Gli effetti delle buone riforme si vedono nel medio e lungo termine; al Jobs Act possiamo però attribuire fin d’ora la riduzione drastica del contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti; mentre possiamo smentire, dati alla mano, la tesi della “precarizzazione” – La necessaria mobilità dalle imprese deboli a quelle ad alta produttività
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Articolo pubblicato su il Foglio, 8 gennaio 2018, che riprende con alcune integrazioni il mio intervento all’assemblea nazionale di LibertàEguale del 3 dicembre 2017 – In riferimento alla riforma del lavoro del 2015 v. i documenti e gli interventi raccolti nel Portale della riforma del lavoro .
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Tra le grandi difficoltà che incontrano i riformatori seri non ci sono soltanto le resistenze preventive dei conservatori, ma anche e soprattutto la pretesa di quasi tutti – i contrari come i favorevoli – che gli effetti della riforma si vedano istantaneamente o in tempi brevissimi. Questo non si dà quasi mai: né nel caso della riforma attuata per mezzo di nuove norme legislative, né, tanto meno, nel caso della riforma organizzativa, che incide direttamente sulla capacità di un’amministrazione di implementare nuovi schemi.
La fretta di vedere i risultati contagia tutti. Oggi, in particolare, noi che due anni fa abbiamo progettato, approvato e sostenuto con la maggiore convinzione la riforma del lavoro dobbiamo resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione registratosi da allora, pur molto rilevante, come dimostrazione della bontà di quella legge. Può servire per uscire bene da un talk show, ma è un argomento privo di consistenza: nessuno può dire seriamente se e quale aumento dell’occupazione si sarebbe verificato in Italia, come effetto della incipiente crescita economica, se la riforma non fosse stata fatta. Viceversa, sul fronte delle politiche attive del lavoro – quelle che dovrebbero sostenere sul piano economico e dell’assistenza il passaggio dal vecchio lavoro al nuovo, la riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali concretamente possibili – dobbiamo riconoscere onestamente che il livello dell’implementazione della riforma è ancora molto modesto, per un difetto di riorganizzazione effettiva dell’apparato ministeriale.
Una cosa possiamo, invece, e dobbiamo affermare con forza e saper spiegare all’opinione pubblica: questa riforma, insieme a quella delle pensioni del 2012, e insieme al rispetto da parte nostra degli impegni presi nei confronti dei nostri Partner europei in materia di bilancio statale, costituisce un presupposto indispensabile senza il quale
- non sarebbe stata neppure pensabile la politica monetaria espansiva della BCE, che costituisce uno dei fattori più rilevanti della nostra crescita attuale;
- non sarebbe neppure pensabile oggi l’avvio di un programma di grandi investimenti dell’UE finanziati mediante l’emissione dei project bonds, che può costituire il primo atto di una politica economico-industriale espansiva promossa e gestita al livello continentale;
- il nostro Paese non potrebbe aspirare credibilmente ad attuare il trasferimento spontaneo e graduale di forza-lavoro dalle imprese marginali, o comunque a bassa produttività, alle imprese più tecnologicamente avanzate e più capaci di valorizzare il lavoro degli italiani: trasferimento senza il quale è difficile ottenere quel significativo aumento della produttività del lavoro del quale il nostro sistema ha disperato bisogno;
- il nostro Paese non potrebbe aspirare a tornare attrattivo per gli investimenti diretti esteri, allineandosi per questo aspetto alla media UE: obiettivo che, se raggiunto, può portare con sé un aumento di oltre 50 miliardi (tre punti percentuali e mezzo rispetto al nostro PIL) del flusso annuo di investimenti stranieri in ingresso.
Certo, l’attrattività dell’Italia per gli operatori economici internazionali dipende anche da un suo allineamento rispetto ai maggiori partner europei per quel che riguarda la pressione fiscale su imprese e lavoro, il costo dell’energia, l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e in particolare di quella giudiziaria: tutti campi, pure questi, nei quali negli ultimi anni si sono fatti dei passi avanti rilevanti. Ma insieme a questi anche l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto ai migliori standard europei, compiuto con la riforma del 2015, costituisce un passo avanti di primaria importanza nella direzione necessaria. Ed è indispensabile che le nuove norme varate non si rivelino volatili, quindi inaffidabili: hanno un effetto negativo sul piano economico, da questo punto di vista, sia i preannunci di contro-riforma contenuti nei programmi elettorali di diversi partiti oggi all’opposizione, sia i tentativi di contro-riforma per via giudiziaria e in particolare per mezzo di ricorso alla Corte costituzionale.
Detto questo in linea generale, ci sono poi due dati statistici che possono, senza alcuna forzatura, essere considerati molto significativi riguardo all’impatto immediato delle riforme del lavoro attuate progressivamente tra il 2012 e il 2015: due dati entrambi sorprendenti se considerati isolatamente, ma resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015, o dopo. Un dato, questo, che per un verso smentisce nel modo più netto la tesi secondo cui la riforma avrebbe “precarizzato” i rapporti di lavoro nel nostro Paese; per altro verso, obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, una fluidificazione del tessuto produttivo e del mercato del lavoro meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso.
Il secondo dato sorprendente, solo apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche più rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.
Questa riduzione drastica del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto positivo di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’imprevedibilità dell’orientamento personale del magistrato cui il procedimento sarà affidato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.
Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso importante nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.
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