SCHEMA SINTETICO DEGLI ARGOMENTI NEL DIALOGO ICHINO-SACCONI

Lorenzo Sacconi: “In realtà il comportamento degli imprenditori, come quello dei lavoratori non risponde a un modello fondato sulla razionalità” – La replica: “Pur con tutti i loro limiti, che possono essere individuati e studiati, i modelli fondati sulla razionalità dei comportamenti spiegano pur sempre una parte rilevante della realtà economica e sociale”

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Quella che segue è una tabella sintetica che ho predisposto al fine di rendere più facilmente fruibile lo scambio epistolare tra Lorenzo Sacconi e me, svoltosi in preparazione di una sessione della conferenza annuale della Società Italiana di Diritto ed Economia che si svolgerà a Roma il 15 dicembre prossimo: ivi i link ad altri scritti di Lorenzo Sacconi e miei, per chi volesse approfondire l’argomento

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Pietro Ichino 4

Pietro Ichino

Lorenzo Sacconi 3

Lorenzo Sacconi

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In questa colonna sonportate le tesi di Lorenzo Sacconi (in nero) o di Pietro Ichino (in blu)

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In questa colonna sono riportate le risposte, rispettivamente di P.I. (in blu), o di L.S. (in nero)

Lorenzo Sacconi

Pietro Ichino

1. Il modello prescelto

Ogni lavoratore può compiere, oppure no, un investimento specifico sul proprio capitale umano, in funzione delle esigenze della propria azienda, suscettibile di migliorarne l’efficienza, ma utile soltanto lì e non altrove: donde l’effetto lock-in a danno del lavoratore, il quale può valorizzare il proprio investimento soltanto se resta nella stessa impresa, non se si sposta in un’altra. Se non si impedisce il licenziamento, l’imprenditore può approfittarne.

1. Gli altri modelli possibili

Il modello basato sull’investimento specifico del singolo lavoratore è importante e utile per illuminare una parte della realtà dei rapporti di lavoro. Ma è ancora molto generico: occorre anche chiarire se si ragiona di un’impresa operante in un mercato del lavoro monopsonistico, oppure no.

Questo modello, poi, può proporsi di spiegare soltanto la necessità di una limitazione del potere di licenziare, non la necessità della sanzione reintegratoria. A favore della sanzione indennitaria c’è invece tutta un’altra parte di realtà, almeno altrettanto importante, che non può essere ignorata:

Il discorso non è limitato al modello dell’impresa operante in un mercato del lavoro monopsonistico: anche in un mercato concorrenziale le imperfezioni informative e la non razionalità dei comportamenti conduce a risultati non dissimili, per l’aspetto di cui stiamo discutendo. –   altre declinazioni possibili del modello Principal/Agent, con le altre possibili incidenze del moral hazard;

–   il rapporto di lavoro come rapporto assicurativo (e la limitazione del licenziamento come copertura assicurativa a carico dell’imprenditore, che non può essere illimitata).

Un aumento della protezione della stabilità dei lavoratori nell’impresa favorisce gli investimenti volti a rendere più produttivo il lavoro. Viceversa, una riduzione della stabilità stessa corrisponde a una visione generale in cui al basso livello di trattamento corrisponde una bassa produttività. Il discorso, poi, non può fermarsi al livello micro. Vanno considerati anche, sul piano macro:

–   l’esigenza di evitare la penalizzazione degli outsider: si può anche forzare l’impresa a riservare ai dipendenti un trattamento più elevato per favorire gli investimenti che rendono il lavoro più produttivo, ma questo può generare disoccupazione;

–   l’esigenza di favorire la migliore allocazione delle risorse umane, che è ostacolata dalla vischiosità del tessuto produttivo.

Per realizzare il migliore bilanciamento di tutte queste esigenze la liability rule (sanzione indennitaria), con la maggiore modulabilità dell’entità della sanzione, appare molto più adatta della property rule (sanzione reintegratoria).

 

2. Sviluppo dell’argomento di L.S.

Se l’imprenditore è libero di licenziare, il lavoratore che abbia compiuto l’investimento specifico non potrà rivendicare alcuna spartizione del frutto del proprio investimento: rischierebbe infatti di essere licenziato.

2. Repliche e obiezioni di P.I. su questo punto

Prima obiezione: nel mondo reale, quando il lavoratore abbia compiuto l’investimento specifico, l’imprenditore non ha alcun interesse a licenziarlo, anche perché il nuovo assunto è probabilmente meno produttivo.

Il risultato della libertà di licenziare è dunque un disincentivo per i lavoratori a compiere quell’investimento specifico. Con un effetto generale depressivo sulla produttività del lavoro e una perdita di efficienza e di competitività delle imprese.

 

Seconda obiezione: il licenziamento del lavoratore che si è impegnato di più, crea in capo all’imprenditore una reputazione che lo condanna ad avere lavoratori poco propensi a impegnarsi. Ne deriva che egli è un cattivo imprenditore.

I lavoratori migliori tenderanno a evitare l’impresa scorretta e rapace.

 

È vero che in un mercato del lavoro perfetto questo comportamento peggiora la reputazione dell’imprenditore, allontanandone i lavoratori migliori; ma nella realtà il mercato del lavoro non è perfetto: in particolare ai lavoratori futuri manca l’informazione su quanto accaduto in precedenza. E, addirittura, la riforma del 2015, favorendo la soluzione transattiva, aiuta l’imprenditore a nascondere il licenziamento abusivo. Quanto al possibile difetto di informazione dei lavoratori futuri sul comportamento passato dell’imprenditore, in realtà

–   in qualsiasi azienda ogni caso di licenziamento è considerato e seguito da tutti i lavoratori con grande attenzione;

–   la stessa organizzazione sindacale ha, tra le altre, la funzione di assicurare la memoria storica circa le vicende di ciascuna azienda;

–   i dati disponibili, comunque, indicano che le riforme del 2012 e del 2015 non hanno prodotto un aumento rilevante della frequenza dei licenziamenti.

Comunque, teorizzare una capacità dei lavoratori di scegliere l’imprenditore migliore sulla base della sua reputazione significa presupporre un mercato del lavoro in cui tutti operano razionalmente, disponendo di tutte le informazioni rilevanti per la decisione. La realtà è molto più imperfetta. Anche escludere questa capacità dei lavoratori, però, costituisce un’astrazione.

Sarebbe interessante ragionare su dati che ci dicano quanto i lavoratori, nel tessuto produttivo italiano attuale, sono effettivamente capaci di scelta.

La sanzione della reintegrazione comminata contro il licenziamento opportunistico dà al lavoratore il necessario potere di negoziazione con l’imprenditore del premio per l’investimento specifico (ma meglio ancora sarebbe l’istituzione in seno all’impresa di un meccanismo cogestionale, che affidi a un organismo paritetico la decisione sia riguardo ai licenziamenti, sia riguardo alle dinamiche retributive in relazione all’andamento dell’impresa). Se il problema è quello di impedire il licenziamento opportunistico, perché la sola sanzione efficace dovrebbe consistere nella reintegrazione? Perché mai non potrebbe essere efficace una sanzione indennitaria di entità pari o superiore al beneficio dell’investimento specifico di cui l’imprenditore potrebbe essere interessato ad appropriarsi indebitamente?
Il ragionamento schematizzato sopra non è riferito soltanto all’azienda situata in un mercato del lavoro monopsonistico: anche quando l’azienda si collochi in un mercato del lavoro bilateralmente concorrenziale è comunque sempre operante l’effetto lock-in prodotto dall’investimento specifico. Se questo fosse vero, come si spiegherebbe il fatto che nella stragrande maggioranza dei Paesi economicamente maturi contro il licenziamento ingiustificato si applica soltanto una sanzione indennitaria e non la reintegrazione?

Pietro Ichino

Lorenzo Sacconi

3. Il passaggio dalla property alla liability rule (armonizzazione rispetto agli altri ordinamenti europei)  

Repliche e obiezioni di L.S.

La riforma del 2012-2015 ha mirato ad allineare il nostro con gli ordinamenti dei principali Paesi europei, sostituendo per i nuovi rapporti di lavoro il vecchio apparato sanzionatorio dell’art. 18 St.lav.

– configurabile sostanzialmente come una property rule – con un apparato sanzionatorio costituito da una liability rule, cioè una sanzione di tipo indennitario.

Possiamo dire che la tendenziale deindustrializzazione di paesi come gli USA e l’UK rispetto a Germania e Giappone , e la tendenziale discesa della qualità  dell’occupazione industriale in Italia (salari più bassi, qualifiche più basse, tipologia di produzioni più basse) riflettono esattamente gli effetti del venir progressivamente meno della protezione degli investimenti specifici e della complementarietà tra le risorse  umane e cognitive degli occupati?
In questo modo il policy maker si propone di soddisfare diverse esigenze.

 

A) La necessità di ridurre la vischiosità del tessuto produttivo conseguente al regime di job property, per favorire la migliore allocazione delle risorse umane.

 

B) La necessità di prestabilire in modo certo l’entità della copertura assicurativa che il contratto offre al lavoratore, in relazione alle sopravvenienze negative.

La sanzione della reintegrazione combinata con l’incertezza dell’esito della causa presenta questo vantaggio rispetto al risarcimento prefissato (che potrebbe essere troppo basso rispetto al beneficio conseguente all’investimento specifico del lavoratore): essa spinge a una soluzione concordata che tiene conto dei termini effettivi della contesa (il valore cui il lavoratore aspira e di cui l’impresa vorrebbe appropriarsi) su cui le parti sono informate meglio di chiunque altro.
C) L’esigenza di attuare meglio il principio costituzionale di insindacabilità delle scelte imprenditoriali in materia di struttura e organizzazione dell’attività aziendale, in una situazione nella quale le ragioni delle scelte di scioglimento dei rapporti di lavoro, essendo costituite dall’attesa di una perdita come conseguenza dalla prosecuzione del rapporto di lavoro, cioè da valutazioni de futuro, non sono dimostrabili in giudizio.

Le sopravvenienze negative per le quali l’imprenditore può essere ragionevolmente interessato a recedere dal contratto di lavoro possono essere molte:
– shock tecnologico esterno;

– necessità di competenze diverse;
– previsione di contrazione del lavoro.

Il “filtro automatico” costituito da un severance cost, lasciando al giudice il controllo sui possibili motivi illeciti nascosti (discriminazioni, rappresaglie, ecc.) appare la soluzione più efficiente.

Se si attribuisce al giudice il controllo su queste ragioni, viene meno l’insindacabilità delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore.

La gerarchia aziendale e l’autorità sono riconosciute dall’ordinamento: non è questo in discussione. Esse, però possono sfociare in abusi; la ragione è che i lavoratori fanno investimenti in capitale umano specifici, forieri di surplus di valore, di cui la parte in posizione di autorità può cercare d’appropriarsi iniquamente; e un mezzo per farlo è il licenziamento.

Noi qui stiamo trattando solo di questi casi, nei quali il licenziamento non è giustificato. Oppure vogliamo dire che i lavoratori possono fare “azzardo morale”, ma i manager e i proprietari non possono abusare della loro autorità?

 

D) La sanzione reintegratoria, che genera di fatto una situazione di job property, può favorire atteggiamenti opportunistici da parte della persona che lavora, talvolta difficilmente dimostrabili in giudizio. E questi possono  avere effetti depressivi sulla produttività del lavoro. È pacifico che in questo caso il giudice deve poter convalidare il licenziamento.
E) l’esigenza di ridurre un tasso di contenzioso, in materia di cessazione dei rapporti di lavoro, che in Italia aveva raggiunto valori enormemente superiori rispetto a quelli degli altri maggiori Paesi europei (obiettivo raggiunto: dal 2012 al 2016 si è registrata la riduzione di un terzo del contenzioso giudiziale su questa materia). In questa riduzione dei casi di controversia giudiziale si manifesta il fatto che l’ordinamento lascia il lavoratore solo – e molto più debole di prima – di fronte al potere dell’imprenditore di licenziare.
Ma – come si è già visto – non risulta che le riforme del 2012-2015 abbiano avuto l’effetto di un aumento rilevante della frequenza dei licenziamenti.
 

Lorenzo Sacconi

Pietro Ichino

4. Il contenzioso giudiziale e i suoi esiti

I casi di decisione di reintegro già prima delle riforme del 2012-2015 erano pochissimi, specie quando si fosse trattato di violazioni del giustificato motivo economico, poiché le parti si mettevamo d’accordo prima, accordandosi sulla buonuscita. La possibilità/minaccia che il giudice ordinasse il reintegro semplicemente rendeva lo status quo della contrattazione sulla buonuscita, cioè il caso in cui le parti non si fossero messe d’accordo, e sarebbero andate al licenziamento con eventuale ricorso al giudice, meno sbilanciato a danno del lavoratore (che ovviamente di per sé e per la forza dell’argomento basato sul lock in,  è parte debole, cioè incline ad accettare condizioni al ribasso pur  di non esser licenziato). Con probabilità positiva la minaccia di licenziamento diventava nulla, e il suo valore atteso quindi ridotto.

Obiezione e replica di P.I.

Ma la teoria dell’autoselezione delle parti litiganti insegna che

a) il numero delle controversie giudiziali dipende esclusivamente dall’incertezza circa l’esito del giudizio e dalle asimmetrie informative in proposito (questo è il motivo per cui dal 2012 il contenzioso in questa materia si è notevolmente ridotto);

b) il contenuto della transazione stragiudiziale fra le parti dipende da ciò che esse si attendono come esito dell’ipotetico giudizio: se dunque l’esito probabile per l’imprenditore è un severance cost C, la transazione si attesterà poco sotto questo importo.

 

Se riteniamo che il severance cost – in assenza di mancanza grave del lavoratore – previsto dalla riforma del 2015 (in linea con quello degli altri Paesi europei maggiori) sia troppo basso, aumentiamolo; ma è bene che esso sia stabilito dal legislatore e conoscibile ex ante, e non dipenda volta per volta dall’orientamento pro-labour o pro-business del giudice.

 

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