Il nuovo “lavoro occasionale” che muove i primi passi in questi giorni ritorna più o meno alle limitazioni e ai costi di transazione con cui la legge Biagi lo aveva originariamente battezzato: un successo dei nemici della semplificazione
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Articolo pubblicato su lavoce.info il 18 luglio 2017 – In argomento v. anche il mio precedente articolo pubblicato sullo stesso sito nel marzo scorso: La storia surreale del voucher che toglie dignità al lavoro .
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Per comprendere a fondo la questione dei buoni-lavoro occorre considerare che l’intero ordinamento giuslavoristico costituisce essenzialmente un diaframma tra domanda e offerta: un muro nel quale, al fine di costringere l’incontro fra domanda e offerta nel canale di correttezza voluto dal legislatore, si aprono porte più o meno strette. E l’apertura di ciascuna di queste porte comporta comunque sempre un rilevante “costo di transazione” costituito da adempimenti burocratici complessi. Mentre, in linea generale, questo costo di transazione ha soltanto qualche effetto modestamente depressivo sulla domanda di lavoro, ma non di più, invece per i rapporti destinati a durare soltanto poche ore o pochi giorni questa componente fissa del costo diventa ostativa, cioè azzera la domanda, o la spinge verso l’economia sommersa.
Questo è il motivo per cui la legge Biagi introdusse lo strumento dei buoni-lavoro: un modo per togliere di mezzo almeno i costi di “apertura della porta” nel caso del lavoro accessorio od occasionale. Senonché la stessa legge consentiva di passare per quella “porta” soltanto ad alcune categorie particolari di prestatori di lavoro e soltanto per alcune categorie di lavori; restrizioni che, oltre a tutto, generavano di per sé un costo di transazione non irrilevante. Il risultato fu che nel primo quadriennio di effettiva sperimentazione il numero dei buoni-lavoro utilizzati arrivò soltanto a una punta di 15 milioni l’anno nel 2011: meno dello 0, 03 per cento rispetto agli oltre 40 miliardi complessivi di ore che vengono lavorate ogni anno in Italia.
Nel 2012 il legislatore ha quindi deciso di intervenire ulteriormente sul costo di transazione, abolendo la casistica della legge Biagi e mantenendo come “filtro” soltanto il limite quantitativo di utilizzazione dei buoni, a garanzia del carattere “accessorio” od “occasionale” del lavoro di cui si semplifica la costituzione (legge Fornero); limite che è stato poi ritoccato al rialzo con la riforma del 2015: fermi i 2.000 euro l’anno di retribuzione netta pagata da ciascun imprenditore a ciascun lavoratore, per quest’ultimo il tetto veniva invece aumentato a 7.000 euro complessivi di retribuzioni relative a rapporti occasionali diversi. Col risultato che i buoni utilizzati sono passati dai 23 milioni del 2012 ai 134 milioni del 2016. Un aumento sicuramente in larga parte dovuto alla riduzione drastica dei costi di transazione: non c’era più bisogno del consulente per sapere che per mezzo dei buoni acquistati alle Poste, in banca o in tabaccheria si poteva ingaggiare senz’altro una persona qualsiasi, retribuendola fino a un massimo di 2.000 euro nell’arco dell’anno.
L’aumento a 134 milioni dei buoni acquistati nel 2016 è stato denunciato come “abnorme”; ma 134 milioni corrispondono a meno dello 0,2 per cento delle ore lavorate nell’anno in Italia. Si è parlato di lavoro troppo a buon mercato; ma un “salario minimo orario” di 7,5 euro netti tutto compreso – come quello previsto dalla disciplina del 2015 – corrisponde più o meno allo standard dei principali contratti collettivi nazionali. Si è parlato di numerosi abusi verificatisi nell’uso dei buoni-lavoro; ma questi abusi erano destinati a essere quasi tutti snidati con la norma sulla “tracciabilità” varata nell’autunno del 2016; e comunque le contromisure avrebbero ben potuto anche essere rafforzate altrimenti. Il referendum drasticamente abrogativo non può dunque spiegarsi soltanto con questi argomenti. Esso, in realtà, era diretto contro l’idea stessa di consentire, sia pure soltanto in una zona molto marginale, direi quasi interstiziale, del tessuto produttivo, un rapporto di lavoro esente da complicazioni.
Fatto sta che i promotori del referendum l’hanno spuntata: il nuovo “lavoro occasionale” che muove i primi passi in questi giorni ritorna al punto di partenza, con una normativa relativamente complessa, che richiede un consulente per essere conosciuta e applicata; e comunque l’esclusione di tutte le imprese sopra i 5 dipendenti stabili dai soggetti che possono avvalersi dello strumento. Così questa forma di lavoro semplificato ora torna con tutta probabilità a essere relegata al di sotto dello 0,01 del totale del lavoro regolare svolto in Italia. Meglio vietare alle imprese il lavoro occasionale che lasciar circolare il virus pericoloso della semplificazione burocratica.
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