I cambiamenti maggiori in atto e prevedibili non riguardano tanto la forma del contratto di lavoro, quanto il modo del suo coordinamento con il resto dell’organizzazione aziendale
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Intervista a cura di Marco Gaiazzi, in corso di pubblicazione su Link, inserto del Corriere della Sera, novembre 2017 – In argomento v. anche Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro .
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Prof. Ichino, il mondo del lavoro è cambiato radicalmente negli ultimi 20 anni in coincidenza con le due grandi rivoluzioni cui abbiamo assistito, la digitalizzazione e la globalizzazione. Quali sono stati i principali mutamenti anche normativi che abbiamo visto in Italia e nel mondo?
Non è possibile rispondere a una domanda di questa vastità in poche righe. Sul piano della struttura del rapporto contrattuale, si può dire soltanto che l’effetto più vistoso dell’evoluzione tecnologica consiste nell’emancipazione della prestazione di lavoro sostanzialmente “dipendente” dal vincolo del coordinamento spazio-temporale: il coordinamento con il resto dell’organizzazione aziendale ora può avvenire per via telematica, essendo il lavoro svolto dovunque e in qualsiasi orario. Ma il mutamento più profondo e impressionante è quello che si è osserva nella struttura del mercato del lavoro, per effetto della globalizzazione: la caduta di tutte le frontiere e l’accorciamento di tutte le distanze fa sì che assuma dimensioni planetarie innanzitutto la concorrenza sul lato dell’offerta di manodopera, dove i lavoratori di tutto il mondo ormai possono entrare in competizione tra loro, con o senza flussi migratori; ma assume dimensioni planetarie anche la concorrenza sul lato della domanda di lavoro, tra imprenditori che possono portare i rispettivi piani industriali e investire in qualsiasi punto del globo: il che può rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori che sappiano sfruttare questa competizione tra imprese. Tutto ciò, ovviamente, ha avuto il suo impatto anche sugli ordinamenti protettivi del lavoro.
A proposito di ordinamenti protettivi: il Jobs Act è un “not turning point” ?
La riforma del lavoro del 2014-15 è molto ampia e articolata. Qualche cosa probabilmente ne verrà modificato già nella prossima legislatura. La speranza è che i mutamenti futuri puntino a completare il disegno bi-partisan che ha animato quella riforma, rafforzando la sicurezza dei lavoratori nel mercato, e non a ritornare indietro, al regime della job property, che alla fine impoverirebbe tutti.
Cosa succederà secondo lei invece nei prossimi 20 anni?
Questa davvero è una domanda alla quale nessuno può avere seriamente la pretesa di saper rispondere.
Allora specifichiamola. Il posto fisso è un concetto superato oggi, ma lo sarà anche nel futuro?
Guardi che quello del rapporto a tempo indeterminato non è affatto un concetto superato. In tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato, quindi anche in Italia, la forza-lavoro dipendente è occupata per più di quattro quinti con contratti di lavoro stabili. E la riforma del 2014-15 è stata concepita in parte anche proprio per aumentare la quota di assunzioni a tempo indeterminato nel flusso delle nuove assunzioni: cosa che effettivamente sta accadendo, anche se l’aumento è stato vistosissimo solo nel 2015, per via dell’incentivo economico, e molto più contenuto nei due anni successivi.
A che cosa attribuisce questa riduzione del ritmo di aumento delle assunzioni stabili?
In parte, sicuramente, alla riduzione dell’incentivo costituito dalla decontribuzione. Ma in parte il rallentamento delle assunzioni stabili rispetto alla punta del 2015 è molto probabilmente imputabile anche alla preoccupazione degli imprenditori che la riforma dei licenziamenti possa essere azzoppata da una sentenza della Corte costituzionale, o da una nuova maggioranza parlamentare che nella prossima legislatura decida di tornare al vecchio articolo 18. Nessuna delle due cose mi sembra probabile; ma capisco che gli operatori possano esserne preoccupati.
Si lavorerà meno ma meglio?
Meglio, sicuramente sì: aumenteranno la sicurezza degli strumenti di lavoro e l’igiene degli ambienti, e aumenterà anche la produttività, nella misura in cui le nuove tecnologie renderanno il lavoro dell’uomo più potente ed efficace. Che nel prossimo futuro siamo destinati a lavorare complessivamente meno, invece, non è detto. Il rischio che vedo è semmai un altro: che un parte delle persone attive prendano a lavorare troppo, mentre un’altra parte potrebbe essere relegata a funzioni marginali nel tessuto produttivo.
Ci saranno nuove forme contrattuali di telelavoro?
Non credo. Qui da noi abbiamo riconosciuto e regolato – con la legge n. 81/2017 – il “lavoro agile”, cioè il lavoro dipendente che in determinati segmenti temporali si svolge al di fuori del perimetro aziendale e senza vincoli di orario. Vediamo se questa nuova figura decolla.
Viviamo in un periodo di forze centrifughe. Un mondo che, anche se solo sul piano della propaganda, è più frammentato. Crescono le insofferenze verso chi cerca opportunità fuori dai propri confini nazionali. Queste dinamiche sono destinate a cambiare i paradigmi del mercato del lavoro, delle normative o sono fenomeni passeggeri?
Che una parte dei nostri giovani altamente qualificati vadano a lavorare all’estero dovrebbe essere considerato del tutto normale, nell’era della globalizzazione; ed è un fenomeno di mobilità in sé positivo. Quello che dovrebbe impensierirci è che pochi giovani altamente qualificati vengano a lavorare in Italia da oltr’Alpe o da oltre Oceano.
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