Perché Maroni e Zaia non hanno mai aperto la trattativa con Roma? Perché non hanno mai chiesto di discuterne seguendo ciò che avevano proposto anche i sindaci lombardi e veneti e ciò che la Costituzione già permette di fare?
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Articolo di Alessandro Maran pubblicato sul numero di settembre 2017 del mensile Strade – In argomento v. anche l’articolo di Luca Ricolfi, Dopo la Lega, chi difende le ragioni del Nord?
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La frattura socio-economica tra Nord e Sud è un antico problema dell’Italia unita. E in tempi di crisi, si sa, le fratture si allargano perché si accentuano le distanze. Negli ultimi anni, infatti, il rapporto col territorio è riemerso con forza. E mentre nel Sud permane l’esigenza di un governo centrale in grado di guidare e “foraggiare” lo sviluppo, al Nord cresce invece la tendenza alla regionalizzazione. Non per caso, come
aveva previsto il Ministro Calenda guardando ai dati economici, risorge la questione settentrionale e, spinto anche dai referendum identici di Lombardia e Veneto del 22 ottobre sull’autonomia regionale, il problema della redistribuzione delle risorse pubbliche tra le varie regioni, riacquista un peso rilevante nell’agenda politica.
Si tratta, ovviamente, di un’iniziativa tutta politica, che punta a ottenere un forte mandato popolare nei confronti del governo centrale alla vigilia della campagna elettorale per le prossime elezioni regionali (in Lombardia). Il referendum è del tutto inutile dal punto di vista procedurale e costituzionale. Ma la doppia consultazione sull’autonomia regionale avrà comunque un impatto politico rilevante. Anche perché gli elettori non andranno alle urne “solo” per chiedere più autonomia (il che comunque avrà delle conseguenze), ma ci andranno per dire che tra il Nord e il Sud la distanza è abissale e la misura è colma.
Un referendum strumentale
All’articolo 116 della Costituzione, dopo la riforma del 2001, si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. E sempre l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119, senza alcun bisogno di referendum.
La procedura istituzionale si avvia con un’iniziativa della Regione, sentiti gli enti locali, e si conclude con una legge dello Stato approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Non si fa, ripeto, menzione di alcun referendum e la decisione finale è presa dal Parlamento con maggioranza qualificata, quindi da un organo nazionale.
Ma, allora, perché si vota? In fondo il referendum regionale (che, infatti, è solo consultivo) riprende il tema che si poteva trattare con il governo in questi anni senza ricorrere a strumenti costosi. Anzi, ci sarebbe da chiedersi perché si sia aspettato tanto per riprendere il lavoro sul federalismo differenziato, avviato ai tempi di Prodi. Perché Maroni non ha mai aperto la trattativa con Roma? Perché non ha mai chiesto di discuterne seguendo ciò che avevano proposto anche i sindaci del territorio e ciò che la Costituzione permette già di fare?
Ora, non è un mistero per nessuno che Maroni si sia inventato l’operazione referendaria in vista delle elezioni regionali. Ma c’è dell’altro. Maroni va oltre quanto previsto dalla Costituzione e si propone – come indicato in una mozione di recente approvazione – di “negoziare, contestualmente alle nuove competenze e alle risorse relative, anche l’autonomia fiscale così come riconosciuta alle Regioni a Statuto speciale, nel cui ambito sarebbe inserita la Lombardia all’indomani della conclusione positiva della trattativa con il Governo”.
L’iniziativa, del resto, non precisa le materie su cui si vuole maggiore autonomia; non nasce dall’individuazione di specifici temi su cui si ritiene sarebbe più opportuna una competenza regionale. Si tratta su tutto, perché il vero obiettivo dell’iniziativa è quello di ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale; e il referendum serve a ottenere sostegno politico per questa richiesta. Come ha scritto di recente Gianfranco Viesti sul Mulino «si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini. Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Con l’approvazione della legge 42 del 2009, poi, si è provveduto a precisare, in diversi ambiti, questi principi (legge che, sia detto per inciso, sta avendo un’applicazione assai lenta, ed estremamente discutibile in alcune scelte attuative). Con buona pace dei leghisti di ieri e di oggi, non esistono “soldi del Nord” che vengono sottratti: il “residuo fiscale” che si può stimare (la differenza fra le tasse pagate dai cittadini di una regione e la spesa pubblica che ricade in quella stessa regione) è semplicemente l’esito ex post, in Italia come in tutti gli altri paesi, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi. Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse. Naturalmente, sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione leghista; nel dilagante “egoismo dei ricchi”: date più soldi pubblici a noi e meno agli altri. Il voto serve dunque a portare tanti lombardi e veneti a esprimersi sulla domanda implicita: volete sottrarre risorse pubbliche agli altri cittadini italiani per beneficiarne voi? Una deriva assai pericolosa».
Sia chiaro, l’operazione dal punto di vista propagandistico è raffinata. È ovvio che vincerà il SÌ. Anzi, il referendum è talmente scontato che non esiste una scelta tra il sì e il no: perché mai veneti e lombardi non dovrebbero volere più autonomia (e più soldi)? Ma il giorno dopo si dovrà ricominciare daccapo. La Lombardia dovrà comunque chiedere (anche se la richiesta è accompagnata da un forte mandato popolare) l’apertura di un confronto con lo Stato per discutere eventuali materie da gestire, e in caso di accordo la legge dovrà essere successivamente votata dal Parlamento.
La verità è che il 22 ottobre prossimo in Lombardia si aprirà, semplicemente, la campagna elettorale. Il che non toglie che si tratta di una consultazione importante (dagli effetti imprevedibili, specie nel quadro dell’Italia di oggi e con le tendenze elettorali che si stanno manifestando). Voteranno sedici milioni di elettori delle due regioni che trainano il sistema produttivo italiano. E quando il popolo vota succede sempre qualcosa e non sempre le cose vanno nel verso previsto, come ci ricordano recenti consultazioni del tutto facoltative (Brexit, elezione anticipate nel Regno Unito, referendum costituzionale in Italia).
Il ritorno del federalismo
Per come la vedo io, ritengo sia un bene che si provi davvero (e finalmente) a esercitare quegli ulteriori spazi di autonomia che la Costituzione prevede. La riforma costituzionale bocciata nel dicembre scorso avrebbe potuto facilitare il processo, ma ormai è inutile riparlarne. Piuttosto, non sarebbe male ricordare che l’introduzione nel nostro ordinamento della clausola di differenziazione rappresenta l’esito di un faticoso cammino intrapreso molti anni prima della stessa riforma del Titolo V. Sulla convenienza di una “struttura statale snodata” che possa corrispondere alla “varietà di composizione” del nostro Paese, sono del resto famose le parole di Costantino Mortati, che ricordava quanto tra i costituenti fosse diffusa «la considerazione che un sano decentramento regionale (inteso quale strumento per l’attuazione di una maggiore giustizia distributiva fra parte e parte della nazione e per una più adeguata corrispondenza dell’ordinamento giuridico alle esigenze locali) avrebbe contribuito al rafforzamento dell’unità stessa».
Si sa che il regionalismo italiano è stato appesantito sin dall’inizio dal “mito” dell’uniformità, che, tuttavia, non è riuscito poi a garantire uguali condizioni su tutto il territorio nazionale, come si pensava in principio; il trascorrere del tempo, al contrario, ha dimostrato come quello del regionalismo uniforme non fosse altro che un feticcio, paradossalmente acuendo, anziché attenuando, le profonde differenze economiche e sociali esistenti tra regione e regione. Sulla base di tali premesse, si è progressivamente affacciata nel panorama istituzionale italiano l’idea (opposta ma decisamente più realistica) del cosiddetto regionalismo differenziato; e così, a partire dagli anni ’90, si è avviato un lento (ma irreversibile) processo di adeguamento che ha messo a nudo la falsa omogeneità delle regioni italiane. Con l’autunno del 2001 si arriva, infine, alla legge costituzionale n. 3, che rappresenta l’ultima tappa di un processo laborioso. Modelli ispiratori della riforma sono stati espressamente la cosiddetta devolution di origine britannica e, soprattutto, il regionalismo asimmetrico spagnolo. Infatti, in Spagna proprio l’introduzione di un meccanismo a due velocità, per così dire, nel procedimento di revisione degli statuti, ha consentito a ciascuna comunità autonoma di conquistare progressivamente nuovi spazi di autonomia senza traumi e senza strappi, in misura compatibile col mutare delle condizioni economiche e sociali interne.
E, comunque la si pensi, sarebbe ora, a 16 anni dalla riforma del 2001, di darsi una mossa. Anche perché ciò che forse abbiamo imparato da quasi vent’anni di confusa discussione sul federalismo è che un approccio ideologico, aprioristico, non porta molto lontano. Come scriveva Daniel J. Elazar, «l’essenza del federalismo non deve essere cercata in un particolare insieme di istituzioni, ma nell’istituzionalizzazione di particolari relazioni tra i partecipanti alla vita politica».
Il federalismo, cioè la domanda di autonomia e di riforme istituzionali che, il più delle volte col linguaggio minaccioso e mitologico della Lega, ha accompagnato la travolgente trasformazione in atto nelle regioni del Nord, è stato in questi anni un tormentone. Che lo Stato e la pubblica amministrazione in Italia funzionino male lo dicono tutti. Che ci sia bisogno di un cambiamento anche. Perché le istituzioni, nate come strumento per la soluzione dei problemi collettivi, sono diventate un problema esse stesse. Per ricomporre il rapporto logorato tra società e istituzioni, la proposta in questi anni è stata quella del federalismo.
Una proposta confusa (prima della devolution la Lega ha proclamato e teorizzato come obiettivo politico l’indipendenza del Nord, vale a dire la secessione) e una disputa (di quale federalismo si parla? Con quali e quante unità territoriali? Con quali poteri e quali risorse?) che ha assunto connotati fortemente ideologici. Al punto che, come ha sottolineato Ilvo Diamanti, si è parlato di Federalismo con la F maiuscola: non di un programma e di un modello per riformare le istituzioni, l’amministrazione e l’organizzazione dello Stato, e rispondere concretamente alle domande e ai bisogni del territorio, ma di un valore e di un modello di “società giusta”, da affermare in alternativa e in contrapposizione allo Stato, per delineare, facendo appello a pulsioni etniche, una patria e un popolo.
Anche se i tentativi di trasformare lo Stato non sono mancati (tanto che la Repubblica non è più quella di prima), le cose non sono andate così e, dopo anni di mancate promesse, la credibilità del federalismo è sfumata. E, un po’ alla volta, ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che per rinnovare veramente lo Stato non bastano nuove istituzioni costituzionali e la devolution di competenze. E, forse, l’idea che sia possibile dare una risposta ai problemi del Paese, alle tensioni della società e perfino alle anomalie della politica italiana, “semplicemente” riprogettando le istituzioni, comincia a sembrare meno convincente.
Ma oggi che il federalismo non gode di grandissima popolarità e sembra diventato un problema (cessata la protesta e venuta meno la paura della secessione, è venuto meno anche l’interesse verso tale riforma), non sarebbe male tenere a mente che quella di nuove regole e di nuove istituzioni è una strada “imposta da emergenze e fratture”, che abbiamo scelto proprio “per sanare il contrasto tra società e Stato, fra società e politica”. Un contrasto che non è risolto per il fatto che ora al governo c’è il PD, di marce sul Po non se ne fanno più e i giornali (e persino le associazioni degli industriali) hanno smesso di parlare del Veneto come se fosse l’Ulster.
Gli individui, le istituzioni, l’Europa
Il fatto è che la riforma non può essere pensata come una mera operazione di trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni (un centralismo che non viene cioè riformato, ha scritto Vittorio Foa, «ma frantumato e riprodotto lasciandone intatta la sostanza intrusiva»): deve essere l’occasione di un ripensamento del rapporto cittadino-autorità nel nostro sistema costituzionale. La cosa più importante non sono i cambiamenti istituzionali, ma quello che gli americani chiamano empowerment of individuals, e che, anche se detto in inglese, tutti gli italiani capiscono molto bene, perché è il cittadino che vuole (e deve) diventare il vero soggetto decisionale. Persino la maggior parte degli elettori che oggi sostiene Grillo non domanda un’autorità più forte. Al contrario, vuole maggiore libertà e meno regole (e meno tasse, auspicabilmente) per poter raggiungere i propri obiettivi personali.
Una delle componenti del pensiero federalista è sempre stata la ricerca di spazi di autonomia e libertà per i cittadini proprio attraverso forme di contenimento e di distribuzione articolata del potere pubblico. E questa è una esigenza che non viene meno perché oggi in molti attendono la venuta dei Pentastellati. Pertanto, il compito di riportare l’attenzione sul federalismo come progetto riformista (e cioè su pochi principi guida: responsabilità, flessibilità-adattabilità, autonomia fiscale, funzionalità) spetta a chi, nonostante tutto, si ostina a credere alla sua utilità per l’intero Paese.
E il bello è che uno degli elementi maggiormente significativi dell’originale regionalismo italiano è proprio quello rappresentato dalle autonomie speciali, che hanno dato luogo a formule e principi organizzativi e funzionali distinti (seppure affiancati) a quelli propri delle Regioni di diritto comune.
Non esiste una nozione unitaria di specialità regionale. La specialità, o meglio le singole regioni speciali, hanno una giustificazione e una identità politico istituzionale che sono date esclusivamente dalla storia. Gli statuti speciali sono stati elaborati singolarmente al di fuori di un quadro costituzionale unitario di riferimento e per venire incontro a esigenze differenti (il pericolo del separatismo in Sicilia, il problema delle minoranze in Trentino-Alto Adige/Südtirol ecc.). E l’Assemblea costituente non fece altro che prendere atto di situazioni già in larga misura determinate al suo esterno. Gli Statuti delle regioni Sicilia e Valle d’Aosta erano stati già approvati prima che iniziassero i lavori della Costituente; per la regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, in attesa dell’approvazione della Costituzione, i principi guida dello Statuto erano stati definiti da alcuni trattati internazionali; ed è appena il caso di ricordare che la vertenza internazionale sull’assetto territoriale della Venezia Giulia e del confine orientale è stato un problema di politica internazionale che ha interessato il peace making.
Lo ha richiamato in un recente intervento al Senato Giorgio Tonini: dopo oltre un secolo di conflitti è (finalmente) la Repubblica «che ha posto le basi a una delle più straordinarie esperienze riuscite e di successo di convivenza tra popolazioni diverse in una zona di frontiera; una delle più riuscite d’Europa e, automaticamente, del mondo, perché non c’è posto più che in Europa dove si sia tentato di costruire la convivenza come alternativa alla guerra» e «il problema, che in tanti altri posti d’Europa e del mondo si risolve con le truppe speciali, da noi si è risolto con le autonomie speciali».
Aggiungo che la proposta (diretta a Stalin e Molotov, il 15 agosto del 1945, dal leader sindacale Di Vittorio, allora in visita a Mosca, per conto di Togliatti) della “piena autonomia politica (garantita e controllata dai governi interessati: Italia e Jugoslavia) della città di Trieste e della regione contesa”, che ipotizzava che “dopo due, tre anni la questione potrebbe essere definitivamente risolta da un plebiscito”, la dice lunghissima dell’origine della specialità del Friuli-Venezia Giulia. Così come la dice lunga l’orientamento nettamente contrario all’autonomia friulo-giuliana della maggioranza della popolazione goriziana e di quasi tutti i partiti (con l’eccezione, ovviamente, dei comunisti) e l’adesione di Gorizia all’ipotesi di una grande Regione Veneta. Infatti, la ventilata autonomia faceva temere ai goriziani un distacco dall’Italia e un cedimento alle richieste jugoslave. Non deve stupire. La Regione, come ha ricordato Giuliano Amato, «nasce da una delle vicende istituzionali e politiche più rocambolesche della nostra storia e nasce con una missione che è quella che già sta scritta nella Decima Disposizione Transitoria della Costituzione, che poi viene ribadita dal Memorandum d’intesa e dall’art. 3 dello Statuto, quella di assicurare una convivenza e una collaborazione tra gruppi tra i quali era sorto, in ragione della vicenda bellica e post-bellica, un clima di ostilità, di odio; vicende drammatiche e tragiche che sono pari a quelle che poi abbiamo visto, nei decenni successivi, creare tante difficoltà ad altre parti d’Europa».
Ho fatto questi esempi per ricordare che, oggi come allora, è europeo lo scenario in cui viviamo ed è europea la sostanza dei problemi. E non alludo solo al fatto che, allora, Trieste e la Venezia Giulia erano oggetto di vertenza internazionale. Se fosse solo questo vedremmo in gioco solo gli interessi nazionali. Invece vediamo ben altro; vediamo in atto due storie: la storia di un’Europa che si sta ricostruendo e la storia di un’Europa che si sta dividendo (dove la divisione in blocchi è fonte di minaccia e di insicurezza). E oggi, aggiungo, anche nel ribollire di tanti egoismi e particolarismi territoriali, vediamo la storia di un’Europa che si va unificando e che riprende a muoversi (e a sperare) con la promessa di reciproca integrazione (e dunque di maggior benessere e maggior democrazia); di un’Europa in cui il problema della nazione non è più separabile da quello della “cittadinanza”, e questo dipende sempre più dall’avanzare della società civile internazionale.
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