“W la globalizzazione”, “Sempre più Europeisti”, “Niente paura della tecnologia”, “Per una Repubblica fondata sul lavoro e non sui sussidi”, “Deideologizzare il lavoro”, “L’ipocrisia sui voucher”, sono alcuni dei titoli dei capitoli di una sorta di nuovo manifesto dei metalmeccanici
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Un ampio stralcio della relazione introduttiva del congresso nazionale della Fim-Cisl, svolta l’8 giugno 2017 dal segretario uscente, poi rieletto, Marco Bentivogli – In argomento v. anche l’articolo pubblicato dallo stesso Bentivogli e da me Lavoro: la volatilità della legge e la rivincita della contrattazione , sul Corriere della Sera del 21 aprile, e quello pubblicato con me da Pietro Micheli sullo stesso quotidiano il 4 marzo precedente, Perché non dobbiamo avere paura che la tecnologia ci impedisca di lavorare .
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W la globalizzazione
La globalizzazione ha liberato 2 miliardi di persone dalla povertà, lo ha fatto mutando verso il riequilibrio delle condizioni planetarie. Tra l’altro prendersela con la globalizzazione è come arrabbiarsi quando piove. Quando non si sa a chi dare la colpa, la si dà alla globalizzazione. E la ricetta per uscirne? La politica industriale, gli investimenti pubblici, in un Paese in cui sono spariti quelli privati. Bastaaa! Eppure le responsabilità non sono mai così lontane, ma è utile trovarne lontano da sé e soprattutto proporre soluzioni impegnative… per gli altri. Il sindacalista o il politico che, quando non sa cosa dire, evoca la parola magica della “politica industriale” o dà la colpa “alla globalizzazione, all’Europa e all’euro o alla tecnologia”, oltre a dire balle, insegue i populisti sul loro stesso terreno, rimanendo pure indietro. Si può dire? L’Europa, l’euro, la globalizzazione e la tecnologia hanno fatto meglio al lavoro di tanti soldi, anche pubblici, spesi male.
Sempre più Europeisti
La nostra scelta europeista è esplicita, radicale. Nel 1950 Robert Schuman4 proponeva di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio5 . Era la strada per uscire insieme dalla crisi post-bellica ed impedire il ripetersi di un conflitto. Certo, c’è un crescente senso di inadeguatezza sulla legittimazione politica europea6 , sulla doppia sede in Lussemburgo, su tante cose assurde, tra cui alcuni Trattati costruiti troppo tempo fa. Basti pensare alla concorrenza, all’idea di verificare il peso dei vari trust nelle produzioni settoriali solo a livello continentale, quando in molti casi il trust più concentrato è costituito dalle importazioni asiatiche. Ma l’Europa non ha tutte le responsabilità che le si assegnano. Non è il problema, è la soluzione. Serve più Europa, senza retorica, serve tutta l’Europa possibile. Non può esistere un’Europa concentrata ancora prevalentemente sulla PAC7 . Occorre bilanciare, nella governance europea, il fiscal compact con il well-being compact (benessere sociale), cioè con un sistema di indicatori che segnali attentamente ai politici e a tutta la società l’andamento del benessere collettivo nell’Unione. La governance deve ampliare gli indicatori di riferimento dai parametri finanziari e di bilancio pubblico agli indicatori di benessere equo e sostenibile. Abbiamo specificato che passare dal fiscal compact al well-being compact non significa necessariamente dimenticarsi della sostenibilità della finanza pubblica di breve e di lungo periodo, ma ricostruirla in un quadro più forte, che si faccia carico della crescita della fiducia dei cittadini verso le istituzioni nazionali e dell’Unione. E operare per riconciliare anche in questo modo gli europei con l’istituzione, che rappresenta il loro progetto di pace e benessere.
Anche il sindacato deve essere sempre più europeista e internazionale, perché le sfide da affrontare sono tante, dai diritti umani e sindacali ancora violati in buona parte del mondo, alla crescita delle disuguaglianze sempre più estese. Occorre agire sempre di più a livello globale, come dimostrano i perimetri sempre più ampi delle vertenze che stiamo seguendo: dobbiamo cambiare ambito organizzativo e raggio d’azione: “go beyond borders” (andare oltre i confini). Se le aziende multinazionali sono sempre più One Big Company, noi dobbiamo creare One Big Union, facendo rete tra noi sindacati europei e internazionali, mappando le esperienze e aiutandoci tra noi perché nessun lavoratore di nessun Paese resti indietro. Cooperare significa, anche iniziare a rispondere a tutti quei sindacati di altri paesi che hanno criticato gli accordi in Fca o i Ccnl di FIM e Uilm – spesso più per assonanza politica che per merito e contenuto sindacale – e chiedere minore genericismo al sindacalismo internazionale.
Su questo fronte l’iniziativa di cooperazione avviata con i sindacati del mediterraneo, la missione in Cina, l’impulso per gli accordi quadro e network sindacali mondiali si inscrivono in un’iniziativa sempre più crescente del nostro impegno internazionale.
#NoFearTech
Chi ha paura della tecnologia? Noi no. Forse perché abbiamo a che fare con quei temibili robot che oggi Bill Gates vorrebbe tassare, fin dalla seconda metà degli anni Ottanta. Cosa facciamo? Tassiamo anche i bancomat? Le pompe di benzina, torniamo all’aratro a trazione umana? Dovremmo dire a FCA di smontare i 16 robot della Butterfly che saldano in pochi secondi la carrozzeria di una Jeep Renegade a Melfi perché rimpiangiamo di far respirare le esalazioni della saldatura ai lavoratori? O interrompere la sperimentazione dell’utilizzo di esoscheletri a Pomigliano per ridurre ulteriormente le criticità ergonomiche e il carico fisico? O alla Foxconn in Cina di non puntare sui robot e tenere le sue “splendide” catene di montaggio, il cui lavoro è sorvegliato da uomini armati, con tanto di reti anti-suicido, viste con i nostri occhi a Shenzhen, fuori dalle finestre dei dormitori?
La vera novità è che l’innovazione tecnologica riduce sempre di più il numero di lavori non-sostituibili dalle macchine, ma che ne creerà di nuovi. La vera novità è il grafico del World Economic Forum che indica che nel 2015 l’anno in cui il costo orario di un robot ha uguagliato quello di una persona. Quindi, cosa facciamo? Tassiamo il robot, o il valore aggiunto del suo contributo, per rendere più conveniente l’utilizzo della persona come propone Bill Gates? 9 O non sarebbe invece più utile che i big della new economy pagassero, da qualche parte, le tasse? Il fatturato per dipendente di queste multinazionali è gigantesco rispetto alle multinazionali industriali manifatturiere ed è inversamente proporzionale al loro livello di tassazione effettiva. Sarebbe più utile detassare il lavoro che tassare l’innovazione, anche perché quest’ultima non redistribuirebbe i maggiori profitti, ma metterebbe ancora più in ginocchio l’industria italiana, che ha bisogno come il pane di innovazione di processo e di prodotto. L’industria italiana ha perso 87 miliardi di investimenti privati, che sono andati alla rendita, ai settori protetti o all’estero. L’idea che si sta affermando, di fabbriche come scatole vuote, con molta produzione e pochi lavoratori, è molto forzata. La questione è: ci sono previsioni a cui affidarsi con qualche ragionevole fondamento (che non siano iper-ottimistiche o catastrofiste)?
Nella guerra di cifre il mondo va avanti e anche se fossero veritiere le peggiori previsioni, la narrazione di un futuro nefasto non lo migliorerà e neanche lo rallenterà. Darà solo un altro alibi ad un Paese in perenne ritardo e condannato a restare in panchina. In Italia interi settori, vedi l’elettrodomestico, sono quasi spariti per lo scarso investimento nelle tecnologie. L’esatto contrario del teorema dei catastrofisti. Tutti i reshoring di produzioni, anche grazie agli accordi sindacali, sono stati realizzati con un’iniezione ulteriore di nuove tecnologie, formazione e nuova organizzazione del lavoro. In Italia, peraltro, la tassa sui robot graverebbe in modo inversamente proporzionale alla dimensione di impresa, già troppo piccola. La tassa non rallenterebbe la transizione, la precluderebbe definitivamente ai Paesi che dovessero immaginarla come un percorso verso una maggiore sostenibilità. Il nostro è un Paese che già di per sé si occupa solo del paracadute senza aver ancora imparato a volare. Il catastrofismo fa molti più danni del liberismo. Se l’innovazione si gestisce con i tre step dell’italietta antagonista su tutto ciò che si muove: – regolarla, ipertassarla e, appena morta, sussidiarla –no grazie! È già stata la curvatura declinante dell’Italia in retromarcia. Siamo il Paese che ha il più elevato gap di competenze rispetto alle skills del futuro. Ci occupiamo rapidamente di colmarlo, come abbiamo fatto nei metalmeccanici introducendo nel contratto il diritto soggettivo alla formazione, o prima ancora di aver giocato la sfida ci preoccupiamo di sussidiare gli effetti collaterali? Produciamo un sesto dei brevetti della Germania. Continuo a pensare che tra liberarsi dal lavoro e liberarsi nel lavoro, la seconda sia non solo l’unica strada virtuosa ma anche l’unica sostenibile. Fermare il progresso non è di sinistra, è velleitario, è pensare di fermare l’acqua con le mani, e serve a condannare una maggiore quantità di lavoratori all’esclusione sociale. C’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro che le persone possono e potranno riempire con la loro energia insostituibile. Bisogna giocarsi la partita ripensando integralmente l’idea di impresa e le sue finalità, il lavoro, i suoi orari, la sua sostenibilità intelligente nella vita di ognuno. C’è molto da fare se ci occupiamo di tutte queste cose, piuttosto che lasciare il campo alla paura e ai robot. Nel frattempo leggiamoci la Laudato si’: è molto più avanti del Mit e di Mc Kinsey. Certo, le sfide per la dignità del lavoro non sono finite, e chiarisce da che parte sono e saranno sempre i metalmeccanici: lo sciopero totale della scorsa settimana a Bergamo appena è stato comunicato il licenziamento ad una ragazza in maternità.
Industry 4.0 per ecosistema 4.0
Industry 4.0 può diventare una vera occasione di rilancio della nostra industria, ma – perché questo avvenga davvero, fino in fondo– non sono sufficienti interventi spot, ma serve un vero e proprio ecosistema 4.08 , in cui tutte le parti agiscano con responsabilità ed integrazione. Il vero punto di snodo è rappresentato dal sistema delle Piccole Medie Industrie (PMI) italiane, ancora lontane, salvo qualche apprezzabile eccezione, dal sintonizzarsi sulle frequenze della fabbrica intelligente. Questo per la FIM è un reale terreno di nuovo protagonismo, perché può consentire di aprire spazi di stimolo alla crescita e alle capacità innovative delle PMI attraverso un forte impulso alla partecipazione, declinato anche nella nuova contrattazione aziendale e territoriale. Inoltre, occorre un sistema formativo italiano efficiente, un sistema duale che funzioni e che renda finalmente operativa ed efficace l’alternanza scuola-lavoro. La partita di Industry 4.0 si gioca anche sul terreno della politica: ciò richiede una classe politica illuminata e lungimirante, in grado di varare al contempo politiche sociali, formative e industriali tra loro coordinate. Quel “fare sistema” su cui in Italia siamo letteralmente incapaci. Un altro aspetto importante da considerare è il reshoring, cioè la concreta opportunità di riportare produzioni in Italia, come hanno già dimostrato gli accordi con FCA a Pomigliano e con Whirlpool, con la possibilità di recupero di quote importanti di produzione e occupazione. Alcuni studi (da ultimo quello di Nomisma) ritengono che i Paesi che sapranno essere protagonisti in questa partita vedranno crescere il loro settore manifatturiero del 6%, e la stessa Ue indica tra gli obbiettivi strategici quello di far risalire il settore al 20% del Pil.
Il piano Calenda
Recentemente è stato approvato il Piano Calenda che si basa su 5 direttrici: operare in una logica di neutralità tecnologica; intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali; operare sui fattori abilitanti, tra cui in particolare la banda larga e le aree grigie; orientare su strumenti esistenti per favorire il salto tecnologico e la produttività; coordinare i principali stakeholder. Il piano Industria 4.0 prevede incentivi fiscali per 13 miliardi, incentivi definiti orizzontali. La parte riservata agli incentivi fiscali è certamente interessante. Però sarebbe necessario, per prima cosa, riorganizzare il sistema di incentivi già disponibili e molto dispersi ed effettuare una selezione per assicurarsi che quelle risorse vadano realmente ad innovare la manifattura nella direzione della fabbrica 4.0. Stesso discorso vale per il Fondo di garanzia: dei 200 milioni in più (il fondo passa da 700 a 900 milioni) bisogna definire la quota realmente disponibile a cambiare l’interfaccia della catena di produzione.
È centrale per il rilancio della manifattura italiana. Sono le piccole e medie imprese, infatti, a costituire la nervatura del nostro sistema produttivo. Credo quindi che vada messa in campo una vasta azione di aggregazione delle Pmi per evitare che la rivoluzione 4.0 diventi appannaggio solo delle grandi imprese. Attenzione particolare, inoltre, va riservata alla semplificazione: bonus, incentivi e fondi di garanzia vanno resi più accessibili dal punto di vista burocratico-amministrativo. Il piano Calenda rappresenta un primo passo, in quanto è il primo provvedimento organico varato da un governo italiano. Ad ogni modo, non credo che il discorso sull’industria e sull’innovazione possa esaurirsi con la tecnologia. Che resta un aspetto importante, certo, ma non dobbiamo mai dimenticare che uno stabilimento funziona se ha attorno un ecosistema 4.0: mobilità, territorio, rigenerazione urbana, interconnessioni non solo fra macchine e persone, ma anche con il territorio, con la ricerca, le amministrazioni pubbliche, con la scuola e con l’approvvigionamento energetico. Senza tralasciare naturalmente l’investimento più importante, quello sulle persone, a partire dalla loro formazione. Nel Piano Calenda è prevista la costituzione di Competence Center e Digital Innovation Hub.
Come sta già avvenendo da anni in altri Paesi, ad esempio con i Catapults in Inghilterra, il Cornell Tech di New York o con i Fraunhofer Institute in Germania, la FIM sta lavorando per dare il proprio contributo, assieme ad Adapt, proprio sui Competence Center, per rendere sempre più concrete ed efficaci le reti di tutti quei soggetti che interagiscono nell’ecosistema 4.0, dalle imprese ai centri di ricerca e a quelli di formazione, dai lavoratori – dei quali va valorizzato il contributo cognitivo – ai processi di integrazione e di implementazione delle nuove tecnologie, alla produzione e ai consumatori, in un’ottica sempre più sostenibile. L’intento è quello di scrivere un Libro Bianco che provi a tracciare la strada da percorrere sul tema di Industria 4.0 e delle competenze, proprio a partire dalle esigenze di imprese e lavoratori impegnati in questi processi di transizione. Contrattare e partecipare per un ecosistema 4.0 Se il lavoro futuro porterà a un lavoratore professionalizzato, con un ruolo e un ingaggio cognitivo crescente, è inevitabile che questi diventerà sempre più stakeholder centrale dell’impresa. In questo quadro la linea evolutiva delle relazioni industriali deve prevedere un salto di qualità in senso partecipativo. Tutto ciò manderà in soffitta le relazioni industriali basate sull’antagonismo o prive di autentica autonomia delle parti, come non avrà nessuno spazio l’ancora resistente idea “padronale” delle relazioni industriali. Non è affatto finito il ruolo della rappresentanza, ma va alzato il livello dell’incontro tra impresa e lavoratori. La smart factory non funziona senza le persone, e neanche senza la smart union. Un sindacato competente, che studia, ascolta, capace di guardare le spalle alle persone promuovendole nel lavoro. Non ha senso la proliferazione dei soggetti sindacali. Modelli evoluti di partecipazione si realizzano nei Paesi in cui si sono ridotti il numero dei sindacati (mai più di due), quello dei contratti collettivi e quello delle categorie sindacali. L’impresa è destinata a cambiare e più labili saranno i suoi confini merceologici. Nella transizione e, successivamente, nella creazione e nello sviluppo di un ecosistema 4.0, sarà ancora decisivo chi esercita con la sua capacità propositiva il potere del lavoro. 12 La Fim pensa che un’idea diversa di lavoro e imprese e le nuove tecnologie non allontanino le nostre storiche sfide sindacali, tutt’altro, le rendono finalmente e in modo compiuto alla nostra portata.
Per una repubblica fondata sul lavoro e non sui sussidi
Liberarsi nel lavoro e non dal lavoro Pochi giorni fa il Papa ha voluto iniziare la sua visita a Genova da una delle nostre fabbriche, l’Ilva di Cornigliano. Proprio in quella sede, proprio in quella città, il Papa ha espresso parole forti e chiare sul tema del lavoro. Ha detto che “quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, e tutto il patto sociale” su cui si fonda la nostra Repubblica. Non solo, ha detto che bisogna “guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”. Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti”.
Come dice il Papa, pensare ad un futuro in cui solo il 10% delle persone lavorerà e il restante vivrà di un sussidio di cittadinanza, non sta in piedi né sotto il versante della sostenibilità economica, né dal punto di vista sociale ed etico. C’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro che le persone riempiranno sempre con la loro energia insostituibile. Uno spazio di realizzazione, di dignità. Piuttosto che disegnare tragici scenari del futuro non è meglio lavorare su cosa serve già oggi e nel presente ai lavoratori? L’idea di una Repubblica, di una democrazia fondata sui sussidi non ci piace. L’accostamento a San Francesco e ai francescani di quella proposta grida vendetta, come ci ricorda Luigino Bruni. Già nel ‘400 i francescani non diedero vita a degli enti assistenziali (potevano farlo e tanti lo facevano) ma a dei contratti, a dei prestiti, che impegnavano i beneficiari alla responsabilità e quindi alla restituzione del prestito. Erano certamente istituzioni umanitarie perché avevano come scopo la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, ma quel carisma suggerì loro strumenti più sofisticati dell’elemosina, strumenti basati sul registro della reciprocità. Sta proprio nella reciprocità la questione decisiva, che coinvolge le povertà e coinvolge il lavoro. Quando una persona fuoriesce dalla rete di rapporti di reciprocità di cui è composta la vita civile e economica e si ritrova senza lavoro e quindi senza reddito, la malattia che si crea nel corpo sociale è la rottura di relazioni di reciprocità.
Il reddito da lavoro (stipendi, salari) è il risultato di una relazione tra persone o istituzioni legate da vincoli reciproci Quando, invece, i redditi non nascono da rapporti mutuamente vantaggiosi, abbiamo a che fare con relazioni sociali malate o quantomeno parziali, che si chiamano rendite o assistenza, dove i flussi di reddito sono sganciati da relazioni reciproche. Ecco perché la tradizione francescana affermava che ‘quando c’è un povero in città è tutta la città che è malata’… Quando vedo una persona in condizione di povertà, se voglio veramente curarla, debbo sanare le sue relazioni, perché la povertà è una serie di rapporti malati. Il lavoro per tutti è la terra promessa della Costituzione, molto più esigente del reddito per tutti. Una promessa-profezia che oggi assume un significato ancora più importante di allora, perché c’è una ideologia globale crescente che nega la possibilità di lavoro per tutti, nel tempo della robotica e dell’informatica. La vera minaccia che è di fronte a noi è rinunciare a fondare le democrazie sul lavoro, accontentandoci di società nelle quali lavorano il 50 o 60% delle persone in età attiva e a tutti gli altri verrà consentito di sopravvivere con un reddito di cittadinanza, dando vita ad una vera e propria società dello scarto, magari scambiata come solidarietà. Questa terra del lavoro parziale non può, non deve essere la terra promessa. Chi oggi, allora, continua a pensare di combattere la povertà con qualche centinaia di euro erogati ai singoli individui, dimentica la natura sociale e politica della povertà, e ricade in visioni individualistiche e non-relazionali. Per combattere le antiche e nuove povertà dobbiamo riattivare la comunità, le associazioni della società civile, la cooperazione sociale, e tutti quei mondi vitali nei quali le persone vivono e fioriscono.
Nuovo lavoro, nuovo sindacato
Sta crescendo un lavoro che non è autonomo né propriamente dipendente, il lavoro sarà sempre più un progetto, su questo dobbiamo riflettere senza tentazioni cataloganti quanto asfaltanti. Oggi fare il sindacalista significa ascoltare, studiare, scegliere le priorità accompagnate dalla capacità di fare proposte. Troppi sindacalisti vivono ancora con la mente nell’Italia in cui “hanno tutti ragione”, altri non si sono neanche sforzati di capire dove va il lavoro e già pensano a “nuove categorie giuridiche” in cui incasellarlo. Senza scelte, il sindacato si condanna all’irrilevanza. Scegliere significa anche distinguere tra chi lavora e lavora bene e chi non lavora o fa il “furbetto”, perché “non c’è nulla di più ingiusto di fare parti eguali tra diseguali”, diceva Don Milani. Significa scegliere tra settori industriali con reali prospettive su cui puntare, altrimenti la scelta la farà il mercato, a volte meglio di chi ripete che “tutto si tiene”.
Questo è il sindacato di cui non si può fare a meno, un alleato che non difende l’esistente ma spinge il Paese ad una svolta urgente in termini di produttività, competitività, ma anche di nuova sostenibilità sociale. L’importante è non cullarsi nei rimpianti, non alimentare la cultura da bar della lagna, che nei social è diventata partito, e dei luoghi comuni che in Italia hanno già troppi campioni, e accettare la sfida del cambiamento. Anche quando farlo è faticoso. Ma è una fatica positiva che serve a ridare speranza a tutti quelli che hanno voglia di un mondo migliore e che cercano solo una strada per costruirlo. Insieme. Non importa se qualcuno considererà queste cose poco ortodosse o troppo liberali. Non vi sforzate nell’incasellarci. La nostra azione ed elaborazione è in linea con la storia migliore del movimento operaio italiano, che ha sempre avuto fiducia nel progresso, lontano dalle derive salottiere del revival naftalinico recente.
È cambiato tutto, e siamo solo agli inizi, ed è tempo perso ostinarsi a leggere il lavoro con le lenti del Novecento. Il 26 novembre 2016 per i metalmeccanici resterà una data importante. È il giorno che segna il traguardo di una trattativa durissima, lunga 13 mesi e scandita da 20 ore di sciopero oltre che da una serie di manifestazioni in tutta Italia. Una trattativa che partiva in salita, con Federmeccanica marmorizzata per un anno sulla stessa rigida posizione, due piattaforme non solo distinte (quella di FIM e UILM da una parte e quella della FIOM dall’altra), ma culturalmente distanti. Il contratto più difficile della nostra storia Alla fine però siamo riusciti a portare a casa un risultato “storico”. Lo so, termine abusato e delegittimato, ma appropriato. Anche perché siamo partiti da un contesto del tutto ostile: la crisi ancora diffusa, la deflazione, un periodo sindacale di scontri durissimi. Generalmente le ricomposizioni unitarie non consentono grandi innovazioni, spesso sacrificate sull’altare del riavvicinamento. Il doppio colpo è stato proprio ricomporre la frattura e nello stesso tempo fare un contratto che segnerà, dal giorno della sua firma, “un prima e un dopo”. Insomma, non è stato facile, tutt’altro. È stato faticoso, a tratti snervante. Ma ce l’abbiamo fatta grazie alla forza dei fimmini che ci hanno sostenuto in tutti i mesi della trattativa, con una partecipazione e una fiducia straordinarie, e grazie all’insegnamento di grandi predecessori, penso alla generazione attorno a importanti figure come Carniti, Lama e Benvenuto e a tutta quella generazione di sindacalisti che ha fatto la Storia) che – pur in momenti difficilissimi e con idee spesso profondamente diverse – non hanno mai perso di vista l’obiettivo comune ma soprattutto il rispetto personale.
Da questo, Maurizio, Rocco ed io, (ribattezzati da Dario Di Vico il “Trio Metal”) siamo partiti facendone tesoro. Il rispetto, come la serietà e la coerenza, paga sempre. Quel rispetto però oggi lo meritano TUTTI, le donne e gli uomini cella FIM, i fimmini in TUTTE le fabbriche e in TUTTI i posti di lavoro, perché in questi anni, troppo spesso non sono stati rispettati, e ciò nonostante, non hanno mai indietreggiato di un millimetro… Il risultato è un accordo che avvicina la contrattazione alle persone ed ai luoghi di lavoro. Superando la trentennale ambiguità sulla sovrapposizione dei due livelli contrattuali, che non ha fatto altro che indebolirli entrambi. Contratto che rafforza la contrattazione di secondo livello e lega strettamente produttività e aumenti nella forma di premi di risultato del tutto variabili e incentivanti. Che realizza passi avanti sul terreno della partecipazione, grazie all’introduzione dei comitati consultivi nelle grandi aziende, un passo che sancisce per la prima volta il coinvolgimento, ancorché a livello solo consultivo, nelle scelte strategiche.
Un contratto che conferma e rafforza le scelte e le strategie in cui la FIM crede da tempo, dall’assistenza sanitaria integrativa di MètaSalute al fondo di Previdenza complementare Cometa. Rispetto all’importanza della previdenza complementare, soprattutto per i giovani, durante il congresso presenteremo una ricerca fatta proprio dal Network Giovani FIM sulle future pensioni dei ragazzi e delle ragazze della FIM che oggi hanno poco più di vent’anni. Invece di parlare e abusare dell’evocazione della “centralità della persona”, abbiamo tentato di realizzarla davvero: va sottolineato che il nuovo contratto, con l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione – senz’altro uno dei suoi capitoli più innovativi – fa un balzo deciso in avanti, si muove cioè verso il superamento definitivo della logica fordista, che ha contraddistinto la fabbrica nel Novecento, e dei rapporti gerarchici che ne erano il corollario. Si va insomma in direzione della smart factory, che promette in breve tempo di riconfigurare i rapporti tra lavoratori e imprese fuori dallo schema del conflitto in un’ottica nuova di partecipazione e responsabilità. Abbiamo salvaguardato il contratto nazionale, la cui funzione sarà d’ora in poi quella di fornire un quadro regolatorio omogeneo e di garantire il potere d’acquisto delle retribuzioni, per specializzare e diffondere la contrattazione decentrata, vale a dire ridiventare protagonisti nel luogo dove il lavoro si esplica e la ricchezza si realizza e si deve distribuire. Per la FIM e per la CISL si tratta di dare continuità a quanto elaborato già dal convegno di Ladispoli del 1953, dove abbiamo considerato la contrattazione di secondo livello il faro della nostra azione sindacale, poiché è solo nelle aziende che si sperimenta, è soprattutto nelle aziende che si innovano i processi produttivi, si creano le condizioni per la crescita e si costruiscono le tutele delle persone nel lavoro.
Devo dire che il sostegno ricevuto attorno a questo rinnovo è stato sbalorditivo. Da Treu a Dell’Aringa, a Tiraboschi, a Becchetti, a Monsignor Longoni, Romano Prodi, Pierre Carniti… Ci siamo affrettati a spiegare che non volevamo essere da modello per nessuna categoria e ci bastava aver fatto una cosa importante per la nostra gente. Nonostante questo abbiamo registrato qualche isolata nota stonata di chi aveva investito tutto sull’impaludamento dei metalmeccanici… Il momento della dichiarazione che ho espresso quella mattina, a nome della FIM, è stato anche emotivamente impegnativo. Voglio raccontarvi che, nelle ore successive, ho ricevuto alcune telefonate di storici militanti fimmini che, tra le lacrime della gioia, si complimentavano e ci facevano sentire parte di una grande Storia che continuava. La sensibilità di chi lontano dalla sede negoziale “sente” la fatica che abbiam fatto come quella che fecero loro un tempo, è quella che mette insieme “la razza sindacale” di ogni epoca. Siamo stati centrali nelle soluzioni e davanti nelle mobilitazioni, sentire la spinta forte e fiera della nostra gente di oggi e di ieri è impagabile. Sono momenti che non dimenticherò mai.
Bilancio Contrattuale
I Contratti rinnovati negli ultimi due anni sono quelli di FCA- CNHI, CONFIMI IMPRESA MECCANICA, FEDERMECCANICA-ASSISTAL, COOPERATIVE e di questi giorni quello degli ORAFI-ARGENTIERIGIOIELLIERI. Sono contratti positivi e con contenuti fortemente innovativi su diversi temi, lungo le linee sviluppate dai rinnovi precedenti: salvaguardia del potere d’acquisto, salario e sistemi premianti, diritto alla formazione, previdenza complementare, sanità integrativa, riforma del sistema di professionalità, welfare, normative, conciliazione vita-lavoro, contrattazione territoriale. Di otto ne restano solo due. Sono i lavoratori della piccola e media industria Unionmeccanica-Confapi e del comparto dell’Artigianato, che stanno aspettando da tempo i rispettivi contratti, e su questi l’impegno della FIM sarà prioritario.
I metalmeccanici hanno da sempre lavorato per ridurre il numero di contratti di loro competenza. Ridurre i Contratti Nazionali e dare loro un ruolo di garanzia è l’unico modo di conservare e rilanciare questo livello che norma il salario nazionale per circa l’85% dei lavoratori. Il salario minimo legale ha meno flessibilità fungibilità e può essere utile solo nel 15% dei lavoratori non coperti da contrattazione collettiva, non oltre. Serve una legge sulla rappresentanza datoriale per ridurre il numero dei contratti che è arrivato a quota 812. Ma intanto iniziamo dai 70/80 di competenza di Confindustria. Contrattare verso la partecipazione I secchi si spostano da dove sono10.
Partiamo da un Paese che ha vissuto la fuga dall’impresa verso altri impieghi. Gli 87 miliardi di euro di investimenti privati perduti dalla manifattura non sono dovuti solo alla crisi, ma anche a un gap di competenze e un mismatch di professionalità enorme. La contrattazione può e deve recuperare questi due ritardi che riguardano la produttività e le competenze, per gestire la transizione verso la nuova manifattura. Chiediamo la svolta a Fca perché si punti sulla partecipazione strategica, lo chiediamo a Fincantieri, a Leonardo dove si è andati indietro rispetto al Protocollo Finmeccanica e alle linee evolutive che conteneva, la chiederemo alle multinazionali dell’elettrodomestico, Whirlpool, Electrolux, ai grandi gruppi dell’High tech e dei servizi avanzati. Cercherò di rispondere a due domande di fondo, cosa e dove contrattare. Dove contrattare La nuova produzione sarà caratterizzata da un sistema molto rapido e personalizzato in cui la produzione è sempre più “sartoriale”. La contrattazione potrà avere delle cornici nazionali di garanzia (questo è il tentativo del contratto nazionale dei metalmeccanici firmato il 26 novembre 2016), ma la sua partita vera la giocherà a livello decentrato, in prossimità con l’azienda e il territorio.
Tentativi di centralizzazione, tuttora in corso, hanno il solo effetto di diminuire l’incidenza e la forza della contrattazione. Una rete a maglie troppo larghe e standard, nata nella Seconda Rivoluzione Industriale, non è riesumabile con proroghe e revival utili solo al “ceto delle relazioni industriali” ma non alle imprese né ai lavoratori. Insomma, la CISL lo aveva capito nel ’53 che bisognava articolare la contrattazione, già con una produzione in serie, perché i luoghi e le persone ne cambiavano i connotati in modo tale da renderne necessario un secondo livello specialistico. La centralizzazione della contrattazione ha in realtà determinato una minore contrattazione al centro (dove è aumentato solo il numero dei CCNL siglati, ma ne è diminuita la forza) e in periferia. Non solo, il “dove contrattare” deve rispondere a uno dei problemi sistemici della nostra impresa, la sua taglia dimensionale. La produttività delle aziende sotto i 20 dipendenti è il problema numero uno, per non parlare di quelle sotto i 10. Si veda il grafico del Clup elaborato da Prometeia.
Quando Confindustria comprenderà che la contrattazione territoriale non può ridursi a essere un contratto aziendale dilatato nel territorio né un terzo livello contrattuale, ci occuperemo tutti di una vera emergenza. La contrattazione territoriale sui miglioramenti di produttività per queste realtà è una delle chiavi di volta per gestire la transizione e per rivitalizzare veramente, e non sui rituali, gli attori delle relazioni industriali a livello territoriale. Anche perché gli integrativi si contrattano in azienda e purtroppo tutte le crisi a Roma. La contrattazione territoriale può aiutare ad attenuare i dualismi, aiutare a fare sistema alle piccolissime imprese e perché no ad affrontare i problemi di competitività e di attrazione di investimenti nel sud del nostro paese. Tema quest’ultimo in cui si è scritto e detto troppo, ognuno deve iniziare a dire cosa può fare insieme agli altri, insomma costruire risposte e soluzioni e non solo piattaforme. Cosa contrattare Ne abbiamo parlato tante volte, è fondamentale occuparsi di formazione, così come ci siamo occupati di apprendistato, diritto soggettivo alla formazione e inquadramento professionale. Il fatto che ci sia un contratto collettivo nazionale che ha ancora tra i profili quello della “dattilografia/stenodattilografia” fa capire quanto ci si sia occupati di professionalità in questi anni. Non solo, è fondamentale che i contrattualisti si occupino di organizzazione del lavoro e innovazione con grandi competenze. Con capacità di studio e ascolto. La ricerca “Le persone, la fabbrica sul WCM” ha avuto questo merito. Evidenzia nuovi stress dovuti a un tempo di lavoro “meno poroso”, ma anche aspetti positivi legati in sostanza alla migliore qualità e organizzazione, alla maggiore sicurezza e a un più elevato “ingaggio cognitivo”. Questo rende necessaria una capacità dei sindacalisti di occuparsi del “life-long-learning”. Per questo abbiamo rafforzato la FIM sulle competenze e su una rete organizzativa capace di rilevare i fabbisogni formativi, e di vivere il proprio ruolo– dai comitati di pilotaggio alle sedi paritetiche territoriali e aziendali – per dare più rigore e usabilità alla formazione negoziata.
La collocazione spazio-temporale della prestazione lavorativa è sempre più articolata, sia in riferimento al posto di lavoro che alle 8 ore giornaliere. Rispetto alla storica gloriosa battaglia delle Unions inglesi: 8 ore per lavorare, 8 per riposare e 8 per me, è molto probabile che questa modulazione dell’orario si mescolerà. Lo smart working è una grande opportunità, se contrattualizzato con intelligenza: limitarsi a difendere le 8 ore giornaliere, 40 settimanali e 1760 annue non è vincente, anche perché con il nuovo lavoro si aprono spazi per menù di orari personalizzabili, spazi di riduzione di orario e conciliazione vita-lavoro finora mai visti.
Deideologizzare il lavoro
L’ideologia è una cosa importante, se è un sistema concettuale e interpretativo che fa riferimento a idee e valori. Quando perde ogni oggettività e collegamento con la realtà e le persone, si trasforma in un costoso caleidoscopio che offusca qualsiasi lucidità. Nel film “La classe operaia va in Paradiso” l’operaio Ludovico Massa detto Lulù, stakanovista e milanista, si fa male ed è convinto dal gruppettaro barbuto che non deve accettare le bieche logiche di mediazione sindacale, deve chiedere la rivoluzione. Il radicalismo, dopo diverse peripezie, porta al licenziamento Lulù, che corre dallo studente – rivoluzionario di professione – in una scuola occupata, per sentirsi rispondere che il licenziamento non è un suo problema. Grazie al lavoro del sindacalista, Lulù rientra nuovamente al lavoro in fabbrica. Il film di Elio Petri è del 1971, troppa sinistra italiana invece di innamorarsi di Lulù, del suo compagno di lavoro più anziano e del suo sindacalista, che in fondo gli resta accanto fino alla fine, si è innamorata del gruppettaro barbuto. Nessuna passione per il lavoro e le condizioni reali delle persone.
Appunto, amare più le idee delle persone. Eppure lo stesso Lenin riconobbe un secolo fa che all’ideologia comunista erano mancati proprio “dieci San Francesco”. Più che di lavoro, nel nostro Paese si parla di ideologia del lavoro. Tutte le volte che abbiamo sentito pronunciare, con tono scandalizzato, espressioni del tipo “macelleria sociale” e “compromesso al ribasso” etc. abbiamo assistito ad un’ipocrita, quanto de-responsabilizzante, kermesse ideologica. E’ mai possibile che in questo Paese ogni volta che non si è d’accordo su qualcosa si scomoda la retorica dell’ “l’attacco alla democrazia”? Tutto ciò ha contribuito a polarizzare in maniera demagogica le posizioni sulle riforme che negli ultimi anni hanno riguardato il lavoro. Era più bella la carica utopica degli anni Settanta, al grido “siate realisti, chiedete l’impossibile”, l’ideologia “benaltrista” non ha nulla di profetico. Pensiamo, ad esempio, al nostro sistema-Paese, di fatto sfavorevole alle imprese e al lavoro, per l’eccesso di burocrazia, per un costo dell’energia del 30% superiore alla media europea, per un sistema creditizio che preferisce la rendita rispetto all’impresa… Tutti temi che non appassionano né i media né il mondo politico, che preferisce mobilitare gli elettori attorno ai “simboli” invece che alla risoluzione dei problemi. Per questo siamo convinti che nel nostro Paese la de-ideologizzazione è uno dei passi più urgenti da compiere se vogliamo che di lavoro e di cultura del lavoro si torni a ragionare in modo costruttivo, concentrando le energie sulla ricerca di soluzioni anziché sul puro esercizio dello scontro. Con la retorica e le bandierine non ripartono né l’industria né l’occupazione.
L’articolo 18, gli esodati, i voucher contengono anche questioni importanti, ma anche clamorosi abusi mischiati con questioni drammatiche. Un esempio per tutti: nelle otto salvaguardie degli esodati ci sono persone disperate lasciate a terra da una riforma scritta male, ma che dire di quelli che sono stati liquidati volontariamente dalle aziende con buonuscite milionarie? Eppure bandierine evocative vengono fatte sventolare per non capire il cambiamento e nascondersi dietro quella che è esclusivamente pigrizia ideologica.
Facciamo nostro il titolo della prossima settimana sociale dei cattolici:” Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale Gli speakers di un mondo che non vede l’ora di perdere Capire le trasformazioni, nel nostro Paese, viene confuso con “l’accettare un ricatto” nella narrazione di giornalisti pigri che non hanno né mai visto una fabbrica moderna né letto un accordo sindacale. Oggi si compete con i costruttori di tutto il mondo e con gli stessi stabilimenti di Fca, da Tichy in Polonia, a Jefferson a Detroit e a Goiana in Brasile. Il bilancio dei nostri accordi: abbiamo difeso occupazione e aumentato i salari. Perché negli States, la narrazione dei successi di FCA è positiva e viene accompagnata addirittura dagli spot, visti da oltre 100 milioni di telespettatori durante il Super Bowl? Lo spot del 2012 Clint Eastwood diceva “siamo a metà tempo, insieme possiamo farcela e quello che possiamo fare è davanti a noi”, nel 2015 un afroamericano ricorda a tutti: “Non dimenticarti mai da dove vieni…” Ricordiamo a Marchionne che tutto cominciò a Pomigliano e che fu proprio il nostro sindacato a convincerlo a restare. Pomigliano ha vinto tutto, medaglia d’oro nel WCM. Oggi è un gioiello che ha le potenzialità per fare di più producendo auto premium. Se Renzi ha dimostrato scarso discernimento nel panorama sindacale e sull’attribuzione dei meriti nella vicenda Fca, Marchionne non può fare altrettanto, sa bene cosa è accaduto in questi anni e al più presto serve una risposta che riconosca l’impegno delle ragazze e dei ragazzi dello stabilimento Giambattista Vico.
Ford ha appena annunciato il taglio di 20 mila dipendenti, il 10% del totale, preceduta da Volkswagen, che lo scorso anno ne ha annunciato uno di 30 mila, di cui 23 mila solo in Germania. Notizie nei piccoli riquadri della stampa italiana, che non meritano né spazio né qualche slogan nei talk.
L’ipocrisia sui voucher
Prendiamo un altro caso emblematico, quello dei voucher. L’addio ai voucher ha confermato che alla politica il lavoro non interessa. Nemmeno ai partiti di sinistra. Il Partito Democratico in quest’occasione ha dato prova di occuparsene solo in una logica strumentale alle sue beghe interne. Immaginare di sostituirli con contratti di lavoro subordinato, come sostiene la CGIL (che in questi giorni sta parlando di “attacco alla democrazia” di fronte alla proposta di introdurre un nuovo strumento per il lavoro occasionale), è come immaginare di fermare l’acqua con le mani. Dietro a una decisione del genere si scorgono allora solo incoerenza ed ipocrisia della politica e di una parte del sindacato. Ma nemmeno l’ipocrisia riesce a celare la reale motivazione: la rincorsa a demagoghi e populisti. Rincorsa in cui, peraltro non sono competitivi.
Non sarebbe ora di abbandonare l’ipocrisia di queste non-scelte e ragionare di riforme vere, di poche cose, importanti, da fare tutti insieme? Dalla protezione alla promozione della persona Occuparsi di formazione, nuovi inquadramenti, politiche attive, come stiamo facendo in fase sperimentale alla Ferroli con Anpal Servizi, e di un nuovo welfare baricentrato sulla persona. Quando si parla di “centralità della persona” non si sta dicendo nulla se non si ha ben chiaro come sono profondamente mutati (e continueranno a cambiare) i bisogni delle persone. Un sistema di welfare integrativo può essere utile a orientare l’impiego delle proprie risorse ad un benessere reale e a scoraggiare l’inseguimento di un modello di consumi insostenibile. Al sindacato spetta il rilancio del sistema di welfare integrativo nella consapevolezza dei suoi limiti e delle sue potenzialità. La sfida è andare insieme oltre l’attuale welfare integrativo verso un modello più inclusivo, più efficace ed esteso di protezione sociale. Infatti nell’esperienza dei fondi di previdenza complementare emerge che i giovani non aderiscono a questa opportunità inventata proprio per loro. Il rafforzamento del secondo pilastro previdenziale, oltre a richiedere una legislazione più favorevole, richiede un ripensamento del ruolo dei fondi, per esempio attraverso una maggiore promozione della cultura previdenziale che porti ad un allargamento della platea delle persone coinvolte, un ruolo più propositivo nei confronti dell’aderente ed un’attenzione particolare alla sostenibilità sociale degli investimenti. Inoltre la rete di ammortizzatori sociali si è estesa ma è più “corta” nel tempo.
Ci potrebbero essere inoltre spazi per fondi bilaterali anti-crisi. Bisogna estendere, come in alcune aziende si sta facendo anche a nuovi ambiti, la rete di welfare di prossimità che può essere messa in campo. A questo proposito occorre la capacità di collegare il lavoro ad altre dimensioni di welfare, oltre naturalmente ad un forte investimento nelle politiche attive del lavoro per rendere più forte la tutela e la promozione della persona.
La sfida delle 3R
Abbiamo usato uno slogan altisonante, la rivoluzione sindacale, perché non ci sono alternative: la manutenzione ordinaria non è più sufficiente. Si è ora chiamati alla “sfida delle 3 R”: occorrono scelte radicali, rifondative e rigeneratrici. Radicali, perché i ritardi nell’autoriforma hanno reso vana la “manutenzione ordinaria”. Non possiamo essere in ritardo anche con il mondo delle imprese. Se girate gli stabilimenti Fca, son sparite le palazzine direzionali, a Pomigliano, a Cassino i pochi uffici sono vicini alla produzione. Siamo un sindacato, sappiamo quale è la nostra prima linea, bisogna snellirci e andare verso di essa. Rifondative, perché su molti aspetti ci si è allontanati dalle grandi intuizioni originarie. Essere 21 sindacato di categorie, nel modo in cui lo è la CISL, è ancora oggi attuale più che mai, visti i processi di verticalizzazione del lavoro e la trasformazione dei sistemi produttivi locali. La rifondazione deve riguardare anche il patto associativo tra lavoratori e dentro le organizzazioni. Rigeneratrici, perché oggi anche l’ultimo lavoratore che si iscrive deve sentire “la differenza” nei valori positivi, nella fiducia nel progresso e nella giustizia, come tratti distintivi dell’organizzazione a tutti i livelli. Non ci sono spazi per vivere di rendita e bisogna ricostruire la propria forza partendo dal mettersi in discussione sul serio. Troppo spesso si sono modellati o accantonati i progetti organizzativi sulle esigenze dei singoli dirigenti. Bisogna avere chiaro, tutti, che siamo al dunque. Bisogna ripartire dall’essenza, ovvero dalla sconfitta necessaria di un’idea monumentale e istituzionale del sindacato per tornare al grande valore della nostra dimensione associativa. Non siamo l’Inps o l’Aci, siamo più o meno forti in base ad una scelta personale, la scelta che ogni donna o uomo decide di compiere diventando iscritto, militante, delegato, operatore, dirigente. Siamo forti quando quella scelta si traduce in competenza, passione e impegno e per questo serve essere credibili giorno dopo giorno. Un sindacato per le ragazze e i ragazzi Basta parlare di giovani senza fare qualcosa con loro. Mi immagino i volti, la rabbia, lo scetticismo – o peggio l’indifferenza – di un ragazzo di 16 anni quando sente parlare di “giovani” in qualche statistica collegata ad esempio alla disoccupazione o al Paese che invecchia. Certo che l’Italia invecchia se un ragazzo o una ragazza oggi non trova nel proprio Paese le condizioni minime per vedere un futuro, per comprarsi una casa, andare in affitto, costruire una famiglia.
La FIM promuove borse di studio, sta andando nelle scuole, in istituti professionali, a Nord e a Sud e sapete cosa risponde un ragazzo di 18 anni quando gli viene chiesto “Cosa è per te il lavoro?”. Risponde: “la possibilità di avere una famiglia”, “la possibilità di avere un futuro”, “l’unica ragione per rimanere in Italia e non andare all’estero”. Ecco, basta retorica sui giovani per favore. Soprattutto da parte del sindacato. Perché è anche (o soprattutto) colpa nostra quando i ragazzi e le ragazze non sanno chi siano CGIL, CISL e UIL o ci vedono come qualcosa di sorpassato e inutile. I giovani, nonostante tutto, credono ancora nel sindacato, come ha dimostrato la ricerca che abbiamo realizzato insieme al Prof. Alessandro Rosina, come fosse un’ultima chance, ma ci chiedono di cambiare, di fare qualcosa di concreto “con” e “per” loro. Anche all’interno del sindacato i giovani non dovranno essere solo “ospitati”, ma bisogna mettere in campo politiche dei quadri che consentano loro di fare esperienze concrete, di avere ruoli e protagonismo vero, senza buttarli nel guado, e senza troppe analisi di “compatibilità politiche”, ma accompagnandoli, lasciare anche che sbaglino, ma che portino la loro innovazione vera e non solo 11 Risposte al questionario FIM in Istituti superiori quella da “replicanti”.
Devo dire che ci abbiamo provato, con importanti successi, con il Tirocinio 4.0 e il network giovani metalmeccanici. Lavoreremo, giorno dopo giorno, per promuovere un’ ”invasione” pacifica di ragazze e ragazzi della FIM. Rinnovamento non giovanilismo Per noi la chiave per ripartire dai giovani riguarda in particolare il cambio di passo dei non giovani. Basta col piagnisteo o con il conto alla rovescia con il giorno della pensione o la pretesa dell’eternità. Trasmettiamo passione, voglia di esserci e costruiamo spazi liberi a partire dall’esempio personale.
Meriti e bisogni
“Meritocrazia” è un concetto di cui spesso si abusa o che si utilizza a sproposito. Oppure, come ci ha ricordato anche Papa Francesco, viene impropriamente sovrapposto e confuso con quello di “privilegio” di appartenenza di classe. Per troppo tempo ‘sindacato’ e ‘merito’ sono stati termini antitetici, cioè ha prevalso una linea sindacale che– in nome di un falso egualitarismo che non ha accontentato nessuno ma anzi ha creato disuguaglianze – non ha saputo distinguere tra chi lavora bene e chi non lavora bene, tra chi si assume delle responsabilità e chi non se le assume, tra inoperosi e quelli che si fanno carico del lavoro. Contribuendo così ad abbassare il livello qualitativo complessivo della produttività e della qualità dei servizi e a ridurre la competitività delle nostre imprese. Nel nostro paese vince troppo l’idea che contino di più la fortuna e le relazioni dell’impegno e delle capacità.
La FIM ha fatto una scelta diversa e oggi collabora anche con il Forum della Meritocrazia che si occupa appunto di saper distinguere la qualità, a tutti i livelli, in tutti i contesti, tra tutti i soggetti (lavoratori, imprenditori, scelte politiche e istituzionali). Attraverso il riconoscimento e la valorizzazione del merito si può contribuire a dare una spinta all’economia e avanzare in termini di competenza e di innovazione, di processo e di prodotto. Insieme ad una maggiore trasparenza nei criteri di valorizzazione della professionalità dei lavoratori coinvolti, anche attraverso lo strumento del bilancio delle competenze e nel nuovo sistema di inquadramento professionale inseriti nel nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici. Stesso approccio va applicato anche all’interno del sindacato, per selezionare e formare sindacalisti del presente e del futuro su logiche che riguardino il senso di appartenenza all’organizzazione, la condivisione dei valori e delle scelte originarie della nostra organizzazione, la competenza e i risultati concreti dell’azione quotidiana di rappresentanza.
Stiamo facendo il nuovo sindacato
Sono stato eletto due anni fa e insieme a voi abbiamo affrontato sfide di ogni genere, abbiamo cercato di tenere insieme l’organizzazione, ma soprattutto di andare avanti più forte e in profondità. Abbiamo curato poco le logiche del consenso interno. Se pensassimo solo a queste logiche continueremmo a caricarci di sovrastrutture e incarichi per autoconservarci.
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La crescita organizzativa della FIM continua da 12 anni, compresi gli anni difficili della crisi. Mentre il settore dell’industria perdeva oltre 300 mila posti di lavoro, la FIM aumentava gli iscritti, segno che i lavoratori e le lavoratrici hanno riconosciuto e apprezzato la tenacia della nostra azione, anche e soprattutto nei momenti più duri. Non tutto va bene, sono aumentate le donne nel nostro gruppo dirigente ma è stabile il numero di iscritte e Rsu (+0,2%). Il contrario vale per i migranti dove aumentano gli iscritti ma non proporzionalmente le Rsu e i dirigenti. Su queste cose bisogna fare sul serio. Le quote ci interessano solo come strumento di partenza ma poi bisogna assumere che l’organizzazione è più ricca e più forte se rappresenta davvero tanti e tutti i generi, le generazioni, le etnie, le professionalità, i lavori. Su quest’ultimo aspetto, è chiaro che le forme di lavoro si modificano rapidamente anche nel nostro settore, bisogna aprire presto il cantiere delle nuove forme organizzative capaci di rappresentare il nuovo lavoro e di intercettare persone e bisogni nuovi.
L’organizzazione nell’era della Gig e della sharing economy
Se una parte di economia si sviluppa attraverso piattaforme tecnologiche, il tema è aperto e urgente anche per noi. Se una app consente un raccordo in tempo reale con i lavoratori di Foodora (rispetto ai pony express), pensare che qualche sito impolverato e la sporadicità di contatti ci tenga in campo, è velleitario e dannoso. I contatti e le relazioni umane restano fondamentali, ma la tecnologia consente di aiutarci ad intercettare, riunire e rappresentare il frammento. Quelli che “preferisco i rapporti umani” come scusa per non utilizzare le tecnologie sono spesso proprio coloro che non hanno più voglia di parlare con le persone, anche direttamente. Chi ascolta, chi parla con i lavoratori lo fa sia di persona che con i nuovi strumenti della comunicazione: gli attivisti digitali più attivi sono i più dinamici anche nei rapporti umani. È una realtà.
Una Cloud Union
Siamo ancora indietro nella consapevolezza dell’enorme potenziale dei tantissimi dati che il sindacato possiede rispetto alle persone che rappresentiamo. Non riusciamo a capire quanto questi dati ci parlino di noi, di ciò che facciamo, di chi e di come rappresentiamo gli altri. Dobbiamo al più presto trasformarci in una Cloud Union, che raccolga tutti i dati che ci arrivano dalla contrattazione, dai bilanci aziendali, dai servizi, dai nostri iscritti, per poter orientare e rendere più efficace e mirata la nostra azione sindacale. Se siamo d’accordo sul fatto che sia la produzione che la contrattazione sono e saranno sempre più “sartoriali”, a misura del lavoratore, non possiamo non capire quanto ci servano gli “Smart Data del sindacato”. Per questo stiamo lavorando come FIM nazionale alla nostra “nuvola digitale sindacale”, sempre più ricca, alimentata dal basso e accessibile a tutti.
Dobbiamo impegnarci a una maggiore cura dei dati, dalla raccolta all’inserimento, da quando si compila una delega a quando si fa una contrattazione aziendale. Avere cura dei dati significa, prima di qualunque altra cosa, avere cura delle persone. Perché non si può fare a meno del sindacato Non si può fare a meno del sindacato perché dà forma e contenuto alla rabbia e alla disperazione. Perché è l’unico soggetto capace di trasformarli in energia positiva. Il sindacato ha senso se torna ad essere un grande progetto educativo collettivo: per questo in FIM vale l’obbligo formativo. Chi si impegna in FIM è destinatario di attenzione, ascolto, formazione.
Siamo orgogliosi del nostro Centro Studi, il Romitorio di Amelia, e di aver rilanciato la formazione in tutto il paese, pur avendo incrementato la nostra partecipazione all’attività del Centro Studi Cisl di Fiesole. Siamo sempre più famosi nelle aziende perché siamo il sindacato di chi, prima, non aveva mai pensato di farsi coinvolgere, di chi non si sentiva pronto o preparato, di chi aveva tanta energia e voglia di fare. Impegnarsi in FIM, a qualsiasi livello, corrisponde ad un percorso di crescita che ha l’ambizione di 25 cambiare la propria vita, verso gli altri. Questo significa tornare ad essere il luogo pubblico delle migliori aspirazioni delle persone.
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