Un Giudice del lavoro la solleva con una ordinanza molto articolata, nella quale manifesta adesione a un approccio di labour law and economics alla materia, di cui io stesso sono un convinto sostenitore – Gli argomenti addotti per il rinvio alla Consulta, tuttavia. non mi sembrano convincenti
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Ordinanza con la quale la dott. Maria Giulia Cosentino, giudice del lavoro del Tribunale di Roma, il 26 luglio 2017 ha sollevato davanti alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità del decreto legislativo n. 23/2015, che ha riformato la disciplina dei licenziamenti per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti dopo il 7 marzo 2015 – Segue un mio commento alla motivazione dell’ordinanza – In argomento v. anche i numerosi documenti e interventi pubblicati in questo sito sulla riforma dei licenziamenti, raccolti nel portale La riforma del lavoro .
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Scarica il testo dell’ordinanza del Tribunale di Roma
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UN MIO PRIMO COMMENTO A CALDO DELL’ORDINANZA
Sommario:
1. Il fatto
2. I profili di incostituzionalità del d.lgs. n. 23/2015 rilevati dal Giudice
3. La questione dell’esiguità e della rigidità di determinazione dell’indennizzo
4. Un passaggio della motivazione illogico e oltretutto infondato in linea di fatto
5. La questione della disparità di trattamento fra assunti prima e assunti dopo il 7 marzo 2015
6. L’adesione del Giudice all’impostazione della questione suggerita dall’approccio di labour law and economics
7. Sul fatto che l’indennizzo sia determinato secondo un criterio rigido, che non lascia spazio per alcuna discrezionalità in sede giudiziale
8. La non dimostrabilità in giudizio del giustificato motivo oggettivo, in quanto fondato sull’attesa di un evento futuro, come ragione essenziale dell’adozione del severance cost come “filtro automatico” di ultima istanza delle scelte imprenditoriali
9. Il passaggio da una property rule a una liability rule
10. La drastica riduzione dell’alea del giudizio (e quindi del contenzioso giudiziale)
11. Sull'”insufficiente entità” dell’indennizzo in assoluto e la sua “insufficiente efficacia dissuasiva”
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1. Il fatto – La 7S Srl ha assunto a tempo indeterminato la signora FS l’11 maggio 2015, per poi licenziarla sette mesi dopo, sotto Natale. L’azienda ha dunque beneficiato per sette mesi dell’esonero integrale dalla contribuzione previdenziale prevista per i rapporti di lavoro stabili costituiti nel corso del 2015, per un importo corrispondente approssimativamente a due mensilità e mezza della retribuzione lorda. Il licenziamento è stato comunicato dalla datrice alla prestatrice di lavoro con una motivazione a dir poco evanescente: “crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro”.
2. I profili di incostituzionalità del d.lgs. n. 23/2015 rilevati dal Giudice – Nella motivazione dell’ordinanza vengono denunciate:
– una violazione dell’articolo 3 Cost., “in quanto l’importo dell’indennità risarcitoria [prevista dal d.lgs. n. 23/2015] non riveste carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie”, anche in conseguena dell'”eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice”;
– una violazione degli articoli 4 e 35 Cost., “in quanto il diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso”;
– una violazione degli articoli 76 e 117 Cost., “in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto statuito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale”.
3. La questione dell’esiguità e della rigidità di determinazione dell’indennizzo – Nella motivazione dell’ordinanza il Giudice precisa subito che “Il contrasto con la Costituzione […] non si ravvisa in ragione dell’avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria […] e dunque in ragione della integrale monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore”. E cita correttamente in proposito le sentenze n. 46/2000 e n. 303/2011, con le quali la Corte costituzionale ha riconosciuto al legislatore ordinario la facoltà di scelta tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria. “Il sospetto di incostituzionalità viene formulato, invece, in ragione della disciplina concreta dell’indennità risarcitoria”; in altre parole, il profilo di incostituzionalità denunciato con l’ordinanza sta tutto nella misura dell’indennità, che il Giudice considera indebitamente bassa.
L’eccessiva esiguità dell’indennizzo viene però poi argomentata dal Giudice in modo che mi pare confuso e assai poco convincente. Gli argomenti addotti a questo proposito sono essenzialmente quattro:
a) l’indennizzo sarebbe di entità inferiore rispetto allo sgravio contributivo istituito in quasi perfetta coincidenza con la riforma della disciplina dei licenziamenti;
b) l’indennizzo applicabile ai nuovi rapporti di lavoro sarebbe di entità troppo esigua rispetto a quello previsto per i rapporti di lavoro costituiti nel regime previgente, derivandone una ingiustificata disparità di trattamento, anche tra dipendenti di una stessa azienda;
c) essendo l’indennizzo stabilito in misura fissa e non essendo lasciata al giudice alcuna discrezionalità nella valutazione della gravità del vizio del licenziamento, ne deriverebbe un irragionevole trattamento eguale di situazioni di diversa natura e gravità;
d) l’indennizzo applicabile ai nuovi rapporti non avrebbe sufficiente “efficacia dissuasiva” e, in particolare, non soddisferebbe la disposizione contenuta in proposito nella Carta di Nizza.
4. Un passaggio della motivazione illogico e oltretutto infondato in linea di fatto – Nel prima parte della motivazione dell’ordinanza dedicata a dimostrare l’irragionevolezza dell’esiguità dell’indennizzo si legge che “l’assunzione della ricorrente ha consentito al datore di lavoro la fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi […] di importo molto più consistente della condanna che riceverà nella presente sede: di fatto il legislatore incoraggia, con tali misure, comportamenti opportunistici e di dumping sociale”; poco oltre si parla di “free riding”. In realtà, nel caso specifico il beneficio economico goduto dall’impresa, pari come si è visto (§ 1) all’esonero dalla contribuzione previdenziale per sette mesi, equivale all’incirca a due mensilità e mezza di retribuzione lorda; l’indennizzo che l’impresa stessa deve pagare a norma del d.lgs. n. 23/2015 per il licenziamento ingiustificato ammonta a quattro mensilità. Dunque, non è vero che il datore di lavoro abbia fruito “di uno sgravio contributivo […] molto più consistente della condanna che riceverà” per il licenziamento ingiustificato: è vero il contrario. Il rapporto quantitativo tra sgravio goduto e indennizzo eventualmente dovuto appare comunque, sul piano logico-giuridico e costituzionale in particolare, del tutto irrilevante.
Qui, evidentemente, il Giudice si è fatto prendere la mano da un luogo comune che si era diffuso subito dopo l’emanazione del decreto n. 23/2015: quello secondo cui il combinato disposto dello stesso decreto e della norma sulla decontribuzione avrebbe consentito ai datori di lavoro di frodare i lavoratori assunti, speculando sullo sgravio contributivo. A ben vedere, se anche fosse vero che la 7S Srl avesse assunto la signora FS solo per beneficiare dello sgravio contributivo e contando sulla possibilità di licenziarla con un costo modesto, resterebbe comunque il fatto che dopo sette soli mesi il costo del licenziamento si è mangiato tutto quel beneficio. D’altra parte, se invece la 7S Srl avesse aspettato la fine del triennio di sgravio, a quel punto non avrebbe avuto alcun interesse di natura contributiva a sostituire la signora FS con un’altra persona, perché nel nuovo rapporto non avrebbe goduto dello sgravio. In che cosa consistano, dunque, i “comportamenti opportunistici”, il “dumping sociale” e il “free riding” consentiti dal combinato disposto dell’incentivo economico e della riforma dei licenziamenti, di cui si legge nella motivazione dell’ordinanza, non è proprio dato capire.
Sta di fatto comunque che lo sgravio contributivo è stato in vigore nella misura piena soltanto per i rapporti costituiti nel corso del 2015, e nella misura ridutta al 40 per cento soltanto per quelli costituiti nel corso del 2016: non si vede come la combinazione contingente tra quell’incenitvo econoomico di natura congiunturale e la nuova disciplina dei licenziamenti possa costituire motivo per una pronuncia di incostituzionalità di quest’ultima, dopo che la combinazione normativa è cessata e con riferimento ai suoi effetti futuri.
5. La questione della disparità di trattamento fra assunti prima e assunti dopo il 7 marzo 2015 – La stessa motivazione dell’ordinanza richiama correttamente il principio più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo il quale “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, […] essendo conseguenza dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo” (così, tra le altre, C. cost. n. 254/2014). Se non fosse così, diventerebbe molto difficile, quando non impossibile, qualsiasi riforma della disciplina di un contratto di durata: ne risulterebbe infatti, per un verso, vietata la differenziazione della disciplina applicabile ai nuovi contratti rispetto a quella applicabile ai vecchi, per altro verso problematica l’alterazione dell’equilibrio fra le prestazioni nell’ambito di rapporti già costituiti. Vi è motivo semmai, al contrario, per considere più conforme ai principi generali della Costituzione una riforma che applichi la nuova disciplina soltanto ai rapporti di durata futuri e non a quelli già in essere.
Senonché la motivazione dell’ordinanza prosegue contraddicendo la giurisprudenza costituzionale da essa stessa citata: “è pur vero – afferma il Giudice – che la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale”. Poiché la data di stipulazione del contratto di durata è sempre “un dato accidentale ed estrinseco” rispetto al contenuto del contratto stesso, se bastasse questa osservazione per escludere la differenziazione della disciplina per i nuovi rapporti rispetti ai vecchi, ne risulterebbe rovesciato il principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale consolidata.
6. L’adesione del Giudice all’impostazione della questione suggerita dall’approccio di Labour Law and Economics – Su questo punto della differenziazione della disciplina applicabile in ragione del tempo in cui il rapporto è stato costituito, l’ordinanza aggiunge un solo altro argomento, notevolmente interessante sul piano teorico generale, ma – mi sembra – non pertinente rispetto alla questione. Leggiamo il brano del paragrafo 2A della motivazione dedicato a questo argomento:
[…] gli stessi teorici della labour law and economics che hanno ispirato la riforma del “Jobs Act”, nel sostenere (fondatamente, ad avviso di questo giudice) che la tutela avverso il licenziamento illegittimo non deve essere necessariamente di contenuto reintegratorio, bensì può essere (ed anzi a loro avviso sarebbe più opportuno che fosse) costituita da un indennizzo di dimensioni prevedibili per il datore di lavoro che intende licenziare (c.d. firing cost), non hanno mancato di rimarcare che il grado di protezione offerto – e quindi l’entità del contenuto “assicurativo” del rapporto di lavoro – dipende essenzialmente dall’entità del costo del licenziamento, cui corrisponde la soglia al di sotto della quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto rientra nel rischio posto a carico dell’impresa.
Poiché qui il Giudice manifesta la propria adesione alla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento da me proposta in tutti i miei scritti su questo tema degli ultimi vent’anni (per l’esposizione più compiuta v. Il contratto di lavoro, vol. III, nel Trattato di Diritto Civile e Commerciale Cicu-Messineo-Mengoni, Giuffrè, 2003, pp. 435-441), questo avallo giurisprudenziale non può che farmi piacere. Però, per quanto abbia letto e riletto con grande attenzione questo passaggio dell’ordinanza, non sono riuscito a comprendere come da esso possa trarsi argomento a sostegno della tesi della illegittimità costituzionale della differenziazione della disciplina dei licenziamenti per i nuovi rapporti di lavoro rispetto a quella per i vecchi. Al contrario, proprio la nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento fondata sul riconoscimento di un contenuto assicurativo del rapporto di lavoro, che il Giudice fa propria, fornisce un argomento ulteriore molto robusto a sostegno dell’opportunità di quella differenziazione ratione temporis: se l’indennizzo dovuto costituisce la misura del contenuto assicurativo del rapporto imposto inderogabilmente dalla legge, deve consentirsi il necessario aggiustamento della retribuzione, e con essa del “premio assicurativo” implicito che il lavoratore paga per la copertura assicurativa imposta inderogabilmente dalla legge. Stante la scarsa elasticità delle retribuzioni in corso di rapporto, è opporruno che la nuova disciplina non venga imposta ai rapporti già in essere, rispetto ai quali essa causerebbe una alterazione dell’equilibrio tra copertura assicurativa e relativo “premio” implicito pagato dai lavoratori, ma si applichi soltanto ai rapporti destinati a costituirsi da quel momento in poi.
7. Sul fatto che l’indennizzo sia determinato secondo un criterio rigido, che non lascia spazio per alcuna discrezionalità in sede giudiziale – Il paragrafo 2A della motivazione dell’ordinanza si conclude con un’ultima osservazione critica circa la disparità di trattamento – considerata dal Giudice irragionevole – che si determinerebbe, per effetto del nuovo apparato sanzionatorio istituito dal d.lgs. n. 23/2015 contro il licenziamento ingiustificato,
– “fra lavoratori licenziati con provvedimenti affetti da illegittimità macroscopiche [e lavoratori licenziati con provvedimenti affetti] da vizi meramente formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi, con un indennizzo del medesimo importo;
– inoltre “fra dirigenti e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che i primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente”.
Sul secondo punto va subito rilevato che i contratti collettivi del settore dirigenziale hanno prontamente reagito alla riforma adeguando gli indennizzi previsti al nuovo contesto della disciplina legislativa applicabile alla generalità dei lavoratori. Per altro verso, nulla vieta che sulla materia dell’indennizzo, o più in generale del costo del licenziamento per l’imprenditore, intervengano anche i contratti collettivi dei settori non dirigenziali, qui per modificarlo in aumento (per esempio con la previsione di un trattamento complementare di disoccupazione per il caso di licenziamento “economico”, oppure con la previsione di un indennizzo rafforzato). Non sembra, comunque, che possa parlarsi di “disparità irragionevole” quando i termini del confronto sono, da un lato, uno standard di fonte legislativa, dall’altro degli standard di fonte contrattuale.
Quanto al primo punto, cioè quello relativo all’insensibilità dell’indennizzo alla “gravità della colpa” della datrice di lavoro, va osservato che – se si escludono i casi di licenziamento discriminatorio o dettato da motivo illecito, nei quali resta protetto un diritto assoluto della persona del prestatore – la scelta del legislatore del 2014-2015 è consistita essenzialmente nell’istituire una sorta di “filtro di ultima istanza” delle scelte economico-organizzative della datrice di lavoro: là dove essa sia disponibile a pagare l’indennizzo stabilito, ciò evidentemente significa che la perdita da essa attesa come conseguenza della prosecuzione del rapporto, attualizzata a oggi, è superiore rispetto a quella massima che il legislatore stesso ritiene opportuno accollarle. È il meccanismo che lo stesso Giudice estensore di questa ordinanza ha individuato e spiegato in modo notevolmente limpido e incisivo, là dove ha individuato la ratio della nuova norma nella fissazione dell'”entità del contenuto assicurativo del rapporto di lavoro”, mediante la determinazione della “soglia al di sotto della quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto rientra nel rischio posto a carico dell’impresa” (v. sopra, § 6). Ora, nella logica di questo “filtro di ultima istanza” attivato dalla riforma, si capisce bene che non avrebbe senso differenziare l’indennizzo in relazione alla “gravità della colpa” della datrice di lavoro: la funzione dell’indennizzo, qui, non è quella di punire quest’ultima, ma soltanto quella duplice di stabilire un “massimale assicurativo” a suo carico e a beneficio del dipendente. Si può discutere di quale sia il “massimale assicurativo” più appropriato, ma questo rientra evidentemente nella piena discrezionalità del legislatore ordinario: su questo punto torneremo nel § 9.
8. La non dimostrabilità in giudizio del giustificato motivo oggettivo, in quanto fondato sull’attesa di un evento futuro, come ragione essenziale dell’adozione del severance cost come “filtro automatico” di ultima istanza delle scelte imprenditoriali – A ulteriore conferma della bontà della scelta legislativa di un indennizzo rigidamente predeterminato nel suo ammontare, come “filtro di ultima istanza” delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore, con conseguente esclusione di ogni discrezionalità del giudice nella determinazione dell’indennizzo medesimo, si può addurre un argomento fondato sullo stesso approccio di labour law and economics cui l’estensore dell’ordinanza in esame ha manifestato la propria adesione: la nozione di giustificato motivo oggettivo come “perdita attesa superiore a una soglia prestabilita” implica il riconoscimento che, salvi i casi di crisi aziendale gravissima e quindi immediatamente evidente, il g.m.o. non è suscettibile di prova giudiziale in senso proprio, perché è costituito da un evento futuro; e un evento futuro non può mai essere oggetto di prova, né documentale né testimoniale. Questa osservazione costituisce l’argomento principale a sostegno della proposta di O. Blanchard e J. Tirole (tr. it. in Riv. it. dir. lav., 2004, I, pp. 161-211) di sostituire il “filtro automatico” del severance cost alla valutazione giudiziale, riservando al magistrato il compito di stanare e sanzionare le discriminazioni e i motivi illeciti sottostanti al licenziamento.
Vero è che il d.lgs. n. 23/2015 non sostituisce integralmente il “filtro automatico” al controllo giudiziale del giustificato motivo: tanto è vero che, laddove il giudice ravvisi l’evidenza della sua sussistenza, rientra nei suoi poteri quello di dichiararlo sussistente ed esonerare la datrice di lavoro dall’indennizzo. Poiché però nella maggior parte dei casi l’evidenza immediata del g.m.o non c’è, e per i motivi anzidetti la sua dimostrazione giudiziale è pressoché impossibile, proprio in considerazione di questo il legislatore ha adottato la tecnica del severance cost come “filtro automatico di ultima istanza”, necessariamente sostituendo la sanzione della restitutio in integrum con quella costituita dall’indennizzo predeterminato nel suo ammontare.
Vero è pure che il d.lgs n. 23/2015 applica lo stesso meccanismo non soltanto al licenziamento per motivo oggettivo, ma anche a quello disciplinare; e in questo caso il fatto che giustifica il recesso appartiene al passato e non al futuro. Ho tuttavia mostrato altrove come tra il motivo disciplinare e quello oggettivo non ci sia affatto una incompativilità logica, ci siano anzi ampie aree di sovrapposizione: quando non sia stato possibile dimostrare in giudizio la colpa del lavoratore possono pur sempre residuare motivi oggettivi più che giustificati di recesso della datrice di lavoro. Non c’è dunque nulla di irragionevole nel prevedere che, all’esito negativo del vaglio giudiziale circa la colpa del lavoratore come motivo disciplinare, si applichi pur sempre il severance cost come filtro automatico del motivo oggettivo, in sé del tutto legittimo, implicito negli stessi fatti contestati a titolo disciplinare, che può indurre il datore di lavoro a preferire comunque la cessazione del rapporto. Per fare solo un esempio: è giusto che il lavoratore sia assolto dall’addebito disciplinare anche per insufficienza di prove, ma non è giusto che all’impresa sia negata una via d’uscita, più costosa ma sicura, dal rapporto con il lavoratore della cui affidabilità non possa più essere certa.
9. Il passaggio da una property rule a una liability rule – Nell’adottare la tecnica del severance cost come “filtro automatico”, di cui si è appena detto, il legislatore del 2014-2015 non ha fatto altro che portare a compimento il passaggio, avviato con la legge n. 92/2012, da un regime prevalentemente centrato su di una property rule a un regime prevalentemente centrato su di una liability rule: scelta, questa, che la stessa ordinanza qui in discussione riconosce come pacificamente rientrante nella discrezionalità del legislatore ordinario, giungendo addirittura a considerarla in linea di principio condivisibile. Nel nuovo regime la protezione della persona che lavora nel settore privato non è dunque più impostata (come invece resta impostata la protezione dell’impiegato pubblico, per effetto dell’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017) in termini di garanzia di “stabilità del posto di lavoro salvo eccezioni”, bensì in termini di flexsecurity, cioè di tutela della sicurezza economica e professionale nel mercato molto più che nel singolo rapporto di lavoro: l’indennizzo a carico del datore di lavoro è solo una componente di questa sicurezza.
Anche questo contribuisce a spiegare perché il “grado della colpa” del datore di lavoro non costituisca un parametro di riferimento per la determinazione dell’entità dell’indennizzo.
D’altra parte, sarebbe controproducente rispetto alle finalità di protezione perseguite dal legislatore commisurare l’indennizzo alla situazione particolare di bisogno o di difficoltà della singola persona, adottando come indice il suo carico di famiglia, e/o la sua età anagrafica: una siffatta scelta legislativa, infatti, avrebbe l’effetto di aumentare il contenuto assicurativo a cui ha inderogabilmente diritto la persona con maggiori carichi di famiglia o maggiore età, finendo col condannarla a una minore appetibilità, coeteris paribus, nel mercato del lavoro; cioè riducendo la sua employabilty.
10. La drastica riduzione dell’alea del giudizio (e quindi del contenzioso giudiziale) – Certo, il meccanismo fondato sull’indennizzo legislativamente predeterminato come “filtro automatico” delle scelte dell’imprenditore, eliminando ogni discrezionalità del giudice nella determinazione dell’entità dell’indennizzo medesimo, con essa elimina anche una parte rilevante dell’alea del giudizio: è dunque più facile per entrambe le parti prevedere l’esito del giudizio stesso. E, come è noto, la prevedibilità dell’esito riduce, fino ad azzerare, il contenzioso giudiziale: non è un caso che dal 2012 si sia assistito a una riduzione impressionante del numero dei giudizi in materia di licenziamento davanti ai Giudici del lavoro. Questa riduzione, però, lede soltanto l’interesse non costituzionalmente protetto degli avvocati, non quello dei lavoratori.
Se si ritiene che il “contenuto assicurativo” del rapporto sia insufficiente, la via da seguire è soltanto quella dell’aumento dell’indennizzo; non certo quella dell’aumento dell’alea del giudizio. In ogni caso la determinazione dell’entità opportuna del “contenuto assicurativo” del rapporto non è compito della Corte costituzionale.
11. Sull'”insufficiente entità” dell’indennizzo in assoluto e la sua “insufficiente efficacia dissuasiva” – Siamo così arrivati all’ultimo – non ultimo per importanza – argomento esposto nell’ordinanza del Tribunale di Roma. L’indennizzo sarebbe determinato dal d.lgs. n. 23/2015 in misura inadeguata:
– rispetto al “valore fondante del lavoro”, protetto dagli articoli 4 e 35 Cost.;
– rispetto a quanto previsto dall’art. 30 della Carta di Nizza, dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, e dalla Convenzione OIL n. 158/1982.
In riferimento a entrambi questi profili di inadeguatezza denunciati dall’ordinanza è agevole osservare che l’entità dell’indennizzo previsto dalla nostra riforma del 2014-2015 è superiore rispetto a quanto previsto nella maggior parte degli altri Paesi europei, ai quali si applicano la Carta di Nizza e la Carta Sociale Europea. L’importo massimo dell’indennizzo in Italia, nel nuovo regime, è di 24 mensilità, mentre è di 18 mensilità in Germania, di 6 mensilità più il costo della convention de conversion (mediamente 12 mensilità) in Francia, di circa una mensilità per anno di anzianità di servizio in Spagna e Olanda, e in Gran Bretagna gli indennizzi abituali sono nettamente inferiori rispetto a quelli mediamente correnti nell’Europa continentale.
Quanto alla Convenzione OIL n. 158/1982, essa non è stata ratificata dall’Italia. Sta di fatto, comunque, che la disposizione in essa contenuta in materia di tutela indennitaria contro il licenziamento non si considera violata da ordinamenti nazionali di latitudini e longitudini varie, che prevedono indennizzi di molto inferiori rispetto al nostro.
A quanto fin qui osservato aggiungo che in Italia il datore di lavoro, all’atto del licenziamento, è tenuto a pagare all’Inps un cospicuo contributo una tantum per il finanziamento del trattamento di disoccupazione, il quale aumenta sensibilmente il costo del licenziamento. Per non dire dell’apparato sanzionatorio contro il licenziamento discriminatorio, che in Italia resta nettamente più severo rispetto al resto d’Europa, e ancor più rispetto al resto del Mondo. Nella media dei casi di licenziamento non discriminatorio il severance cost italiano è comunque, come si è visto, superiore sia nel valore massimo sia nel valore medio rispetto al resto del continente, dove sia la Carta di Nizza sia la Carta Sociale Europea si applicano. E dove – se si eccettua il caso finlandese citato nell’ordinanza, il cui esito resta peraltro oscuro – non risulta che delle due Carte sia stata mai denunciata una violazione sotto il profilo dell’insufficiente entità dell’indennizzo previsto.
E parliamo dell’Europa: cioè della regione del mondo dove il lavoro è valorizzato e tutelato più che in qualsiasi altra. Appare dunque difficile sostenere che l’indennizzo previsto dal nostro d.lgs. n. 23/2015, che si colloca nella fascia alta degli indennizzi previsti nei Paesi europei e che si coniuga con un trattamento universale di disoccupazione oggi pienamente allineato rispetto a quelli più generosi nel panorama europeo, debba considerarsi di entità eccessivamente bassa in relazione al valore del bene lavoro tutelato dalla nostra Costituzione.
Consideriamo, del resto, il caso specifico da cui l’ordinanza trae origine: la signora SF, dopo sette mesi di lavoro, a norma del d.lgs. n. 23/2015 ha diritto – oltre al trattamento di disoccupazione – a un indennizzo pari a quattro mensilità di retribuzione, che costituisce per lei un aumento della retribuzione complessiva pari all’incirca al 57 per cento della retribuzione. Come si può considerare un indennizzo di questa entità “sproporzionatamente esiguo” rispetto al valore del lavoro tutelato dalla Costituzione? Per altro verso, un aumento del costo del rapporto di lavoro di questa entità, cui si aggiunge il contributo una tantum all’Inps per l’assicurazione contro la disoccupazione, non può certo essere preso alla leggera dalla datrice di lavoro: se, nonostante questo costo, essa ha deciso di procedere al licenziamento, si deve ritenere che davvero essa si attendesse dalla prosecuzione del rapporto una perdita superiore. Né può considerarsi irragionevole la scelta del legislatore – in sostanziale armonia con quanto disposto dagli ordinamenti dei maggiori Paesi nostri partner europei – di considerare quella perdita come eccedente rispetto a quanto si può e deve accollare all’azienda in funzione della sicurezza della sua dipendente.
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