L’AUMENTO DEL TASSO DI OCCUPAZIONE NELLA FASCIA DI ETA’ TRA I 60 E I 75 ANNI, CHE CI VIENE INDICATO COME OBIETTIVO DALL’UNIONE EUROPEA, RICHIEDE CHE SI INCENTIVINO DATORI E PRESTATORI DI LAVORO A PROLUNGARE IL RAPPORTO ANCHE QUANDO CI SAREBBERO I REQUISITI PER IL PENSIONAMENTO. IL DDL PREVEDE LA RIDUZIONE DI DUE TERZI DELLA CONTRIBUZIONE PREVIDENZIALE E UNA PICCOLA PENALIZZAZIONE PER L’IMPRESA CHE RIFIUTA
Il disegno di legge è stato presentato con firme di maggioranza e di opposizione – soprattutto per merito di un grande impegno dei parlamentari radicali – sia al Senato, sia contemporaneamente alla Camera dei Deputati (dove primo firmatario è Giuliano Cazzola, vicepresidente della Commissione Lavoro)
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DISEGNO DI LEGGE n. 1745
d’iniziativa dei senatori
Ichino (Pd), Bonino (Pr), Malan (Pdl), Treu (Pd), Bianco (Pd), Blazina (Pd), Ceccanti (Pd), Fioroni (Pd), Leddi (Pd), Morando (Pd), Negri (Pd), Musso (Pdl), Poretti (Pr), Perduca (Pr), Nicola Rossi (Pd), Sangalli (Pd), Tonini (Pd)
Presentato alla Presidenza del Senato il 31 luglio 2009
Norme per la prosecuzione in via sperimentale del rapporto di lavoro oltre i limiti legali di età per il pensionamento di vecchiaia
Onorevoli colleghi! – L’aumento della speranza di vita, il calo demografico e il conseguente invecchiamento della popolazione sempre più rapido determinano in tutto il mondo industrializzato un difficile problema di sostenibilità dei sistemi pensionistici e, in generale, del welfare. Le riforme dei sistemi pensionistici in atto in tutti i paesi con l’innalzamento dell’età di uscita dal mercato del lavoro saranno, infatti, efficaci soltanto se saranno accompagnate da un prolungamento significativo della vita attiva, sicuramente nella fascia fino ai 65 anni, ma anche ben oltre questo livello. L’aumento delle persone che lavorano anche nelle fasce più alte dell’età permetterà una maggiore accumulazione di diritti previdenziali e dei livelli delle pensioni in rapporto ai salari, migliorando le condizioni di vita degli anziani, ma consentirà anche di finanziare e rendere sostenibile l’intero sistema di assistenza sempre più orientato alla protezione sociale delle persone non autosufficienti a causa dell’invecchiamento progressivo della popolazione.
Sulla base di queste considerazioni, l’Unione europea, con l’agenda di Lisbona, ha raccomandato a tutti i paesi l’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione nella fascia d’età 55-64 anni almeno al 50% nel 2010. Questo è solo un primo passo perché, alla luce dell’ulteriore invecchiamento della popolazione previsto fino al 2050, sarà sempre più difficile da una parte far fronte alle spese sociali crescenti per la loro cura, dall’altra reperire le forze lavoro necessarie per sostenere il sistema economico, se non con afflussi sempre crescenti di manodopera extracomunitaria.
In Italia la situazione è aggravata da un invecchiamento della popolazione ancora più accentuato rispetto agli altri paesi dell’Unione, determinato dal calo dei tassi di natalità e dell’incremento della speranza di vita.
L’allungamento della vita lavorativa in Italia è, di conseguenza, accanto all’aumento del tasso d’occupazione dei giovani e delle donne, la condizione per rendere sostenibile lo stato sociale, ma anche per creare maggiore crescita economica e per non aggravare, oltre i livelli sostenibili, i problemi dell’integrazione degli immigrati.
Va considerato inoltre che il divieto generalizzato di continuare a lavorare, nella misura consentita dalle proprie condizioni psicofisiche e previo accordo della parte datoriale, pone delicate questioni di costituzionalità. Proprio a fronte dell’aumento della speranza di vita, del calo demografico e del conseguente invecchiamento della popolazione, i limiti e i divieti posti dalle leggi vigenti si traducono oggi nella negazione degli interessi, dei diritti e delle facoltà che gli stessi intendevano invece tutelare, al punto da porsi oggi in contrasto con il principio di uguaglianza posto dall’art. 3 della Costituzione; con il diritto al lavoro, che a norma dell’art. 4, comma 1, della Costituzione, deve essere reso effettivo; con il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società, stabilito dall’art. 4, comma 2, della Costituzione.
Non si può poi dimenticare che obbligare le persone ad andare in pensione entro i 65 anni, alimenta in modo considerevole il lavoro nero perché sono sempre meno le persone di questa età che accettano di passare il resto della loro vita in panchina e sempre più numerose quelle hanno bisogno d’integrare la loro magra pensione con un lavoro.
Da tutte queste considerazioni, emerge la necessità di prevedere la facoltà per i lavoratori, sicuramente per la stragrande maggioranza che presta mansioni non usuranti, di poter continuare a lavorare, se lo ritengono possibile e utile, oltre l’età in cui potrebbero andare in pensione. A fronte di questo diritto, c’è un interesse obiettivo della società di aumentare il tasso di attività della popolazione e quindi la sostenibilità del sistema di welfare. A questo proposito occorre osservare che solo da poco in Italia si è compreso che le politiche che incoraggiavano l’uscita dal lavoro dei dipendenti più anziani per lasciare il posto ai giovani erano controproducenti. Le conseguenze di queste politiche sono state, infatti, deleterie: basso tasso di partecipazione al lavoro, in particolare per le donne, forti differenze regionali e larga presenza di lavoro nero.
Non si può non rilevare che la proposta di abolire l’età massima lavorativa troverà resistenze anche da una parte, seppur piccola, delle imprese che sono, spesso, riluttanti ad assumere o a mantenere i lavoratori più vecchi principalmente per tre ragioni:
1) Alcuni datori di lavoro italiani hanno una percezione negativa delle capacità professionali dei lavoratori anziani e per questo li discriminano a favore dei lavoratori più giovani. E’ evidente che in Italia esiste un serio problema di discriminazione basata sull’età, anche se è difficile definirne l’ampiezza;
2) I salari negoziati dalle parti sociali normalmente aumentano in funzione dell’età e dell’anzianità, a prescindere dallo sviluppo della produttività. In questo modo si pensa di legare i dipendenti più anziani all’azienda e di premiare la loro fedeltà e la loro maggiore esperienza. Ma, quando i costi divengono eccessivi rispetto alla produttività, sono proprio i lavoratori più anziani che sono incoraggiati ad andarsene perché costano di più. In altri paesi come la Svizzera e la Germania la remunerazione all’anzianità ha, invece, perduto importanza a favore della competenza e della produttività di ogni lavoratore;
3) I lunghi orari di lavoro possono essere particolarmente onerosi per i lavoratori più anziani. Solo poche imprese prevedono una fase di transizione verso la pensione adattando le condizioni di lavoro alle esigenze dei dipendenti più anziani e prevedendo per questi dei part-time graduali.
E’ utile analizzare anche l’opinione degli interessati sul prolungamento dell’attività lavorativa dopo il 65 anni: secondo una ricerca realizzata dall’Isfol nel 2006 con il ministero del Lavoro, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze demografiche dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, sette lavoratori su dieci tra i 60 e i 64 anni si ritengono in grado di lavorare anche dopo i 65 anni, mentre il desiderio di andare in pensione è molto più forte nelle classi giovanili e si attenua fortemente in quelle più anziane. Allo stesso tempo, la volontà di permanenza nel mercato del lavoro aumenta al crescere del titolo di studio. Ma sono soprattutto le aziende ad apprezzare di più le qualità dei lavoratori più maturi: esperienza, leadership, fedeltà all’azienda, attaccamento al lavoro.
Tab. 1 – Forze di lavoro 65 anni e più (x1.000)
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Maschi |
Femmine |
Totale |
2004 |
273 |
78 |
351 |
2005 |
281 |
72 |
353 |
2006 |
295 |
80 |
375 |
Fonte: Istat |
Il prolungamento dell’età massima lavorativa risponde anche a una esigenza sociale e culturale legata alla necessità di spostare la percezione dei lavoratori anziani da “problema e criticità” a “preziosa risorsa” per tutta la collettività.
E’ utile, infine, analizzare le dimensioni dell’occupazione degli over 65 in Italia e in Europa e le proiezioni demografiche. Come si può vedere nella tabella 1, in Italia le forze lavoro (occupati più persone in cerca di lavoro) erano nel 2006 375mila, con una crescita di 24 mila lavoratori rispetto al 2004. Balza agli occhi il differenziale di genere: gli uomini che lavorano dopo i 65 anni superano di tre volte le donne. Questo fenomeno è determinato probabilmente sia dalle norme che prevedono una diversa età pensionabile per le donne (60 anni, con la possibilità di prolungamento a 65) e per gli uomini (65 anni), che dai costumi italiani che assegnano alle donne il compito di cura nei confronti dei parenti anziani.
Se si analizza il tasso di attività (rapporto fra forze di lavoro e corrispondente platea di popolazione) dopo i 65 anni in Europa (Tab. 2), rileviamo che in Italia i valori di questo indicatore si attestano sul 3%, con una crescita dello 0,5% nel 2004. Rispetto alla media dei paesi dell’Unione europea a 25, il tasso d’occupazione degli over 65 italiani nel 2006 è inferiore di meno di un punto percentuale, e superiore di due punti rispetto alla Francia. Percentuali più alte di forze di lavoro anziane si registrano in Svezia (5%) e nel Regno Unito (7%), con una forte crescita rispetto al 2000.
Tab.2 – Tasso di attività della popolazione di 65 anni e più in Europa (%) |
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2000 |
2001 |
2002 |
2003 |
2004 |
2005 |
2006 |
EU-25 |
3,7 |
3,7 |
3,7 |
3,7 |
3,7 |
3,9 |
4,1 |
Germania |
2,6 |
2,8 |
2,8 |
2,8 |
2,9 |
3,4 |
3,5 |
Spagna |
1,6 |
1,6 |
1,5 |
1,6 |
1,7 |
2 |
2,1 |
Francia |
1,1 |
1 |
1,1 |
1,2 |
1,1 |
1,2 |
1,1 |
Italia |
3,2 |
3,2 |
3,3 |
3,3 |
3,5 |
3,1 |
3,3 |
Svezia |
5 |
4,9 |
5 |
4,8 |
4,6 |
4,9 |
5 |
UK |
5,3 |
4,8 |
5,5 |
5,9 |
6,1 |
6,4 |
7 |
Fonte: Eurostat |
È utile rilevare che anche nell’Europa a 25 vi sono, in questa fascia d’età, forti differenze di genere, perché il tasso d’attività degli over 65 maschi raggiunge il 6,2%, mentre quello delle donne si attesta al 2,5%.
In conclusione, il problema dell’allungamento dell’attività lavorativa ben oltre i 65 anni, si presenta con caratteristiche abbastanza simili nell’Europa continentale, mentre nel nord del continente si registrano le performance migliori.
Il grafico successivo mostra la crescita prevista della popolazione italiana con 65 e più anni, dal 2006 e, con intervalli di 10 anni, fino al 2051. L’aumento della popolazione di questa fascia d’età nei 45 anni considerati sarà di oltre 6 milioni di persone. Se si esaminano solo le persone da 65 a 75 anni, che sicuramente potranno svolgere un’attività lavorativa, anche ridotta, registriamo una presenza sostanzialmente costante, con un picco nel penultimo decennio, di circa 7 milioni di persone, con una crescita dal 2006 al 2051 di quasi 700.000 persone. Si può concludere, sulla base di questi dati, che questa proposta di legge interesserà almeno 7 milioni di lavoratori che potranno optare o per la pensione o per la continuazione dell’attività lavorativa.
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La normativa vigente, recata sul punto dall’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.503, come modificato dall’articolo 72, comma 7, del decreto-legge 25 giungo 2008, n.112, convertito, con modificazione, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, riconosce infatti ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici la facoltà di “permanere in servizio […] per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti per il collocamento a riposo”. E’ data tuttavia “facoltà all’Amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi”.
Per alcune categorie di dipendenti pubblici, come i magistrati e i docenti universitari, è peraltro prevista la possibilità di proseguire nell’attività lavorativa più a lungo. Per quanto riguarda i professori universitari (ordinari e associati), l’articolo 1, comma 17, della legge 4 novembre 2005, n.230, abolendo il collocamento fuori ruolo per limiti di età, ha stabilito che “il limite massimo di età per il collocamento a riposo è determinato al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età”. Per quanto riguarda i magistrati, il termine per il collocamento a riposo, inizialmente fissato al compimento del 70° anno di età dall’articolo 5 del Regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n.511, è stato successivamente innalzato a 75 anni dall’articolo 34, comma 12, della legge 27 dicembre 2002, n.289.
La prosecuzione dell’attività lavorativa oltre il compimento del 65° anno è disciplinata in termini in parte diversi nel settore privato. In tale ambito, infatti, al raggiungimento dell’età per il collocamento al riposo (65 anni per gli uomini), il rapporto di lavoro non cessa automaticamente, in quanto il lavoratore può, con il consenso del datore di lavoro e fino a quando esso permane, proseguire nella propria attività. Il datore di lavoro, infatti, secondo quanto previsto dall’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n.108, può avvalersi della possibilità di recedere ad nutum (ossia senza giusta causa o giustificato motivo e, quindi, senza le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) dal rapporto di lavoro. Diversamente dal settore pubblico, tuttavia, il rapporto di lavoro può proseguire anche oltre un biennio. In altri termini, se nel settore pubblico (escludendo magistrati e professori universitari) non è in nessun caso consentito prolungare la propria attività lavorativa oltre il compimento del 67° anno di età, nel settore privato, è possibile prolungare la propria attività lavorativa senza limiti di età con il consenso del datore di lavoro.
La presente proposta di legge, composta di due articoli, interviene attraverso la novella dell’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n.108, al cui secondo comma se ne aggiungono tre nuovi.
Il comma 2-bis prevede, in via sperimentale per un triennio, che il lavoratore debba comunicare al datore di lavoro la propria decisione di prolungare l’attività lavorativa con congruo anticipo (6 mesi).
Il comma 2-ter prevede la riduzione di due terzi dell’obbligo contributivo relativo all’assicurazione pensionistica generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, nonché alle forme sostitutive della medesima. La contribuzione ridotta è destinata a produrre la provvista necessaria per una pensione supplementare, che si aggiungerà alla pensione principale maturata fino alla data originariamente prevista per il collocamento a riposo.
Il comma 2-quater prevede che, quando si tratti di rapporto di lavoro di diritto privato, decorso il termine originariamente previsto per il collocamento in quiescenza, il datore di lavoro abbia la facoltà di risolvere il rapporto di lavoro per soppressione del posto, o per sostituzione con altro lavoratore, o per altro motivo di natura economica od organizzativa, corrispondendogli – in aggiunta al trattamento di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile ‑ una indennità di risoluzione del rapporto pari al 25 per cento di una mensilità dell’ultima retribuzione lorda per ogni anno di anzianità di servizio del lavoratore, o frazione di anno superiore a sei mesi, fino a un massimo di due mensilità. Decorso un biennio dal termine originariamente previsto per il collocamento in quiescenza, l’indennità di risoluzione del rapporto non è più dovuta e si torna pertanto a un regime di recedibilità senza altro onere se non quello del preavviso, rimanendo a sostegno della continuazione del rapporto soltanto l’incentivo economico costituito dalla riduzione dell’onere contributivo, di cui al comma 2-ter.
L’articolo 2, stante il carattere sperimentale della nuova disciplina, dispone che il ministro del lavoro, della salute e della previdenza sociale presenti una relazione al Parlamento al termine di ciascun anno sugli effetti economici e sociali prodotti dalla disciplina stessa.
Il nuovo regime così delineato appare bilanciare in modo adeguato gli interessi di tutte le parti coinvolte, configurando anche un risparmio per il bilancio pubblico.
Il lavoratore che intende posticipare il pensionamento può, proseguendo nell’attività lavorativa, godere di un trattamento economico superiore a quello che percepirebbe se andasse subito in pensione.
Il datore di lavoro può continuare ad avvalersi dell’opera di lavoratori con un elevato livello di esperienza a costi più contenuti, in virtù della riduzione del carico contributivo.
Per quanto concerne l’Erario, infine, il rinvio del trattamento pensionistico si risolve in un risparmio netto sul piano economi
Articolo 1
Introduzione sperimentale della facoltà di permanere in servizio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo
Dopo il comma 2 dell’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n.108, sono aggiunti i seguenti:
2-bis – I lavoratori dipendenti del settore privato che maturano i requisiti per il trattamento di vecchiaia tra il 1° gennaio 2010 e il 31 dicembre 2012, hanno facoltà di optare per la prosecuzione del rapporto oltre i limiti di età di cui al comma precedente, dandone preavviso al datore di lavoro entro sei mesi dalla data prevista per il collocamento a riposo.
2-ter – Quando sia stata esercitata l’opzione per la prosecuzione del rapporto di cui al comma precedente, gli obblighi contributivi relativi all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, nonché alle forme sostitutive della medesima, sono ridotti di due terzi. Il trattamento pensionistico cui il lavoratore avrà diritto al momento del pensionamento è pari a quello che sarebbe stato attivato se non fosse stata esercitata l’opzione per la prosecuzione del rapporto, con la sola aggiunta di quanto spettante a titolo di perequazione automatica, maturato nel frattempo. È altresì erogata una pensione supplementare corrispondente alla sommatoria dei contributi ridotti versati nel periodo di prosecuzione del rapporto.
2-quater ‑ Decorso il termine previsto per il pensionamento di vecchiaia del dipendente per raggiunti limiti di età, quando questi abbia esercitato l’opzione di cui al comma 2-bis, il datore di lavoro ha la facoltà di risolvere il rapporto di lavoro, previo preavviso, corrispondendogli ‑ in aggiunta al trattamento di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile – una ulteriore indennità pari a un quarto di mensilità dell’ultima retribuzione lorda per ogni anno di anzianità di servizio, fino a un massimo di due mensilità. Detta indennità aggiuntiva non è dovuta in caso di risoluzione del rapporto dopo il compimento del secondo anno successivo alla scadenza del termine originariamente previsto per il pensionamento del dipendente.
Articolo 2
Rilevazione e osservazione degli effetti della nuova disciplina
Con riferimento a ciascuno dei tre anni di applicazione sperimentale della nuova disciplina di cui all’articolo precedente il ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali trasmette al Parlamento, entro il primo trimestre dell’anno successivo, una relazione circa gli effetti economici e sociali dell’applicazione della disciplina stessa.
Tutto ciò premesso, la presente proposta di legge è volta ad ampliare per tutti i lavoratori il diritto di optare per la prosecuzione del lavoro oltre il vecchio limite del collocamento a riposo.