulle assunzioni e sulle trasformazioni a tempo indeterminato.
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