Il segretario del Pd ha saputo compiere il miracolo di rivitalizzare una legislatura che sembrava morta – Poi, dopo il referendum dell’anno scorso, è parso perdere la bussola della “riforma europea”; ma è subito tornato a porre questa scelta in modo inequivoco al centro del programma del Pd: ed è quanto oggi è indispensabile
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Intervista a cura di David Allegranti pubblicata dal Foglio il 19 dicembre, a seguito del mio editoriale telegrafico del giorno prima, Bilancio di una legislatura .
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Pietro Ichino, senatore del Pd, era stata prospettata una legislatura sufficientemente inutile a inizio legislatura. Adesso che siamo arrivati alla fine, che bilancio ne fa?
Più che inutile, era parsa una legislatura impossibile, per l’assenza di una maggioranza in Senato, poi, con il Governo Letta, per la formazione di una maggioranza priva di una direzione chiara di marcia, quindi tendente al surplace. Enrico Letta teorizzava la “politica del cacciavite”, cioè dei piccoli aggiustamenti; ma nei dieci mesi del suo governo stento a vedere persino quegli interventi minuti di cacciavite. In una situazione nella quale occorrevano invece interventi molto più incisivi, sia sul piano economico, sia su quello istituzionale. C’era da una parte un Pd ancora sotto choc per la “non vittoria”, dall’altra Forza Italia in grave difficoltà per i fatti suoi; e da una terza parte il M5S, che puntava proprio sulla paralisi. Matteo Renzi seppe compiere il miracolo di rivitalizzare una legislatura che sembrava nata morta.
Gli si rimprovera però di avere voluto personalizzare troppo la sua politica.
Anche chi gli rimprovera le colpe più gravi – e, certo, alcune ci sono state – deve riconoscere che quelli dei Governi Renzi e Gentiloni sono stati quattro anni di attività intensa e sempre coerente con l’obiettivo fondamentale dell’integrazione europea. Anni che hanno segnato uno spartiacque su cose molto importanti: la riforma del lavoro più incisiva dopo quella del 1970, salutata dagli osservatori stranieri qualificati come indispensabile allineamento ai migliori standard dell’occidente industrializzato; il REI-reddito d’inclusione, per dotarci di uno strumento moderno contro la povertà; la riforma delle banche popolari; la riscrittura integrale del diritto fallimentare; la fondazione di una politica europea sull’immigrazione; la responsabilizzazione dei dirigenti degli istituti scolastici; le unioni civili; il divorzio breve; il biotestamento; e diverse altre ancora. Ma vanno messe nel conto anche le riforme che sono state bocciate dal referendum del dicembre 2016 o dalla Consulta: la riforma elettorale del 2015 con il ballottaggio, di cui ora sentiamo la mancanza in modo bruciante; la riforma costituzionale nel senso del monocameralismo, con la soppressione delle province e del CNEL; la riforma della dirigenza pubblica. Bocciate, sì; ma non inutili: perché è dalle intuizioni da cui esse sono nate che occorrerà pur sempre ripartire, se vorremo evitare che la politica italiana ritorni nella palude in cui si era impantanata all’inizio di questa legislatura.
Gli avversari rimproverano a Renzi anche di non aver saputo trovare, dopo la sconfitta al referendum, una formula-manifesto simile a quella della rottamazione, molto utile per distinguersi e raccogliere consensi. Secondo Lei in cosa il segretario del Pd ha sbagliato e in cosa invece ha fatto bene?
È vero, dopo la batosta del referendum Renzi ha perso un po’ della grande lucidità che aveva mostrato nel 2014-2015. Innanzitutto sul piano strategico, mostrando una vista un po’ appannata sulla scelta fondamentale dell’integrazione europea e della riforma europea dell’Italia: penso soprattutto alla sua sbandata sul “ritorno a Maastricht”, al deficit al tre per cento per finanziare l’abbassamento delle tasse. Quando lo ha proposto non si è reso conto che avrebbe significato un ritorno indietro dell’intera Unione Europea. Ma anche sul piano tattico, della comunicazione quotidiana: certe sue uscite su pensioni e tasse sono parse addirittura come una svalutazione di quello che aveva fatto il suo governo e di quello che stava facendo il governo Gentiloni. Il Pd deve invece valorizzare proprio l’operato di questi due governi, che sono stati entrambi governi in tutto e per tutto suoi. E che tra l’altro sembrano, dai sondaggi, avere un sostanziale apprezzamento positivo da parte di quattro elettori su dieci. Per fortuna Renzi ha capito l’errore e lo ha corretto. Credo che per questo il suo colloquio con Macron sia stato decisivo.
Lei preferirebbe – nel 2018 – un esecutivo guidato da Paolo Gentiloni o auspica il ritorno di Renzi?
Renzi e Gentiloni hanno qualità politiche che più diverse non potrebbero essere. Per la fase che si aprirà dopo le elezioni, se i numeri consentissero un governo con un Pd “primo partito” in maggioranza, probabilmente le qualità di Gentiloni sarebbero le più adatte. Però Renzi conserva una visione non “politicista” della politica e una capacità straordinaria di comunicarla, che è indispensabile al Pd.
Da quali iniziative dovrebbe ripartire il centrosinistra?
Se devo rispondere in due righe, posso farlo soltanto richiamando le proposte uscite dall’assemblea di LibertàEguale di Orvieto il 3 dicembre scorso, sintetizzate in modo perfetto nelle conclusioni di Enrico Morando. Sul piano istituzionale, ripartire dal progetto Ceccanti di riforma in senso semi-presidenzialista, alla francese; sul piano economico, continuare sul sentiero stretto della “riforma europea dell’Italia”: l’unico che consente, al tempo stesso, di puntare sulle politiche espansive della BCE e della Commissione Europea, e di puntare a diventare attrattivi per i gli investimenti stranieri, dei quali abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo.
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