E’ GIUSTO CHE IL MAGISTERO ECCLESIASTICO NON RICONOSCA I PROPRI DEBITI NEI CONFRONTI DEL MONDO NON CATTOLICO?
Lettera pervenuta il 25 luglio 2009 – Segue la mia risposta
Caro Senatore,
del suo commento alla Caritas in Veritate non mi convince – e mi pare, francamente, ingeneroso ‑ l’invito al Papa a citare la letteratura economica o sociologica a cui fa riferimento.
L’enciclica è un genere letterario diverso da un saggio scientifico: un genere letterario che deve rispettare la propria tradizione. E poi, se il suo Autore incominciasse a citare l’opera di qualche studioso, si immagina le polemiche che sorgerebbero, per il fatto che non ne ha citato qualcun altro?
Non considera che la citazione nell’enciclica equivarrebbe a una sorta di “certificato di rilevanza scientifica” che non spetta alla Chiesa rilasciare? Si metta nei panni del Papa e si convincerà subito che la sua critica è sbagliata.
Con stima, comunque, per la sua opera quotidiana
O.d’A.
La sua obiezione è molto sensata, se si considera la tradizione del magistero cattolico romano; e ancor più se si considera l’orientamento di Benedetto XVI a difendere e rafforzare questa tradizione. Riconosco che la mia critica oggi non ha molte possibilità di essere accolta; le propongo comunque le osservazioni che seguono, nella speranza che possano tornar buone in un futuro non troppo lontano.
Quando facciamo nostro qualcosa che abbiamo appreso in uno scritto altrui, contraiamo un debito verso quest’altro autore; e l’unico modo per adempiere un debito di questa natura è riconoscerlo. Che cosa c’è di evangelico nel fatto che la Chiesa non riconosca un proprio debito di questa natura? Anche il Papa e i suoi consiglieri, in materia di economia e sociologia, apprendono molto da scritti altrui e per lo più da scritti di autori esterni alla Chiesa (nel mio commento a cui lei si riferisce ne ho fatto alcuni esempi). Citare, magari indirettamente, almeno i più importanti significherebbe riconoscere che su questo terreno il magistero pontificio non è autosufficiente: che anch’esso, come tutti al mondo, contrae dei debiti culturali verso il resto dell’umanità. Riconoscerlo gioverebbe molto alla Chiesa, proprio dal punto di vista della credibilità e purezza del suo messaggio teologico: perché aiuterebbe a chiarirne la distinzione dal (pur importantissimo) messaggio pragmatico. Qualche passaggio dell’enciclica e l’apparato delle note, invece, possono dare l’impressione della pretesa che la visione ivi proposta della società e dell’economia, dei loro meccanismi interni, sia interamente riconducibile ai documenti precedenti della dottrina sociale cattolica; l’impressione che tutto – almeno in nuce – sia già rintracciabile in essi (dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno, alla Populorum Progressio, alla Centesimus Annus), perché in definitiva tutto si trae dalle Scritture, dal depositum fidei.
Un “riconoscimento di debito” nell’enciclica significherebbe, in particolare, riconoscere che in quest’ultimo secolo e mezzo anche la Chiesa cattolica ha appreso molte cose dalle scienze sociali, nella loro piena autonomia, cioè “laicità” . Questo, oltretutto, incoraggerebbe molto opportunamente tanti sacerdoti e fedeli ad allargare i propri orizzonti culturali al di là della letteratura dotata dell’imprimatur ecclesiastico. Come è pensabile – per esempio ‑ che si parli credibilmente di giustizia sociale nel nostro secolo prescindendo dalla teoria di un grandissimo filosofo della politica non cattolico come John Rawls? E perché mai l’etica sociale cattolica non dovrebbe aggiornarsi e arricchirsi anche in riferimento a tematiche con le quali la Chiesa di Roma non ha mai molto familiarizzato, come quella del reddito minimo di cittadinanza, con lo studio umile e attento di quanto hanno elaborato in proposito eminenti pensatori non cattolici come James E. Meade?
A me sembra, poi, che questo discorso non valga soltanto in riferimento alla filosofia politica e alle scienze sociali, ma anche in riferimento allo stesso messaggio evangelico, la cui interpretazione e la cui attualizzazione in riferimento al mondo contemporaneo costituiscono l’oggetto essenziale dell’enciclica di cui stiamo discutendo. Qui, certo, è pienamente giustificata l’assoluta prevalenza dei riferimenti alle Scritture e ai documenti precedenti del magistero ecclesiastico; ma lo Spirito soffia dove vuole e come vuole: sovente Esso si manifesta anche nelle parole e negli atti di persone estranee alla Chiesa cattolica, dalle quali su questo terreno abbiamo tuttavia tutti molto da imparare. Oggi, per esempio, in tema di economia globalizzata, di politica mondiale di sviluppo, di solidarietà internazionale, io sento lo spirito evangelico soffiare con forza nelle parole e in molti atti concreti di Barack Hussein Obama (si pensi al suo discorso di insediamento del gennaio scorso; e ultimamente al discorso di Accra sullo sviluppo del continente nero, che sul Corriere della Sera del 26 luglio Marco Vitale ha indicato come “la vera enciclica per l’Africa”). Capisco che la citazione, anche soltanto implicita, di uno di questi atti del Presidente non cattolico degli Stati Uniti costituirebbe una clamorosa “rottura” rispetto al genere letterario dell’enciclica papale; ma non sarebbe forse questo un atto straordinario di umiltà e apertura evangeliche da parte della Chiesa cattolica? Come, se non in questo modo, si accoglie oggi l’invito che Gesù ha rivolto a tutti i suoi seguaci con la parabola del buon Samaritano? (p.i.)