Imporre al lavoro occasionale gli stessi costi di transazione, già troppo elevati, previsti per il lavoro stabile regolare, equivale a impedirne lo svolgimento regolare: questa sì un’opzione incostituzionale
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Intervento svolto nel corso della discussione generale del disegno di legge n. 2853/2017, di conversione del decreto-legge n. 50/2017 (cosiddetta “manovrina”), contenente l’emendamento aggiuntivo apportato dalla Camera in materia di lavoro occasionale – In argomento v. anche la discussione tra me e Franco Scarpelli, e gli interventi successivi dell’avv. Luciano Belli Paci e del prof. Paolo Tosi ..
PRESIDENTE – Ha chiesto la parola il senatore Ichino. Ne ha facoltà.
ICHINO (Pd) – Intervengo sulla questione che è stata posta da più parti – in particolare da Sinistra Italiana e dal Movimento Democratici e Progressisti – circa la correttezza costituzionale del modo in cui il Parlamento sta procedendo alla ridefinizione della disciplina del lavoro occasionale. Mi sia consentito osservare preliminarmente che un grave profilo di incostituzionalità sarebbe ravvisabile non nel fatto che il lavoro occasionale venga ridisciplinato, ma semmai nell’ipotesi in cui esso rimanesse privo di una disciplina adeguata. La Costituzione, all’articolo 35, impone alla Repubblica di tutelare “il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”: non sarebbe dunque consentito che l’ordinamento, omettendo qualsiasi disciplina della materia, rendesse di fatto impossibile l’incontro fra domanda e offerta in questo specifico segmento, se non nella forma del lavoro occasionale autonomo. Perché – non dimentichiamolo – il lavoro occasionale autonomo è tuttora riconosciuto dalla disciplina previdenziale e tributaria e non è soggetto ad alcun limite, salvo quello dei 5000 euro di reddito annui.
Vorrei chiedere ai colleghi Lomoro, Barozzino, Cioffi, e agli altri che in questa discussione hanno tuonato contro la nuova disciplina della materia introdotta con un emendamento aggiuntivo a questo decreto: davvero volete che vengano assunti solo come collaboratori occasionali autonomi, senza alcuno standard retributivo minimo, senza alcuna protezione previdenziale, i ragazzi ingaggiati la domenica per fare gli assistenti allo stadio prima durante e dopo la partita, le hostess per un congresso, i camerieri per un banchetto, i commessi assunti in un negozio per le due settimane pre-natalizie nelle quali le vendite si triplicano? Sono tutti rapporti che durano poche ore o pochi giorni e dunque non sopportano il costo degli adempimenti previsti per il lavoro stabile regolare: raccolta dei documenti personali della persona interessata, apertura di una posizione Inps e Inail, iscrizione nel libro paga e matricola, redazione e consegna di una lettera con tutti i crismi, comunicazione di costituzione del rapporto alla Direzione territoriale del lavoro competente; per poi ripetere tutte queste operazioni all’inverso all’atto della cessazione. Per il lavoro occasionale subordinato, anche quando ad avvalersene sono le imprese, questi “costi di transazione” diventano un ostacolo insormontabile, un vero e proprio diaframma che impedisce l’incontro regolare fra domanda e offerta. Dunque un sostanziale divieto.
Dobbiamo lasciarci alle spalle l’idea sciagurata secondo cui la semplificazione degli adempimenti toglierebbe dignità al lavoro. Così come l’idea che sia socialmente più pericoloso l’abuso commesso in un caso su cento, rispetto a una norma che per evitare quell’abuso riduca di fatto sensibilmente la possibilità di incontro fra domanda e offerta di lavoro negli altri novantanove casi.
Ma torniamo alla questione di metodo. Tutti sappiamo che quando il referendum viene indetto su materie complesse, come quella del lavoro occasionale, che non si prestano a essere risolte con un taglio netto, la funzione positiva dell’indizione del referendum può attuarsi soltanto attraverso un intervento legislativo che modifichi incisivamente la vecchia disciplina nel senso voluto dai promotori del referendum. Questo già avvenne – per limitare il discorso alla sola materia del lavoro – nel 1982 con la legge sul trattamento di fine rapporto, e nel 1990 con la legge sui licenziamenti nelle imprese di piccole dimensioni.
Nel 1982 i promotori del referendum volevano reintrodurre l’aggancio dell’intera “indennità di anzianità” all’ultima retribuzione; la riforma ristrutturò profondamente l’istituto, ma agganciò all’ultima retribuzione solo l’ultimo accantonamento annuale e non l’intero trattamento di fine rapporto. Nel 1990 i promotori del referendum volevano estendere l’articolo 18 St. lav. anche alle imprese con meno di 16 dipendenti; la riforma introdusse a carico di queste ultime soltanto una sanzione indennitaria, ma non l’intero apparato sanzionatorio previsto dall’articolo 18. In entrambi i casi la Corte di Cassazione dispose la disattivazione del referendum.
Il quesito che dobbiamo porci oggi è dunque questo: il nuovo intervento legislativo ora al nostro esame reca, oppure no, una modifica sufficientemente incisiva rispetto alla disciplina previgente, nella direzione voluta dai promotori del referendum? Questo è il quesito sul quale sarebbe stata chiamata a giudicare la Corte di Cassazione se l’intervento legislativo fosse stato contestuale all’abrogazione della norma sottoposta a referendum.
Anche oggi, come allora, Governo e Parlamento sostituiscono alla vecchia disciplina una nuova che muta incisivamente nella direzione voluta dai promotori del referendum, con mutamenti molto incisivi rispetto ai contenuti della norma abrogata:
– prima i buoni-lavoro erano utilizzabili da parte di qualsiasi soggetto e, di fatto, i cinque sesti dei buoni venivano usati da imprese di dimensioni medio-grandi; ora la soluzione prospettata esclude tutte le imprese con più di cinque dipendenti;
– prima era di fatto possibile l’abuso dei buoni per pagare gli straordinari ai dipendenti regolari o allungarne l’orario effettivo; ora si prospetta un meccanismo che lo rende di fatto impossibile;
– il tetto massimo di utilizzabilità viene abbassato da 7000 a 5000 euro l’anno, e a 2500 per singolo lavoratore ingaggiato;
– lo standard retributivo minimo orario a carico delle imprese viene aumentato;
– al fine di garantirne la piena tracciabilità, ogni pagamento ora deve avvenire per via telematica, a costo di dotare il lavoratore ingaggiato di una carta pre-pagata.
Così stando le cose, a me sembra che nell’operazione che Governo e Parlamento stanno compiendo non possa neppure lontanamente ravvisarsi la “frode costituzionale” denunciata dagli oppositori.
È ben vero che questa volta, a differenza da quelle del 1982 e del 1990, l’operazione viene compiuta dal Governo e dal Parlamento in due tempi: a marzo l’abrogazione della vecchia disciplina, a giugno il varo della nuova (e pour cause: il dibattito in seno alla maggioranza sul da farsi, negli ultimi mesi, è stato intensissimo: per molti aspetti non si è risolto neppure ora, tanto che una parte della maggioranza oppone alla scelta compiuta il rifiuto di cui si è detto all’inizio). Ma, per un verso, questo modo di procedere non è affatto vietato dalla Costituzione; e tanto, piaccia o non piaccia, dovrebbe bastare. Per altro verso, la modifica apportata, che va esattamente nella direzione voluta dai promotori del referendum, è molto più incisiva e drastica rispetto a quelle che vennero apportate alle norme sottoposte a referendum nel 1982 e nel 1990, e che pure vennero ritenute sufficienti dalla Corte di Cassazione per disattivare la consultazione referendaria. In confronto a quanto accadde in quelle due occasioni, oggi la modifica legislativa si avvicina molto di più all’esito perseguito dai promotori del referendum.
La mia critica a questo nuovo intervento legislativo è semmai un’altra: proprio perché esso interviene in modo così drasticamente incisivo, sottraendo alla totalità delle imprese di dimensioni più che minime la possibilità di far fronte alle esigenze di lavoro occasionale o accessorio con il vecchio strumento, sarebbe stato doveroso offrire loro un altro strumento appropriato per farvi fronte. Anche uno strumento che comportasse un costo doppio rispetto al precedente, come il contratto di lavoro intermittente; ma pur sempre una possibilità ragionevole di far fronte a un’esigenza reale, che è irragionevole ignorare. (Applausi dal Gruppo del Partito Democratico e del senatore Berger)
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