Alitalia e Ilva: entrambe le grandi aziende in bilico sono comunemente qualificate con questo aggettivo, che oggi non è più, né può tornare a essere come è stato in passato, una parola magica
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Editoriale di Goffredo Buccini pubblicato sul Corriere della Sera il 2 giugno 2017 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 10 agosto 2015 Per avere più lavoro e migliore occorre anche saperlo perdere
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Una vecchia idea storta s’intravede nella testa del sindacato: che al dunque possa pagare ancora e sempre Pantalone, cioè lo Stato, cioè noi. È questa, al di là delle sigle, la sottile linea rossa che pare unire le due maggiori crisi industriali del Paese nella calda primavera 2017 — Alitalia a fine aprile e Ilva a fine maggio — e la loro sconcertante gestione. Due naufragi che hanno consonanze di passo e di parole d’ordine. «Alitalia è strategica», ci spiegavano le sigle che spingevano verso il referendum del 24 aprile, strizzando l’occhio al famoso piano B, ovvero al terzo salvataggio in dieci anni, il più implausibile, la nazionalizzazione (quasi postuma) della compagnia. «Se l’Ilva è strategica per il Paese, il rilancio non può passare per i licenziamenti», hanno proclamato a Taranto gli organizzatori dello sciopero di ieri, in concomitanza con la trattativa al tavolo romano del ministero per lo Sviluppo economico: un assaggio di ciò che avverrà da lunedì, con minacciati blocchi stradali e conflittualità a oltranza.
Dopo il referendum suicida con il quale quasi sette lavoratori Alitalia su dieci hanno bocciato (al grido di «No ai tagli!») l’ultimo tentativo di ristrutturazione, consegnando la compagnia allo spezzatino e alla svendita, loro stessi a nuovi tagli, e aggrappandosi a 600 milioni pubblici di «prestito ponte» fino alla prossima crisi di liquidità, ecco dunque che il copione sembra ripetersi nella grande acciaieria moribonda (anche in questo caso, il placet sindacale è vincolante per il perfezionamento dell’accordo con gli acquirenti che propongono un duro piano di esuberi, anche qui l’alternativa è il baratro). Il problema è che l’aggettivo «strategico», in tempi di voragini nei conti dello Stato, non è più la parola magica che tutto ripiana e che, secondo Mediobanca, è costata 7 miliardi e mezzo al Paese per la sola Alitalia (in soldoni: se perdi 700 mila euro al giorno non sei strategico nemmeno per la tua mamma…).
Sarebbe ingiusto accollare al solo sindacato (al netto di cassintegrazioni dorate e rendite di posizione difese coi denti) il tracollo della compagnia che ha radici in pessime scelte politiche (una per tutte, i «capitani coraggiosi» riuniti da Berlusconi nel 2008 in nome dell’italianità dei cieli) e in catastrofiche strategie aziendali di lungo e corto raggio.
Come sarebbe iniquo addebitare solo o soprattutto alle federazioni metalmeccaniche il disastro Ilva che si è consumato a Taranto. Perché è lì che la fabbrica, cresciuta fino a diventare il doppio della città, ha creato problemi di inquinamento così gravi da imporre l’attuale limite alla produzione da cui discende l’ultimo guaio: per non avvelenare troppo l’ambiente non si possono sfornare più di sei milioni di tonnellate d’acciaio l’anno fino al 2023. Ma chi compra fa due conti (gli indiani di ArcelorMittal e la Marcegaglia dovrebbero averla spuntata su AcciaItalia) e per quella produzione gli operai sono troppi: il resto sono chiacchiere.
«L’ideale? Eh, sarebbero stati altri dieci anni di commissariamento!», si lascia scappare qualche vecchio amico tarantino. E c’è del vero. Perché, sottratta alla famiglia Riva, la fabbrica è stata mantenuta in vita artificiale da una decina di decreti del governo e dal commissariamento pubblico… Non poteva durare all’infinito.
Stupisce tuttavia l’indignazione dei sindacati che, nei vent’anni dei Riva, non sembrano quasi aver notato quanto i fumi delle ciminiere fossero letali e come la proprietà dimenticasse di ambienta lizzare , brutto neologismo dal bel significato: rendere salubre il luogo di lavoro, evitando che si debba scegliere tra morire di cancro e morire di disoccupazione. Il limite attuale alla produzione e i tagli relativi vengono proprio da lì, dai soldi mai spesi per bonificare la fabbrica. E dunque, in parte, dal «fragoroso silenzio sindacale» in proposito (parole del procuratore generale di Lecce) .
Deve naturalmente ascriversi a mera casualità il fatto che in quegli anni i Riva abbiano dato in gestione ai sindacati il Circolo Vaccarella, dopolavoro aziendale costosissimo: per mantenerlo, l’azienda ha versato a Fiom, Fim e Uilm 6 miliardi di vecchie lire tra il ‘96 e il 2000 e 400 mila euro l’anno fino al 2013, finché la generosa abitudine è stata interrotta dal commissario Bondi. L’Ilva in quegli anni beneficò del resto Taranto intera: dalla Chiesa, ai politici, ai giornalisti. Rendere i fumi invisibili fu un dispendioso gioco di prestigio. Che però, alla fine, sarà stato pagato sempre dal solito amico di tutti. Lo stesso che offrirà un paracadute agli esuberi e raccoglierà gli strategici cocci se l’accordo sull’Ilva andrà in frantumi: il vecchio Pantalone.
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