IL PUNTO SUL LAVORO A TEMPO DETERMINATO

Non è vero che sta aumentando la frazione del lavoro a termine nel nostro tessuto produttivo, che resta al di sotto della media UE; è vero invece che diminuisce, in seno ad essa, la quota dei co.co.co. e aumenta quella dei contratti a termine

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Numero 21 del periodico della Fondazione Anna Kuliscioff,
Mercato del Lavoro News, a cura di Claudio Negro, 12 ottobre 2017Su questo sito sono disponibili anche il n. 9 dello stesso notiziario periodico e il n. 13, sempre dedicati al commento dei dati di stock e di flusso sul mercato del lavoro italiano
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Fondazione KuliscioffLa ricerca della Fondazione Di Vittorio del 7 ottobre, peraltro bella e ben documentata, paga però dazio all’esigenza politica della CGIL di dimostrare che comunque le cose continuano ad andare male (sarà perché nessuno si è filato il Piano Straordinario per l’Occupazione..?).

Innanzitutto è curioso che confronti i dati 2017 con quelli 2004, cioè un anno ancora lontano dai picchi di occupazione pre crisi e anche dai flessi massimi osservati durante la crisi. Perchè allora il confronto con il 2004? Perchè è stato l’ultimo anno in cui i contratti a termine sono diminuiti (così il paragone rifulge meglio…); e diminuirono perché a partire da quell’anno vennero a terminare modalità di assunzione quali il contratto di formazione-lavoro. Nel 2004 i contratti a tempo definito furono 1,909,000, pari a 8,5% del totale degli occupati. Già dall’anno successivo questi contratti cominciarono ad aumentare: al 9% nel 2005, al 9,8% (con un numero assoluto di 2.269.000) nel 2007, al 9,9% (2.323.000) nel 2008. Da notare che in questi anni i contratti di collaborazione (quindi a termine) erano rispettivamente 497.000, 490.000 e 465.000, con percentuali che vanno dal 2,2% al 2%. Dopo una leggera flessione in numero assoluto nel 2009 il dato ricomincia a crescere: per il 2011 disponiamo solo dei dati aggregati che mescolano contratti subordinati a termine e collaborazioni, per un totale di 2.719.000 pari all’11,8% che possiamo confrontare con l’analogo aggregato del 2008: 2.788.000 e 11,7% (è chiaro che anche se il numero assoluto di contratti scende aumenta l’incidenza percentuale perchè diminuisce l’occupazione globale); dunque l’incidenza dei contratti a termine torna al livelli 2008 e li supera. Per il 2012 e 2013 torniamo alla rilevazione dei soli contratti subordinati a termine: sono rispettivamente 2.083.000 pari al 9,49% e 2.229.000 pari al 9,94%, quindi in entrambi i casi superiori (in incidenza percentuale) al dato 2008.

Nel 2014 i dipendenti a termine sono 2.277.000 pari al 10,2%, se li sommiamo alle collaborazioni arriviamo a 11,9%.. Nel primo semestre 2017 dipendenti + collaborazioni assommano a 2.800.000 unità, pari al 12,15.

Dunque osserviamo una costante e sostanzialmente uniforme crescita dal 2005 a oggi: dall’11,2% del 2005 al 12.1 di oggi. Una crescita senz’altro, ma non travolgente e comunque radicata negli ultimi 12 anni di storia del mercato del lavoro, senza nessuna variazione evidente in relazione alla crisi o alla ripresa post crisi. Del resto è del tutto omogenea alle dinamiche in atto nell’UE, dove l’incidenza dei lavoratori temporanei sul totale dei dipendenti si attesta al 14,2 per cento, nella Uem al 15,6 per cento e in Italia al 14,0 per cento (ricordiamo che questi ultimi dati sono calcolati soltanto sui lavoratori subordinati, e non tengono conto delle collaborazioni).

Quel che cambia è la composizione interna all’aggregato dei tempi determinati: diminuisce il numero delle collaborazioni  aumenta quello dei dipendenti; è troppo sperare che anni di lotta contro i finti parasubordinati abbiano prodotto un qualche effetto di trasformazione di collaborazione in contratti di lavoro dipendente?

Anche il titolaccio ad effetto “contratti a termine: un milione in più dal 2004” si basa su un confronto del tutto sbagliato sul piano metodologico: se confrontiamo i 2.800.000 rapporti a termine (dipendenti e collaboratori) del 2017 e li sommiamo con i soli dipendenti a termine del 2004 (1.909.000) otteniamo sì una differenza di 900.000, ma se invece facciamo un confronto omogeneo, considerando dipendenti e collaboratori per entrambi gli anni, vediamo che l’aumento si riduce a 152.000 unità (2.800.000 – 2.648.000). Vero è che se confrontiamo solo i dipendenti (operazione fattibile solo per gli anni 2004-2016) la differenza è di 516.000 contratti a termine in più, ma come detto sopra sulla base di dati disaggregati dipendenti-collaboratori, riteniamo che una quota significativa di questo aumento derivi da trasformazioni di contratti di collaborazione.

Sembra in sostanza eccessivo l’allarme lanciato dalla CGIL nei confronti di un fenomeno che nulla ha a che vedere con il Jobs Act e le politiche occupazionali del Governo; anzi, a dire il vero si è dimostrato sostanzialmente impermeabile anche ai provvedimenti ad hoc: il Decreto Poletti non ha determinato nessuna differenza significativa nel ritmo di crescita dei contratti a termine. Caso mai c’è da ragionare per quale motivo in tutta Europa, sia pure in presenza di legislazioni che vincolano in modo diverso il licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato, vi sia un ricorso diffuso e omogeneo al contratto a termine. Un ragionamento che si può fare efficacemente soltanto se si evita di partire dalla dicotomia posto fisso – precariato.

Un po’ allarmistico sembra anche l’atteggiamento verso il part time: è vero che è in aumento a partire dal 2004, ma si tratta di un aumento che, a parte un picco nel 2008, è graduale e abbastanza uniforme anno per anno. Anche qui verrebbe da credere che non si tratti di un portato della crisi, ma di una dinamica storicamente determinata, in linea con quanto accade in Europa: infatti la percentuale di part time in Italia soltanto ora raggiunge quella europea: 18,8% contro 18,9%. E occorre anche notare come resti inferiore a quella di molte delle economie più sviluppate: Germania, Olanda, Regno Unito, Svizzera, Norvegia. Anche il fatto che coinvolga prevalentemente le donne non è anomalo: in Italia il part time femminile è il triplo di  quello maschile, un rapporto quindi di 3 a 1. In Germania il rapporto è 4 a 1, in Svizzera 6 a 1,5, in Olanda addirittura 7 a 2, in Francia Danimarca e Svezia circa 3 a 1 come da noi.

Ciò che veramente è diverso in Italia rispetto al resto d’Europa è l’incidenza del part time involontario, e lo è storicamente: era al 40,6% nel 2008 ed è aumentato rapidamente fino a superare il 70%. Per la verità nel 2016 e 2017 è sceso a precipizio, tanto che adesso sta a 60,6%. E’ molto, naturalmente, a fronte di medie europee che viaggiano tra il 20% e 25%. Tuttavia merita una riflessione specifica, che in parte può spiegare il fenomeno, almeno per quanto concerne il picco durante il periodo di crisi: il part-time involontario è stato spesso l’alternativa alla CIG, che all’impresa sarebbe costata di più, o ai contratti di solidarietà, complessi da gestire e incerti nella concessione da parte del Governo. E’ opportuno constatare che anche grazie a quest’operazione l’occupazione femminile negli anni della crisi non è diminuita significativamente, ed ha cominciato rapidamente a crescere ai primi segnali di ripresa, fino a toccare il massimo storico del tasso di occupazione nel primo trimestre 2017. Questa ipotesi viene confermata dall’osservazione, di cui abbiamo detto, che già nel 2016 le assunzioni in part-time involontario calano verso lo zero, non esercitando più la funzione di difesa dell’occupazione.

Il problema vero, e qui la Fondazione Di Vittorio ha ragione, sta nel fatto che, pur crescendo, le ore lavorate non raggiungono ancora il monte ore pre crisi. In gran parte ciò è dovuto al fatto che, pur essendo le posizioni lavorative ormai non molto inferiori a quelle del 2008, nella loro composizione sono aumentati i part time, e comunque la ripresa italiana è in ritardo a quella europea. Ma sarebbe sbagliato illudersi che il ritorno alle condizioni pre crisi debba incardinarsi sul ritorno a quelle percentuali di contratti a termine e part time: quest’impostazione afferma implicitamente che occorra tornare al monte ore lavorato ante crisi. Il problema è invece che già adesso, a ripresa iniziata, le ore effettivamente lavorate settimanali in Italia sono superiori a quelle delle economie più avanzate: siamo a 33 ore settimanali (dato 2016 – OCSE), che tengono conto di ferie, assenze, straordinari,  ecc., come la Spagna, mentre in Francia se ne lavorano 28, in Olanda 27, in Germania 26. Il problema vero non è tanto aumentare le ore lavorate, ma aumentare la produttività del lavoro. Ma questa è una questione complessa, e non si presta a slogan facili o a promuovere lotte…

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