Perché è bene che la riforma del 2015 si consolidi: essa non ha affatto “precarizzato” i rapporti di lavoro, ma sta solo rendendo più fluido il passaggio dalle aziende meno produttive a quelle più capaci di valorizzare il lavoro dei loro dipendenti
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Intervista a cura di Giulia Cazzaniga, pubblicata su Libero il 24 novembre 2017 – In argomento v. anche L’ossessione per l’articolo 18: appunti sulla trattativa fra Pd ed Mdp .
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Chiediamo a Pietro Ichino, giuslavorista, senatore del Pd, cosa risponda a chi sostiene che il Jobs Act abbia reso più precario il mondo del lavoro. «Rispondo che nell’ultimo triennio, nell’area del lavoro dipendente, i rapporti stabili sono aumentati più, 565mila, di quelli a termine, 485mila», ci dice: «E in relazione ai rapporti stabili in Italia il tasso dei licenziamenti non è aumentato rispetto al livello, fra l’1,3 e l’1,4 per cento, sul quale era attestato prima della riforma. Chi parla di “precarizzazione” dovrebbe spiegare a che cosa si riferisce.
Il contratto a termine – così sembrano dire i dati – è il preferito degli imprenditori, dopo il boom dovuto alla decontribuzione. Come si spiega?
«È il preferito nella prima fase del rapporto di lavoro. Ma se guardiamo la forza-lavoro occupata nel suo complesso, la percentuale dei dipendenti a tempo indeterminato, intorno all’85 per cento del totale, rimane sia pur di poco superiore rispetto alla media UE.»
La maggiore flessibilità in uscita non avrebbe dovuto invece incentivare i contratti a tempo indeterminato?
«Questo è negli intendimenti di chi ha voluto la riforma. Però la cultura dei consigli di amministrazione e dei direttori del personale non cambia immediatamente al mutare della norma nella Gazzetta Ufficiale. Sono convinto che, quando si sarà superata la preoccupazione che una nuova maggioranza politica faccia marcia indietro rispetto alla riforma, o che la Corte costituzionale reintroduca l’articolo 18 per sentenza, anche i consigli di amministrazione e i direttori del personale si convinceranno che assumere a tempo indeterminato conviene all’impresa, oltre che alla persona assunta.»
Quali sono o potrebbero essere le proposte, nel concreto, per aumentare la quota dei contratti stabili?
«Va chiarito, preliminarmente, che stiamo parlando di aumentare la quota dei contratti stabili sul flusso totale delle assunzioni. Non abbiamo motivo, invece, di proporci di aumentare quell’85 per cento di lavoratori stabili rispetto alla forza-lavoro dipendente totale, che è perfettamente in linea con il resto d’Europa. Per favorire una maggiore rapidità nel passaggio dal contratto a termine al contratto a tempo indeterminato, una misura accettabile mi sembra la riduzione da 36 a 24 mesi del periodo massimo di lavoro a termine ammesso dalla norma del 2014.»
Sta di fatto che si ragiona da anni sulla flexsecurity, ma oggi qualcuno a sinistra torna a proporre di reintrodurre la reintegrazione per i licenziamenti collettivi.
«Questa a me sembra la proposta che ha meno senso di tutte. Quando il giudice escluda il motivo discriminatorio o di rappresaglia antisindacale, il costo economico del licenziamento costituisce il “filtro automatico” delle scelte imprenditoriali migliore che si possa immaginare. Anche perché il motivo del licenziamento economico è essenzialmente costituito da una perdita futura, che l’imprenditore si attende dalla prosecuzione del rapporto; e gli eventi futuri non possono essere dimostrati in giudizio.»
Una proposta di legge per ripristinare l’articolo 18, come quella presentata alla Camera da Mdp, è solo una provocazione o potrebbe raccogliere consenso da alcune forze politiche, non solo a sinistra?
«Il M5S ha manifestato la propria disponibilità a votarla. Per fortuna è molto improbabile che nella prossima legislatura il M5S con Mdp raggiunga la maggioranza in Parlamento.»
Ma se il tasso dei licenziamenti non è cambiato con la riforma, che cosa cambierebbe col ritorno dell’articolo 18?
«Torneremmo a una maggiore vischiosità del mercato del lavoro, che renderebbe meno facile il passaggio dei lavoratori dalle imprese poco produttive a quelle più produttive. E più difficile per chi è fuori della cittadella del lavoro regolare entrarvi.»
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