Il sostegno alla procreazione dovrebbe diventare un elemento base della politica italiana, come lo è di quella di altri Paesi a noi vicini: aiutare le coppie ad avere i figli che desiderano è indispensabile per rivitalizzare le città e le campagne italiane, ma anche per mettere in sicurezza il nostro sistema previdenziale e il nostro bilancio pubblico
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Articolo di Gianpiero Dalla Zuanna, senatore PD e professore di demografia nell’Università di Padova, pubblicato su Il Mattino il 28 novembre 2017 – In argomento v. anche l’articolo di Maurizio Ferrera Il valore della famiglia: meno ideologia, più aiuti concreti .
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Un report dell’Istat ha confermato che nel 2016 sono nati 473 mila bambini, oltre 12 mila in meno rispetto al 2015. Nell’arco di 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità. La bassissima fecondità italiana ha ormai trent’anni di storia, perché è dal 1985 che nascono meno di 1.500 figli ogni mille donne in età fertile. Eppure, fino al 2005 il numero di nascite è rimasto abbastanza elevato, superiore a 520-550 mila, perché negli anni precedenti si sono stabilite in Italia molte coppie straniere, e perché erano in età fertile le figlie del baby boom, nate fra metà anni ’50 e metà anni ’70. Ma nel corso degli anni ’10 le cose cambiano: il numero di donne in età fertile continua a diminuire, assieme alla propensione ad avere figli. Nel 2016 in Italia sono nati 1.340 figli ogni mille donne in età fertile, quando ne sarebbero necessari almeno 1.800 per mantenere un numero sufficiente di giovani e di adulti, evitando un rapido invecchiamento della popolazione, a meno di intensi e continui ingressi stabili di stranieri. Ingressi che – al di là della comune percezione – nell’ultimo decennio sono drasticamente diminuiti, perché l’Italia è diventata più in paese di passaggio che un luogo di stabile permanenza. Se la propensione ad avere figli non aumenterà e se non arriveranno molte famiglie immigrate, il numero di nascite in Italia si ridurrà ancora, andando al di sotto 400 mila nel breve volgere di un decennio, perché le donne italiane in età fertile continueranno inesorabilmente a diminuire.
Fino a qui i numeri. Interroghiamoci ora sulla loro sostenibilità e sulle eventuali misure che possano invertire queste tendenze. Un ulteriore, drastico calo delle nascite non è auspicabile. Nel breve periodo, meno bambini vuol dire riduzione di tutto ciò che attorno ai bambini ruota: chiusura di asili e scuole, spopolamento dei paesini isolati, e così via. Solo quest’anno, la Campania ha perso 14 mila studenti, 500 e passa classi in meno rispetto all’anno scolastico precedente. Nel lungo periodo, meno bambini vuol dire meno lavoratori, e quindi un sistema pensionistico e sanitario sempre meno sostenibile, a meno di ingressi molto consistenti di stranieri, con tutte le difficoltà del caso. Per utilizzare il linguaggio degli economisti, i figli (come gli immigrati, del resto) non sono solo un “bene privato” ma anche un “bene pubblico” (una “esternalità positiva”), perché sono utili anche a chi di figli non ne ha. Una società benestante e demograficamente sana vede il numero di anziani aumentare, grazie a migliori stili di vita e ai progressi sanitari, ma vede anche il numero di bambini, giovani e adulti che non diminuisce, grazie a un equilibrato apporto delle nascite e delle migrazioni. È quanto accade, oggi, in Paesi come la Germania, il Regno Unito, la Svezia e la Francia. Quindi non è vero che il benessere non è compatibile con 2-3 figli per donna e con ragionevoli flussi di immigrazioni. È però necessario che – oltre a contare su uno sviluppo economico continuativo e sufficientemente vivace – la società sia organizzata in modo che le famiglie con 2-3 figli e le famiglie immigrate non siano pesantemente penalizzate. Guardando all’esperienza dei Paesi appena citati, le politiche dell’Italia dovrebbero cambiare su tre aspetti.
In primo luogo, va costruita una fiscalità di vantaggio per le famiglie con più figli. La questione è prima di tutto culturale: se in trent’anni nessun governo – di ogni colore – è intervenuto in modo adeguato, è perché nessuno ha mai preso sul serio l’idea che un bambino in più sia un vantaggio anche per chi di figli non ne ha. Non ricordo nessuno sciopero per aumentare gli assegni familiari. C’è da augurarsi che questa nuova rapida diminuzione delle nascite susciti un allarme tale da indurre un cambio drastico e rapido di mentalità. Matteo Renzi, alla Leopolda di domenica, ha detto a chiare lettere che senza figli non c’è futuro, evocando l’estensione degli 80 euro alle famiglie con figli a carico, ponendo il tema come prioritario per la prossima legislatura. Bene aver messo il tema sotto i riflettori. La proposta andrà meglio precisata, perché tutto il sistema di sostegno alle famiglie con figli va rivisto, perché è iniquo, squilibrato e mal finanziato. Oggi ci sono 11 diverse misure nazionali di sostegno alle famiglie (dagli assegni familiari, alle detrazioni, a bonus vari, incluso quello per i bambini poveri con meno di tre anni, confermato dalla Legge di Bilancio 2018) ma alcune categorie particolarmente svantaggiate – ad esempio i disoccupati con due figli minori di età superiore a tre anni – prendono poco o nulla. A mio avviso, conviene ripartire da un disegno di legge che ora giace in Senato, a prima firma Lepri, che propone un assegno universale per i figli delle famiglie con reddito medio-basso, assorbendo tutte le misure oggi esistenti, salvaguardando gli attuali beneficiari ed aumentando in modo sensibile, ma ragionevole, le risorse disponibili.
È poi necessario che gli uomini e (specialmente ) le donne riescano a conciliare il lavoro di cura con il lavoro per il mercato: l’arrivo di un nuovo figlio dovrebbe essere “neutrale” rispetto alle possibilità di lavoro e di carriera di entrambi i genitori. Anche queste misure possono essere di vario genere, e sottendono l’idea che una società costruita a misura delle coppie con più di un figlio sia un grande vantaggio collettivo. L’incremento delle risorse per nidi e scuole per l’infanzia della Buona Scuola dovrà presto trovare attuazione concreta in tutte le regioni italiane.
Infine tutti – inclusi gli stranieri in pianta stabile in Italia, che spesso hanno più figli rispetto alle coppie italiane, e non godono di ricche reti familiari – dovrebbero essere protetti dal rischio di cadere in povertà, non in modo assistenziale, ma attraverso misure di inclusione attiva. L’avvio dal primo dicembre del REI (Reddito di Inclusione) è un passo molto importante in questa direzione, forse una delle misure più rilevanti attivate in questa legislatura.
Insomma, il contrasto alla bassa natalità dovrebbe diventare un elemento base anche della politica italiana, come già è accaduto in altri paesi. Non per un improbabile e ridicolo ritorno a otto milioni di baionette, ma per aiutare le coppie ad avere i figli che desiderano, rivitalizzando in questo modo i paesi e le città italiane. L’alternativa è continuare a far finta di niente, ma nel giro di pochi anni la demografia presenterà un conto molto, molto salato.
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