Tra l’incudine e il martello delle due posizioni estreme, Bruno Caruso e Riccardo Del Punta hanno provato a proporre una prospettiva né di pessimismo cosmico, né di facile ottimismo sulle felici, luminose e imperiture sorti del capitalismo e del mercato
Intervento di Bruno Caruso, professore di diritto del lavoro nell’Università di Catania, pervenuto il 22 maggio 2017 nel dibattito suscitato dal mio editoriale telegrafico Ancora sul diritto del lavoro come variabile indipendente, dello stesso giorno – V. anche la replica immediata di Maria Vittoria Ballestrero al mio editoriale .
.
Caro Pietro,
rispondo volentieri al tuo invito di contribuire al dibattito sul fascicolo sull’autonomia del diritto del lavoro per il trentennale della rivista Lavoro e diritto, che non mi pare così monocorde come tu lo presenti.
Come avrai notato nel fascicolo, chi scrive, insieme a Riccardo Del Punta, nel commentare il saggio di Luigi Mariucci – tra l’altro molto bello, analitico e problematico – prende le distanze, o almeno cerca di farlo, da una visione, forse un po’ manichea, che ha caratterizzato il confronto tra i giuslavoristi negli ultimi trent’anni.
Da un lato, la posizione che viene ricondotta alla ideologia neoliberale e che, con sicura forzatura, ti viene attribuita, per cui le ragioni e la stessa grammatica dei diritti verrebbero sottoposti al dominio dell’economia (direi meglio del mercato): una questione di egemonia culturale prima ancora che politica. Dall’altro, la posizione (per altro molto differenziata al suo interno e meno tetragona di quel che tu induci a pensare: basta cogliere le differenze, non solo le sfumature, all’interno del fascicolo), per così dire, “resistenziale”, dei cultori del diritto naturale del lavoro, come li definisci tu; per cui prima ancora dei diritti sociali delle persone in carne ed ossa, bisogna preservare un certo modello di tutela del lavoro (burocratica, protettiva, paternalistica, altamente regolativa, inderogabile); a tale modello non si danno alternative valide: tertium non datur. Al di fuori di quel modello, secondo questa posizione, ci sarebbe il nulla; il suo smantellamento conduce direttamente a un pessimismo nichilista e al trionfo del mercato.
Tra l’incudine e il martello delle due posizioni, io e Riccardo abbiamo cercato di svicolare, provando a proporre una prospettiva né di pessimismo cosmico, né di facile ottimismo sulle felici, luminose e imperiture sorti del capitalismo e del mercato; bensì di realismo problematico che è cosa diversa dall’empirismo meccanico che riduce tutto alla cruda realtà dell’economia e delle sue cifre.
Non utilizzo volutamente il termine post ideologico per sintetizzare la nostra posizione, soltanto per la consapevolezza che la critica, insita nell’endiadi, mi verrebbe immediatamente ribaltata; ‘chi critica le ideologie, fa a sua volta ideologia’: è il vezzo dissacrante corrente nei confronti di ogni posizione non in linea con il mainstream di sinistra. Né accosto la nostra posizione alla teorizzazioni della flexicurity, che è una risposta in termini di policy immediata con ricette a volte troppo semplicistiche.
Molto più modestamente Riccardo, io, ma anche tanti altre colleghe e colleghi, ognuno con propri originali percorsi intellettuali, e non solo in Italia, abbiamo imboccato la strada di una ricerca un po’ più lunga e paziente. Nella consapevolezza che le grandi endiadi valoriali (libertà e uguaglianza) e le tante altre che segnano il paradigma della disciplina e l’evoluzione sociale in generale (pubblico/privato, individuale/collettivo, subordinazione/autonomia, welfare pubblico/ welfare privato, sviluppo/decrescita, disintermediazione/reintermediazione sociale, lavoro/reddito di cittadinanza, tecnologia/lavoro ecc.), vadano affrontate non come inestricabili contraddizioni che generano impotenza e rinunzia a comprendere e fare, ma neppure per arrivare a improbabili sintesi giuridiche, filosofiche o politiche (la terza via).
Esse vanno affrontate per quelle che sono: vale a dire il riproporsi di grandi contraddizioni che fanno seguito a “grandi trasformazioni” che segnano da sempre l’incedere della storia della umanità.
I giuslavoristi, per quel poco che loro compete, non possono pertanto che mettersi nel sentiero, più scosceso ma più intrigante, di problematiche mediazioni, anche di tipo culturale oltre che giuridico, all’insegna del bilanciamento, della ragionevolezza e della proporzionalità, riscoprendo magari, da sinistra, il principio di responsabilità e la cultura dei doveri oltre che dei diritti.
Che è un modo altro per dire che ci sembra opportuno che la comunità dei giuslavoristi (o quel che rimane) torni a confrontarsi intensamente per rilanciare una prospettiva mite del diritto, una consapevolezza umile del proprio ruolo di giurista e mediatore sociale, e una visione altrettanto mite ma forte, di riformismo politico dal basso, molto pragmatico e realistico.
Ringrazio anche Bruno Caruso di questo intervento nel dibattito, osservando soltanto che nel mio editoriale telegrafico mi sono riferito alla maggior parte degli scritti raccolti nel fascicolo di Lavoro e Diritto: la mia critica non è certo rivolta al saggio di lui stesso e di Riccardo Del Punta, di cui condivido l’intendimento di fondo e gran parte delle tesi sostenute. (p.i.)