Gli insegnamenti e l’impatto delle elezioni presidenziali francesi per il sistema politico italiano
Videoregistrazione, a cura di Radio Radicale, del seminario della presidenza di LibertàEguale svoltosi a Roma il 26 aprile 2017, e testo della relazione introduttiva di Stefano Ceccanti, professore ordinario di diritto pubblico comparato nella Facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma – Sullo stesso tema v. anche le conclusioni di Enrico Morando del seminario della stessa Associazione svoltosi il 10 febbraio 2017, Una strategia per le riforme, dopo il disastro del 4 dicembre .
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VIDEO DEL SEMINARIO
Relazione di Stefano Ceccanti, 48′; interventi: Luigi Covatta, 15′; Claudio Petruccioli, 14′; Claudia Mancina, 8′; Marco Leonardi, 9′; Dario Parrini, 10′; Irene Tinagli, 8′; Pietro Ichino, 12′; Salvatore Vassallo, 15′; Erminio Quartiani, 9′; Eugenio Somaini, 7′; Marco Campione, 7′; Augusto Zucaro, 4′; Matteo Lo Presti, 5′; conclusioni del Relatore.
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IL TESTO DELLA RELAZIONE DI STEFANO CECCANTI E LE SLIDES PROIETTATE
1. Dove eravamo rimasti a febbraio e da dove ripartiamo
Il 10 febbraio la slide n. 7 della relazione Tonini (file 1) si intitolava “Eppur si muove..l’Europa” e riportava l’immagine di uno dei meeting di Emmanuel Macron, individuando lì la leva del cambiamento, mentre Renzi stava per correggere la scelta sbagliata fatta a dicembre di non procedere ad una necessaria rilegittimazione dopo la sconfitta referendaria. Infatti la relazione Tonini riporta puntualmente il fatto che lunedì 13 febbraio, tre giorni dopo, sarebbe stato indetto il Congresso, la via maestra che secondo lo Statuto del Pd collega in modo indissolubile la scelta delle persone e delle priorità programmatiche in un arco di tempo ragionevole, in ogni caso inferiore a quello che si è dato il Parlamento inglese per indire elezioni politiche anticipate.
Ripartiamo quindi dalle medesime due scadenze: il primo turno svolto in Francia e le primarie imminenti.
2. Perché non era temeraria l’ipotesi Macron: né come previsione né come speranza
Che l’ipotesi di un Macron in grado almeno di andare al ballottaggio non fosse temeraria (in termini di giudizio di fatto) e fosse anche auspicabile (in termini di giudizio di valore) lo ha spiegato in modo magistrale il direttore della Fondation Jean Jaurès, proprio quella del Psf.
Il file 2.jpg ci mostra l’autocollocazione odierna dei francesi, che è piuttosto sbilanciata a destra
Il file 3. jpg ci mostra il posizionamento percepito e la voragine che si presentava a Macron dopo la scelta di due candidati spostati sugli estremi (per di più sull’estremo sinistro ci sono meno elettori)
Il file 4.jpg ci mostra come Macron fosse il più competitivo sia per estensione (fuori gioco solo nelle due caselle estreme) e anche per intensità (nettamente in testa nelle caselle 4, 5 e 6).
Il file 5.jpg ci spiega come già a marzo una significativa maggioranza relativa si stesse orientando su Macron per il combinato disposto di due fattori: la maggiore vicinanza programmatica e la volontà di evitare con un voto utile sin dal primo turno il ballottaggio Le Pen-Fillon.
Qui i rinvii bibliografici precisi:
http://www.huffingtonpost.fr/gilles-finchelstein/comprendre-succes-emmanuel-macron/
https://jean-jaures.org/nos-productions/les-socialistes-decoupes-au-laser
Infine il file 6.jpg: è l’unico con analisi ex post ci dice quanto quel movimento si sia ampliato: alla fine quasi la metà degli elettori di Macron aveva votato Hollande al primo turno del 2012 (45,4%) e in quanto a vicinanza politica dopo En Marche il secondo partito citato è di gran lunga quello socialista (26,4%).
Sempre l’Ifop ci dice che su 100 elettori di Francois Hollande del 2016 le prime tre scelte sono state:
-Macron 47,8%;
-Melenchon 25,2%;
-Hamon col 15,8%.
E’ solo pertanto la deriva estremista del Ps che ha smarrito la strada del partito a vocazione maggioritaria di Epinay, che non fa capire a molti come il vero candidato di centrosinistra sia stato di fatto Macron, anche se tatticamente, vista la situazione, egli si è autoclassificato come fuori dalla destra e dalla sinistra.
Del resto, se rileggiamo le Memorie di Jacques Delors edite da Plon nel 2004, troviamo una prefigurazione dell’esito attuale: Delors sostiene di non aver accettato la candidatura presidenziale nel 1995 perché non avrebbe poi avuto una “maggioranza coerente” (pag. 22) di impostazione chiaramente europeista in Parlamento, che si sarebbe potuta realizzare solo con la convergenza di socialisti e centristi, prospettiva non condivisa dai socialisti di allora per i quali sarebbe stato non “il candidato del cuore” ma “il candidato per assenza di meglio” (pag. 21).
Per inciso: questa riflessione non significa affatto delegittimare le primarie, né quelle del Ps né quelle dei Républicains. Nulla garantisce che con un metodo diverso sarebbero stato scelti candidati più moderati. Tra i soli iscritti Ps la scelta del segretario vide vincente Martine Aubry e non Ségolène Royal e quella elezione si trascinò conseguenze pesanti nella scelta dei candidati nei collegi, sovrarappresentando l’ala sinistra dei “frondeurs” della sinistra interna che hanno costantemente creato problemi ai Governi socialisti della legislatura.
- Conseguenze prevedibili in Francia: non solo un Presidente, ma anche una maggioranza europeista
E’ ragionevole pensare che Macron possa vincere il ballottaggio: i sondaggi seri (che finora non hanno sbagliato) lo danno al 60%.
Cosa è ragionevole ipotizzare per le legislative? Il sistema varato nel 2000 e sperimentato dal 2002 prevede le legislative ad un mese di distanza dalle presidenziali, in “luna di miele” del Presidente neo-eletto per favorire un’omogeneità delle maggioranze ed evitare coabitazioni con maggioranze opposte. Il sistema è leggermente diverso nel senso che al secondo turno in ogni collegio potremmo trovarci anche di fronte a più di due candidati: lo sbarramento è fissato al 12,5% degli aventi diritto al voto. Dal momento che di norma alle legislative la partecipazione scende a circa il 60%, lo sbarramento reale finisce per essere di circa il 20%, per cui in realtà il numero delle cosiddette “triangolari” alla fine è limitato.
E’ difficile il successo dei candidati delle estreme, soprattutto del Fn, perché nei collegi il sistema le penalizza. Anche coi voti delle Presidenziali è difficile che il Fn abbia un numero significativi di eletti, mentre margini maggiori, anche se non vastissimi, li ha il Front de Gauche. E’ pertanto ragionevole che la gran parte dei seggi si concentri sui due raggruppamenti tradizionali, socialisti e repubblicani, e sul nuovo movimento “En marche”, che godrà dell’effetto traino delle Presidenziali.
Improbabile il caso di coabitazione, cioè di una convivenza con una maggioranza opposta coerente. Più probabile il caso di una Camera senza maggioranza autosufficiente: esso si è già prodotto nel 1958 e nel 1988, con il Partito del Presidente che disponeva di una maggioranza relativa. E’ ragionevole che in questo caso il movimento del Presidente possa essere in una condizione quantitativa peggiore, tuttavia esso è baricentrico tra socialisti e repubblicani e in grado di attrarre settori significativi di entrambi, da Valls a Juppé, soprattutto in nome della linea di frattura europeista.
Aiutano in questo sia i poteri del Presidente (che nomina il Primo Ministro senza bisogno di un voto di fiducia iniziale) sia quelli del Governo in Parlamento (che può approvare la Finanziaria e un testo di legge per ogni sessione ponendo una particolare fiducia che consente l’approvazione senza voto nell’unica Camera con rapporto fiduciario, a meno che non venga approvata a maggioranza assoluta una mozione di sfiducia). L’unica mozione approvata nella storia costituzionale fu quella del 1962 contro il Governo Pompidou dalle sinistre e dai gruppi della maggioranza ostili all’elezione diretta del Presidente della repubblica, seguita prontamente dallo scioglimento anticipato che il Presidente decide da solo, senza alcuna controfirma.
Questo fa capire perché quando il principale autore della Costituzione, Michel Debré, si presentò al Consiglio di Stato per illustrare il progetto della Costituzione della Quinta Repubblica, il 27 agosto 1958, sostenne questa argomentazione:
“Quelque désir que l’on ait d’une loi électorale neuve et majoritaire et quelque nécessaire qu’elle soit, nul n’a le droit en France, présentement, de tirer une traite sur un avenir dont nous savons trop bien qu’il sera fait longtemps encore de divisions politiques, c’est-à-dire de majorités menacées, trop aisément, d’éclatement, et qu’il faut contraindre à la sagesse. Parce qu’en France la stabilité gouvernementale ne peut résulter d’abord de la loi électorale, il faut qu’elle résulte au moins en partie de la réglementation constitutionnelle, et voilà qui donne au projet son explication décisive et sa justification historique. “
Com’è noto la legge elettorale decisa da De Gaulle fu introdotta per decreto il 13 ottobre 1958, qualche giorno dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione e in vista delle elezioni del mese successivo.
Cosa significano quindi questo insieme di previsioni e di norme? Che alla fine del percorso la Francia dovrebbe ragionevolmente avere non solo un Presidente ma anche una maggioranza europeista, pur se più complessa del solito, entrambi all’interno di norme costituzionali che ne facilitano fortemente l’azione.
In una situazione analoga si troverà la Germania a fine settembre, ma questa è cosa nota e tradizionale.
Sono quindi riunite le condizioni per un balzo in avanti dell’integrazione politica della zona euro, quel balzo che tradizionalmente ha sempre trovato soprattutto in Francia le resistenze maggiori, dalla caduta della Ced nel 1994 alla bocciatura del Trattato Costituzionale nel 2005. Come già spiegato a febbraio nella relazione Tonini l’uscita dalla fase segnata dal metodo intergovernativo con tutte le sue incapacità ad affrontare i problemi (dalle incapacità di promuovere lo sviluppo a livello dell’Unione alla gestione dell’immigrazione). La prospettiva ben delineata da Sergio Fabbrini col termine “Unione federale”. Non si tratta tanto di polemizzare contro il Fiscal Compact, utilizzando la scadenza prevista dallo stesso per l’eventuale inserimento tra i Trattati Ue: anche se non fosse inserito esso rimarrebbe in vigore e, peraltro, il suo nocciolo duro di stabilità di bilancio è stato costituzionalizzato con la legge costituzionale 1/2012 centrata sul nuovo articolo 81 e con la conseguente legge ‘organica’ (legge 243/2012). Si tratta, anche a partire da quella scadenza di realizzare un “growth compact”, un motore europeo di sviluppo garantito da istituzioni rinnovate della zona Euro.
- Conseguenze per l’Italia: ritorno al dilemma del 1996
Com’è noto nel 1996 l’Italia si trovò di fronte a una situazione analoga: la convergenza di tutti i Paesi fondatori e della Spagna nel partire subito con la moneta unica pose il Governo Prodi di fronte ad una scelta difficilissima tra adesione immediata a costo di una manovra finanziaria enorme o pagare il prezzo politico e simbolico di un’adesione ritardata per avere minori problemi di consenso immediato. Fu scelta, per fortuna del Paese, dove fra l’altro era ancora forte una spinta secessionista che avrebbe avuto delle possibilità se l’Italia nel suo insieme non fosse stata in grado di aderire, la prima strada e quella scelta resta il risultato più duraturo del riformismo dell’Ulivo.
E’ pertanto inevitabile che qualsiasi ipotesi politica, a cominciare dalle coalizioni pre e post-elettorali si misuri sin da ora con questa linea di frattura decisiva.
Per quanto la politica spesso giochi a nascondere i problemi e a trovare compromessi dilatori nessuno potrà credibilmente presentarsi alle elezioni con i due trucchi di cui si è parlato nelle settimane scorse già ben chiariti da Enrico Morando. Il primo è quello di prendere demagogicamente i voti contro l’Unione europea chiedendo solo (si fa per dire) una legge costituzionale per promuovere un referendum sulla permanenza dell’Euro senza prefigurare chiaramente la scelta di merito. Nel contesto dato sarebbe sufficiente l’evocazione di un referendum, indipendentemente dall’esito, a rilanciare il rischio Paese, a fare dell’Italia l’anello debole della zona Euro. Per questo la coazione a ripetere di lanciare ponti verso il M5S, su cui in ultimo sono tornati Bersani e Emiliano, è radicalmente errata. Il secondo è quello di risolvere con una sorta di “ma anche” economico il dilemma tra monete. Il “ma anche” originario del Pd era la scelta di evitare unilateralismi, di muoversi oltre gli antichi steccati e non a caso anche Macron è stato accusato (a torto) per analoghi motivi. Qui invece l’esito è paradossale: non occorre essere economisti per capire che se Forza Italia promette di affiancare alla moneta buona (l’Euro) per esigenze di coalizione con la Lega di una moneta cattiva, comunque denominata, si crea l’aspettativa per la quale la prima verrà prima o poi abbandonata del tutto a favore della seconda, anche in questo caso con una radicale perdita di credibilità del Paese. E’ la nota legge di Gresham e a ribadirla recentemente ci si è messo persino Varoufakis.
- Il nodo delle regole istituzionali ed elettorali fuori dalla propaganda: inserire nel programma Pd il modello francese integrale (semi-presidenzialismo e doppio turno)
Con quali regole elettorali e istituzionali affronteremo queste scadenze? La risposta a breve, per le prossime elezioni politiche, è semplice: con regole inadeguate. Le condizioni successive all’esito referendario, alla sentenza della Corte e al panorama politico parlamentare consentono solo, forse, aggiustamenti minimali di efficacia sistemica piuttosto scarsa, anche se non bisogna mai rifiutare per principio nessuna modifica migliorativa. Resta vero anche per noi quanto spiegava Debré quanto dovremmo aver capito dal 1993: agire sul solo terreno elettorale a Costituzione invariata può sempre dare risultati molto limitati.
Il Movimento Cinque Stelle, dovremmo averlo tutti imparato, è un partito tecnicamente necrofilo, che si avvantaggia cioè in termini elettorali degli errori altrui: quale migliore conclusione di questo dibattito per il M5S di far fallire qualsiasi riforma accusando gli altri? Le forze politiche minoritarie vorrebbero una legge ancora più proporzionale, all’opposto del Pd.
Non è pertanto una questione volontaristica o legata alla scadenza delle primarie. Certo prima o poi ognuno si dovrà assumere le sue responsabilità in voti parlamentari, ma l’esito è del tutto prevedibile: o lo stallo o mutamenti marginali, come collegi più piccoli al Senato e l’introduzione della doppia preferenza di genere. Neanche l’enfasi sull’armonizzazione può del resto negare che la principale causa di disarmonia è di ordine costituzionale non è pertanto rimuovibile a breve, e riguarda i 18-25 enni che votano solo alla Camera.
Per le elezioni politiche la prospettiva della governabilità potrà pertanto essere affermata solo in via politica, ponendo l’elettorato di fronte a un’offerta credibile che punti al 40% dei voti in entrambe le Camere, col quale si avrebbe una maggioranza assoluta in seggi alla Camera e quasi assoluta al senato a causa degli sbarramenti opportunamente elevati. Una sfida difficile, ma ineludibile e che va posta chiaramente in questi termini agli elettori.
Resta tuttavia il problema strutturale: la convergenza con le altre grandi democrazie nell’Unione federale comporta anche una convergenza dei parametri istituzionali. Ora, di per sé il livello di frammentazione per così dire naturale nel nostro sistema è molto elevato, analogo a quello francese. Nessuna grande democrazia può reggere avendo sia istituzioni deboli sia un sistema di partiti debole. Il combinato disposto riforma costituzionale-Italicum risolveva in un certo modo questo problema, ma esso è stato bocciato dagli elettori, bocciatura che poi ha determinato anche la sentenza della Corte sul ballottaggio: non è pertanto politicamente recuperabile. Nel rapporto della Commissione dei saggi del Governo Letta accanto a quella ipotesi ne era però presente anche un’altra il modello francese integrale, ossia la somma di semipresidenzialismo e doppio turno di collegio
testo qui: riferimenti alle pagg. 58-60 http://presidenza.governo.it/DIE/attivita/pubblicazioni/Per%20una%20democrazia%20migliore.pdf
Chiediamo pertanto che il Pd faccia dell’introduzione integrale del modello francese uno dei punti chiave del suo programma elettorale: sono passati più di quattro mesi dall’esito del referendum e, se era comprensibile una certa ritrosia a riaprire una ferita piuttosto profonda, è tempo di elaborare il lutto e di rilanciare con coraggio.
Nel contempo la tendenza a utilizzare i poteri locali e regionali in chiave di veto, come sta avvenendo per importanti riforme come quella del lavoro, rilancia l’attualità della clausola di supremazia da parte dello Stato, da proporre come riforma puntuale e a sé stante, facendola precedere da una forte sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Anch’essa merita di essere riproposta nel programma del Pd. Se viene introdotta la clausola di supremazia si può anche precedere ad attuare il regionalismo differenziato dell’articolo 116 terzo comma, rilanciato da referendum palesemente inutili in quanto le istituzioni regionali sono comunque rappresentative e legittimate.
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Tornando al presente: le primarie di domenica. Perché il sostegno a Renzi, rilanciare in positivo su Europa
Se questo è l’orizzonte di prospettiva si capisce anche la ragione per la quale la grande maggioranza di noi che aderisce al Pd (qui non c’è disciplina di partito e neanche di corrente) tra le due candidature consistenti in campo ha scelto senza esitazioni quella di Matteo Renzi e ha contribuito in varie forme alla sua mozione. Parlo di due candidature consistenti e non tre perché la candidatura di un magistrato in servizio alla segreteria nazionale di un partito non può essere a priori considerata tale e non tanto per una norma puntuale dell’ordinamento giudiziario in applicazione di un preciso articolo della Costituzione (il 98), per di più puntualmente ribadita nella sua legittimità da una sentenza della Corte costituzionale (la 224 del 2009 che trovate qui http://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do), ma perché dovrebbe essere pacifico in un Paese normale che una scelta di tale tipo è incompatibile coi principi liberali di separazione ed equilibrio dei poteri.
Le due mozioni dei candidati consistenti si divaricano su due aspetti decisivi.
Il primo è la continuità col modello statutario che in coerenza con quanto accade nelle democrazie parlamentari (a prescindere dalla diversità di specifiche regole costituzionali, sistemi elettorali e sistemi di partito) fa del doppio incarico del ruolo di segretario del partito di maggioranza e di guida del Governo un aspetto chiave del principio di responsabilità: un continuum comprensibile tra cittadini elettori, maggioranza parlamentare e Governo. Come spiegavano bene Leopoldo Elia e Nino Andreatta già nel primo sistema dei partiti la coalizione centrista si rivelò ben più efficace del centrosinistra e della solidarietà nazionale proprio per questa specifica anomalia che non conobbe De Gasperi, ma che frenò invece la leadership di Moro. Ne sappiamo qualcosa anche con le esperienze del centrosinistra (Ulivo e Unione) nel secondo sistema dei partiti e con le difficoltà odierne. Puntare a scindere le cariche rende incomprensibile la scelta di ricorrere a primarie aperte per il segretario: se non fosse anche il candidato Premier perché non dovrebbero sceglierlo solo gli iscritti? E, peraltro, prospetta una scissione tra un partito identitario che vuole sopravvivere ripetendo al suo interno vecchie formule rassicuranti, per poi trovare una qualche copertura esterna per raggiungere gli elettori. Un modello che sembra rispecchiare una sorta di sindrome da “figli di un Dio minore”. La vocazione maggioritaria anzitutto si pratica al proprio interno e poi la si propone come norma, non si fa dipendere da assetti istituzionali pre-esistenti.
Il secondo è che nella mozione Renzi la prospettiva, comune a entrambe, dell’Unione federale, giunge fino alla prospettiva di primarie per il candidato Presidente della Commissione, leva necessaria per costruire un centrosinistra che raccolga non solo la famiglia nominalmente socialista ma anche tutte quelle realtà progressiste che non si ritrovano in quella denominazione e che sono a questo punto molto rilevanti in diversi Paesi chiave. E’ questo messaggio positivo, analogo a quello di Macron, che andrebbe rilanciato con forza in questi ultimi giorni, prima che si aprano le urne di domenica.
Postilla finale: vocazione maggioritaria, nomi e cose
Il termine “vocazione maggioritaria” fu rilanciato da Veltroni all’inizio della vita del Pd, dieci anni or sono, non in alternativa a alleanze e coalizioni, ma a quelle alleanze coalizioni che nascevano solo contro, per vincere e non per governare. Era ripresa dall’elaborazione socialista del Congresso fondativo di Epinay del 1971 (che si può leggere integralmente qui: http://www.ladislaspolski.fr/discours-de-mitterrand-a-epinay-13-juin-1971/).
Riprendiamo il passaggio-chiave:
“Eh bien, maintenant que notre parti existe, je voudrais que sa mission soit d’abord de conquérir. En termes un peu techniques, on appelle ça la vocation majoritaire.
Je suis pour la vocation majoritaire de ce parti. Je souhaite que ce parti prenne le pouvoir… Déjà le pêché d’électoralisme ! Je commence mal. Je voudrais que nous soyons disposés à considérer que la transformation de notre société ne commence pas avec la prise du pouvoir, elle commence d’abord avec la prise de conscience de nous-mêmes et la prise de conscience des masses. Mais il faut aussi passer par la conquête du pouvoir. La vocation groupusculaire, ce n’est pas la mienne ni celle des amis qui voteront avec moi la même motion.”
Come presentava Mitterrand questo partito a vocazione maggioritaria nella sua articolazione ideale?
“Je constate pour le moins que les Marxistes sont nombreux, les vrais et les faux, qu’il y a une tradition proudhonienne débordante, que les personnalistes d’Emmanuel Mounier sont, c’est l’occasion de le dire, Dieu soit loué, parmi nous….
Eh bien, si nous sommes réunis ce matin, c’est notre fête à tous, nous tous qui sommes venus pour bâtir le socialisme.”
Il punto è che il termine socialismo in quel contesto era qualcosa da costruire, qualcosa in avanti, non era un’annessione a nessuno, perché nessuna delle componenti di partenza aveva quella denominazione: quella maggiore aveva una denominazione ancora più arcaica di classe, Sezione Francese dell’Internazionale Operaia. Non è peraltro un caso se nessuno dei due leaders storici che abbiamo citato fin qui fossero ‘socialisti’ in senso tradizionale: Miteerrand era un repubblicano e Delors veniva dalla sinistra del disciolto partito democristiano Mrp.
E’ per questo che, invece, dovendo costruire oggi uno schieramento nuovo e più ampio si usino termini potenzialmente più comprensivi, come “democratico” o “en marche” che non sono mai quelli di ieri. Con la giusta adesione al Pse, troppo a lungo ritardata, il Pd non intendeva aderire passivamente a qualcosa di chiuso e predeterminato, ma mettersi in una rete per allargarla ulteriormente di fronte alle sfide nuove che richiedono strumenti nuovi.
Non so perché Macron abbia scelto “En marche” e Renzi quasi simultaneamente “in cammino”, ma forse in modi diversi hanno avvertito in chiave politica quell’esigenza di discontinuità di strumenti, sia pure in una crta continuità ideale, che il poeta antifranchista esiliato Antonio Machado così descriveva:
“Al andar se hace camino
y al volver la vista atras
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar…
Hace algun tiempo en ese lugar
donde hoy los bosques se visten de espinos
se oyo la voz de un poeta gritar:
” Caminante no hay camino,
se hace camino al andar…”
Golpe a golpe, verso a verso..
(Camminando si fa il cammino
e girando indietro lo sguardo
si vede il percorso che mai piu’
si tornera’ a percorrere..
Un tempo in questo luogo
dove ora i boschi si vestono di spine,
si udi’ la voce di un poeta gridare
” Viandante non esiste il cammino,
Lo si fa camminando…”
Passo dopo passo, verso dopo verso…
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