Che cosa ha significato, per il diritto del lavoro italiano, il disincanto nei confronti della vecchia dogmatica giuridica di tre suoi padri – Gino Giugni, Federico Mancini, Giuseppe Pera – fra loro a lungo strettamente legati
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Intervento svolto al termine della sessione pomeridiana del Senato del 3 ottobre 2017 – In argomento v. anche Quello che Giuseppe Pera ci ha insegnato .
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ICHINO (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, intervengo solo per ricordare che dieci anni fa è scomparso Giuseppe Pera, un grande giuslavorista italiano, alla cui memoria e al cui pensiero nei giorni prossimi a Lucca viene dedicato un convegno dalla Fondazione che porta il suo nome.
In questa sede vorrei ricordare soltanto il sodalizio che legò Giuseppe Pera ad altri due grandi giuslavoristi italiani: Gino Giugni e Federico Mancini. Quello che accomuna il trio Giugni, Mancini e Pera negli anni Cinquanta è uno sguardo molto disincantato sulla vecchia dogmatica giuridica, un po’ muffosa e autoreferenziale. Questo sguardo disincantato, che ha poi segnato tutta la cultura giuslavoristica successiva, italiana e non solo, ha indotto Gino Giugni a dare valore allo studio dell’intreccio fra ordinamento statale e ordinamento intersindacale, tra fonte legislativa e fonte collettiva, tra diritto del lavoro e relazioni industriali; Federico Mancini ha valorizzato lo studio dell’intreccio tra diritto del lavoro e politiche del lavoro, poi fra diritto e politica tout court; Giuseppe Pera ha invece tradotto quello sguardo disincantato sulla dogmatica tradizionale in una sorta di ribaltamento del discorso giuridico. Invece di ragionare per concetti, individuando la nozione astratta e poi riconducendo ad essa la fattispecie concreta, Giuseppe Pera è sempre partito dalla ragion d’essere concreta della norma, cioè dall’interesse protettivo reale (lato sensu politico) da cui essa è nata, e lo ha confrontato con l’interesse in gioco nel caso singolo. A Pera non interessava un diritto del lavoro dedotto in via sillogistica dai massimi sistemi, ma soltanto un diritto del lavoro terragno, sporco di olio e fuliggine, nel quale il buon senso del «buon giudice del lavoro» conta molto di più della logica astratta.
A lui, come agli altri due giuslavoristi dei quali ho fatto cenno, deve molto non soltanto, come è ovvio, la comunità giuslavoristica, ma anche l’intero nostro Paese.
PRESIDENTE. La Presidenza si associa al suo opportuno e doveroso ricordo, senatore Ichino.