PERCHE’ NON HO ANCORA SCELTO TRA I CANDIDATI ALLA SEGRETERIA NAZIONALE DEL PD

E PERCHE’ HO INVECE DATO IL MIO APPOGGIO A MAURIZIO MARTINA PER LA SEGRETERIA REGIONALE DEL PD LOMBARDO: CONOSCO INFATTI DA TEMPO LA SUA SCELTA MOLTO CHIARA NEL SENSO DEL SISTEMA ISTITUZIONALE BIPOLARE, SULLA POLITICA DEL LAVORO, SULL’EFFICIENZA DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE, SULLA NECESSITA’ DI APRIRE IL PARTITO A TUTTE LE FORZE DI CENTROSINISTRA, A COMINCIARE DAI SOCIALISTI E DAI RADICALI
Intervista alla rivista online Affaritaliani, 21 luglio 2009

Professore, lei ha dato il suo appoggio alla candidatura di Maurizio Martina per la segreteria del Pd lombardo; dunque dà anche il suo appoggio a Pierluigi Bersani?
“No, non ho scelto di schierarmi con Bersani. Allo stato attuale vedo dei pregi rilevanti e dei difetti altrettanto rilevanti in ciascuna delle due candidature nazionali più forti. Sia a Bersani sia a Franceschini pongo alcune domande precise e attendo delle risposte altrettanto precise prima dare il mio appoggio all’uno o all’altro”.

Partiamo da Martina, allora. Perché ha scelto di schierarsi con lui?
“Perché lui le risposte precise alle mie domande le ha già date; e, conoscendolo, so che ci crede davvero. Del resto, non vedo all’orizzonte altri candidati altrettanto autorevoli e affidabili, in Lombardia” [l’intervista è stata rilasciata il 21 luglio].

Quali sono i temi che considera cruciali?
“Il primo è quello del bipolarismo e di un sistema istituzionale in cui siano gli elettori a scegliere il governo da cui vogliono essere governati. Su questo punto vedo la posizione di Franceschini più vicina alla mia visione rispetto a quella di Bersani, il quale viceversa apre alla possibilità di un ritorno al sistema elettorale proporzionale alla tedesca, quindi a un sistema per cui i governi si decidono dopo le elezioni in base alle trattative tra i partiti”.

Ma in Bersani vede anche qualche aspetto positivo?
“Gli riconosco un carisma e una capacità di leadership di prim’ordine. Quella che non mi convince, ripeto, è la sua visione dell’assetto istituzionale da perseguire per l’Italia”.

Che cosa non la convince, invece, di Franceschini?
“A Franceschini imputo una contraddizione: enuncia l’idea del partito a vocazione maggioritaria, ma poi, quando gli si chiede dei socialisti e dei radicali, dice che con loro si dovranno fare delle alleanze a tempo debito. Il Pd dovrebbe adoperarsi fin d’ora esplicitamente perché entrino nel Pd i socialisti come Lanfranco Turci, i radicali come Emma Bonino e Marco Pannella, tutti i riformisti dell’area di centrosinistra. Tra questi metto – perché no? – anche Bruno Tabacci. Con la differenza che Bonino, Pannella e Turci, se davvero li volessimo nel Pd, probabilmente aderirebbero; mentre Tabacci sarà più difficile strapparlo all’Udc. Sull’apertura a queste forze so che, in Lombardia, Maurizio Martina si impegnerà a fondo. Ma c’è dell’altro.

Dica.
Nel discorso programmatico di Franceschini vedo troppa vaghezza nelle posizioni assunte in materia di recupero di efficienza delle amministrazioni pubbliche, di politica del lavoro, di politica economica e di politica estera. Per esempio sul grande tema dell’apertura ai Paesi musulmani laici, Marocco e Turchia: tema importantissimo anche per i suoi risvolti in materia di politica dell’immigrazione, che non può essere lasciato in secondo piano. D’altra parte questi stessi eccessi di genericità o lacune li ritrovo anche nel discorso programmatico di Bersani. Martina invece ha preso, e non da oggi, delle posizioni molto precise e positive su ciascuno di questi punti”.

Per esempio?
“In materia di lavoro, Martina è stato tra i primi dirigenti nazionali del PD, già nell’inverno passato, a far suo esplicitamente il mio progetto di riforma del diritto del lavoro e in particolare il disegno di legge per la transizione a un regime di flexsecurity. E so che condivide le mie proposte su trasparenza, valutazione e benchmarking comparativo nelle amministrazioni pubbliche, le mie proposte in materia di lavoro autonomo, in materia di riforma del sistema di relazioni industriali”.

Quanto al Nord, che cosa l’ha convinta della proposta di Martina?
“Parlo di lui perché a tutt’oggi è l’unico candidato alla segreteria lombarda del Pd. Se i candidati come lui saranno più d’uno, meglio ancora. Ripeto: Martina ha capito per tempo la necessità di affrontare in modo nuovo alcuni temi cruciali per lo sviluppo del Nord: l’efficienza dell’amministrazione pubblica; il patto di cooperazione e trasparenza reciproca tra lo Stato e lavoratori autonomi e piccoli imprenditori; la necessità di coniugare la massima possibile flessibilità delle strutture produttive con la massima possibile sicurezza dei lavoratori, la necessità, quindi, di non costruire questa sicurezza sull’ingessatura dei posti di lavoro, ma sulla qualità e quantità dei servizi nel mercato del lavoro. Ecco, su questi temi Martina ha preso posizione già nel corso dell’ultimo anno in modo molto netto; e spero che ora li ponga al centro della sua piattaforma programmatica”.

Non solo Franceschini e Bersani però: c’è anche Marino. Cosa pensa del terzo candidato?
“Marino è un grande chirurgo, la sua competenza medica è molto profonda. Condivido totalmente la sua battaglia sul testamento biologico e sono stato tra i primi a firmare il suo ddl. Ma è un professionista prestato alla politica, come lo sono io. Il politico di professione è un’altra cosa: perde un po’ di profondità in una singola materia, ma deve dominare tutta la gamma dei grandi temi cruciali della vita di un Paese. Magari avrò una sorpresa, e in tal caso certamente ne terrò conto nelle mie scelte, che non sono ancora fatte; ma per ora non mi sembra che Ignazio Marino abbia le caratteristiche personali del grande politico”.

Quindi, professore, non esiste ancora un Obama della sinistra italiana.
“Questo è poco ma sicuro. Mi dispiace doverlo constatare, ma per ora non mi pare di vederlo all’orizzonte. Ma non è indispensabile un Obama per costruire il Partito Democratico in Italia”.

Veniamo ai temi economici. Il governo ha presentato un emendamento al decreto fiscale che equipara gradualmente i criteri per l’accesso alla pensione di vecchiaia tra uomini e donne nel pubblico impiego e che pone anche le basi per legare l’età pensionabile alle aspettative di vita. Che cosa ne pensa?
“Ne penso bene: sono entrambe cose da fare. Ma penso anche che i provvedimenti annunciati siano molto parziali e che si debba fare molto di più”.

Per esempio che cosa?
“Innanzitutto, la riforma dovrebbe riguardare tutte le pensioni e non solo il settore pubblico. Poi dovrebbe introdurre l’elasticità dell’età pensionabile: la possibilità cioè di scelta tra un’età minima e una massima, come c’è in alcuni Paesi del Nord Europa. Credo che si potrebbe scegliere tra i 60 e i 70 anni, con una riduzione della pensione per chi va a riposo prima e un congruo aumento del trattamento per chi vi accede più tardi. Il sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini del ’95 consente di fare questa operazione senza compromettere l’equilibrio del sistema pensionistico. Poi andrebbe anche precisata meglio e resa più vincolante la destinazione di quei due miliardi e mezzo, che si risparmieranno con la parificazione dell’età pensionabile, a favore di finalità specifiche come i servizi che agevolano il lavoro regolare delle donne, o l’assistenza alle famiglie con persone non autosufficienti. Su questo punto stiamo preparando una mozione parlamentare che vincoli il Governo. Infine c’è il problema dell’innalzamento del tasso di occupazione nella fascia tra i 65 e i 75 anni. L’Europa richiede di perseguire questo obiettivo, sul quale noi siamo molto indietro; qui si può fare molto, anche senza norme vincolanti, ma con gli incentivi. A questo proposito sto lavorando a una proposta di legge: incentivi per le imprese per far costare meno il lavoro degli over-65 e premio pensionistico per chi sceglie di rimanere al lavoro fino ai 75 anni”.

Professore, che cosa pensa della riforma della contrattazione, che ha creato una profonda spaccatura tra i sindacati?
“Tra l’accordo così come è stato firmato da Cisl, Uil e Ugl e il vecchio assetto basato sul protocollo Giugni del 1993, le differenze effettive sono modeste. Il vero dissenso non riguarda il contenuto ma gli intendimenti che stanno dietro l’accordo. Parlo del ‘meta-accordo’ che vede Cisl, Uil e Ugl disponibili per un forte spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia e la Cgil, invece, arroccata in difesa del contratto nazionale. Su questo punto io sto senza mezzi termini con Cisl, Uil e Ugl. L’accordo non ha un impatto pratico particolarmente incisivo; è l’intendimento retrostante che è giusto; ma, appunto, il nuovo sistema di contrattazione decentrata è ancora tutto da costruire. Bisogna entrare nell’ordine di idee che d’ora in avanti due modelli diversi di concezione del sindacato dovranno convivere e competere tra loro. E perché questa competizione non porti alla paralisi bisogna che si attivi un meccanismo di verifica della rappresentatività di ciascuno degli attori del sistema di relazioni sindacali , in modo da verificare chi ha la maggioranza ed è quindi legittimato a contrattare con effetti generali, al livello aziendale come a quello di settore. Ma questo implica una riforma della rappresentanza che ancora non è stata fatta. E se il sistema di relazioni industriali non sa darsi da solo le regole allora, per il principio di sussidiarietà, deve essere il legislatore a farlo, sia pure con una legge molto leggera”.

Quanto alla crisi, professore, sembrano intravedersi i primi segnali di ripresa…
“Diciamo che si incomincia a vedere un lumino in fondo al tunnel. Ma la crisi non è finita. Anzi, l’Italia corre il rischio di un violento choc occupazionale in autunno”.

Come giudica gli interventi del governo?
“Sono tutte misure, perdoni il gioco di parole, un po’ troppo misurate. Sembrano rispondere più all’esigenza di poter dire ‘ho fatto questo per questi e quest’altro per questi altri’. Ma le misure di sostegno del reddito, come gli “ammortizzatori in deroga”, sono davvero di entità minuscola ed è talmente macchinoso il sistema per ottenere i pagamenti, che il risultato pratico è davvero troppo esiguo. Stesso discorso per lo scudo fiscale: nell’idea iniziale di Tremonti c’era un bel disegno di accordo internazionale per la lotta ai paradisi fiscali e all’evasione, nel quale entrava anche una sanatoria multilaterale in funzione del varo del nuovo regime; poi, però, quel disegno è completamente caduto, e ne è rimasto soltanto un puro e semplice condono. L’Italia oggi ha bisogno di tutto tranne che di condoni”.

Che cosa dovrebbe prevedere l’agenda anti-crisi del Pd?
“Una incisiva riforma del Welfare, destinata a produrre i propri effetti nell’arco di sei-dieci anni, ma che darebbe immediatamente un’affidabilità maggiore al sistema Italia consentendo maggiori margini per una manovra anti-congiunturale incisiva. Una riforma del mercato del lavoro che avvii il processo di transizione verso un sistema moderno di coniugazione della flessibilità delle strutture produttive con la sicurezza dei lavoratori nel mercato. Una profonda riscrittura del diritto del lavoro per le nuove generazioni, senza toccare le posizioni dei lavoratori già in attività con rapporti di lavoro stabili. Un diritto del lavoro che guardi ai nuovi investimenti, alle nuove imprese, alle nuove assunzioni nelle vecchie imprese… un diritto del lavoro semplice e universale che costituisca anche un viatico per aprire il nostro sistema agli investimenti stranieri”.

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