LA QUESTIONE DEI BUONI-LAVORO DEVE ESSERE AFFRONTATA IN MODO PRAGMATICO, SULLA BASE DI UNO STUDIO ATTENTO DEL MODO IN CUI HANNO FIN QUI FUNZIONATO – IN MATERIA DI APPALTI OCCORRE CHE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA RIACQUISTI LA PROPRIA CENTRALITÀ, ADEGUANDO LA DISCIPLINA ALLE ESIGENZE CONCRETE
Intervento nella discussione generale sul disegno di legge n. 2784, di conversione del decreto-legge n. 25/2017, svolto nella sessione antimeridiana del Senato del 19 aprile 2017 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico pubblicato sul Corriere della Sera del 25 marzo 2017, Chi ha paura del lavoro marginale?, e gli altri interventi raggiungibili attraverso i link proposti
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ICHINO (Pd) – Grazie, Presidente. La scelta del Governo di azzerare, con il decreto al nostro esame, la disciplina dei buoni-lavoro in funzione di una sua radicale riforma non può certo spiegarsi con l’entità della diffusione di questo strumento: i 134 milioni di buoni orari venduti dall’Inps nel corso del 2016, a fronte dei 43 miliardi di ore lavorate in Italia nello stesso anno, corrispondono all’incirca allo 0,3 per cento del totale: una frazione che non può in alcun modo considerarsi eccessiva, pur in riferimento al segmento del “lavoro accessorio”.
Questo non significa che non si siano verificati anche degli abusi. Su questo punto, però, chiedo a tutti i colleghi un piccolo sforzo per cercare, almeno per una volta, di accantonare quel tanto di faziosità che usualmente inquina i nostri dibattiti. Credo che tutti in quest’Aula, dall’estrema sinistra all’estrema destra, e anche i promotori del referendum, sarebbero pacificamente d’accordo su ciascuna di queste due affermazioni: A) “I buoni-lavoro producono un effetto socialmente negativo là dove consentono la trasformazione di lavoro regolare in lavoro sotto-standard, col conseguente abbassamento del trattamento della persona coinvolta”; ma per converso B) “I buoni-lavoro svolgono invece una funzione socialmente ed economicamente positiva là dove fanno emergere il lavoro nero, assicurando maggiore trasparenza e protezione per la persona coinvolta, oppure consentono un incontro fra domanda e offerta che altrimenti sarebbe impedito dai costi di transazione troppo elevati”. Se concordiamo su entrambe le affermazioni, il problema sta nello stabilire quale parte dei voucher utilizzati durante gli ultimi anni rientra nel caso A, e quale nel caso B. Perché è pacifico che nei fatti si siano verificati, in qualche misura, entrambi i casi. Compiuto questo accertamento, che le scienze sociali consentono di compiere con sufficiente precisione sia per quel che riguarda il quanto, sia per quel che riguarda il dove, intendersi sul che fare in modo pragmatico sarebbe molto facile.
Invece i promotori del referendum abrogativo hanno ritenuto di dover agire come se esistessero soltanto i casi A. E noi stessi assistiamo ancora una volta a un dibattito tra chi sottolinea soltanto i casi A, come se i casi B non esistessero, e chi dalla parte opposta sottolinea soltanto i casi B, come se non esistessero i casi A. Così perdiamo un’occasione nella quale si sarebbe potuto e dovuto procedere in modo pragmatico, razionale, fondato su di una capacità di conoscere e misurare i fenomeni economici e sociali: capacità che oggi è molto più sviluppata di quanto non fosse nel secolo scorso.
La speranza è che, archiviata la pars destruens di cui il decreto al nostro esame si fa carico, si attivi subito una pars construens, nella quale, oltre che l’esperienza italiana dei buoni-lavoro compiuta negli ultimi otto anni, si considerino attentamente le importanti esperienze che ci si offrono nel panorama internazionale, e soprattutto europeo, mirate a consentire e anzi favorire l’incontro fra domanda e offerta di quel “lavoro interstiziale” che mal sopporta i costi di transazione propri del lavoro regolare, ma che pure può svolgere un ruolo importantissimo per aumentare l’occupazione, la produzione di ricchezza, e dunque anche il benessere e la sicurezza delle famiglie. Penso, per esempio, ai servizi alla famiglia e alle comunità locali che in Francia vengono retribuiti – e in parte anche finanziati dallo Stato – con il sistema interamente digitalizzato degli chèques-emploi; o ai lavoretti di breve durata che in Germania hanno avuto un notevole sviluppo sotto l’etichetta dei mini-jobs.
“Con i voucher – ha scritto recentemente Michele Serra in una sua Amaca su Repubblica – la contraddizione padrone/lavoratore c’entra relativamente poco. La vera contraddizione da mettere a fuoco è, in questo caso, cittadino/burocrazia. Milioni di italiani […] sarebbero ben disposti a portare ‘in chiaro’ buona parte dell’esorbitante economia ‘in nero’, se fosse possibile farlo senza impazzire per gli obblighi burocratici, perdendo ore agli sportelli o ascoltando le musichette dei call center o tentando di compilare moduli indecifrabili. Esiste un’evasione per frode, gravissima, ma esiste anche un’evasione per sfinimento. Per pagare mezza giornata di lavoro non è possibile che sia richiesta un’altra mezza giornata di stalking burocratico. I voucher, in sé, sono moneta legale (ovvero fiscalizzata) che rimpiazza i loschi rotoli di banconote, pratica quotidiana dell’economia minuta. Se poi qualcuno ne abusa, o li utilizza al di fuori delle restrizioni di legge, sia punito. Ma è colpa sua, non dei voucher.”
L’auspicio è che la pars construens dell’intervento del Governo tenga conto di queste osservazioni, ispirate soltanto al buon senso.
Quanto alla materia – importantissima – degli appalti, nel giro di dodici mesi si è avuta l’entrata in vigore di un nuovo “codice” di cui già si discutono rilevanti modifiche, e ultimamente, con questo decreto, la soppressione improvvisa di due norme in materia di solidarietà passiva tra committente e appaltatore per i debiti di lavoro.
Questo essendo il livello di volatilità della legislazione del lavoro, è tempo che il sistema delle relazioni industriali si riappropri della funzione di fonte primaria della disciplina dei rapporti di lavoro per mezzo della contrattazione a tutti i livelli. Oggi l’ordinamento statale consente che questo avvenga: i contratti regionali e aziendali hanno il potere di sostituire qualsiasi norma di legge in materia di rapporti di lavoro, salvo soltanto il rispetto delle norme europee e costituzionali. Si può dunque pensare, per esempio, che di fronte al vuoto determinatosi nella disciplina legislativa in materia di appalti, o alle incertezze gravi in materia di lavoro intermittente, le associazioni imprenditoriali e sindacali maggiori si assumano la responsabilità di dettare la disciplina di queste materie stipulando al livello centrale altrettanti “protocolli” e assicurando a tutte le imprese che riterranno di farli propri la possibilità di stipulare contratti aziendali che ne recepiscano il contenuto. Come si è fatto nel 2012 con il protocollo per il settore dei merchandiser e promoter.
Oggi la pars construens dell’intervento legislativo su questa materia potrebbe favorire il recupero, da parte della contrattazione collettiva, del ruolo positivo che le compete, attribuendole esplicitamente il compito di definire contenuti e modalità della corresponsabilità solidale tra committente e appaltatore settore per settore e azienda per azienda. Certo, per questo occorre anche che la contrattazione stessa rialzi la testa e si assuma fino in fondo le proprie responsabilità.
Ma questo è un altro capitolo di questa vicenda, di cui auspicabilmente torneremo a occuparci nel prossimo futuro. Grazie, Presidente. (applausi dal gruppo Pd e dai senatori Buemi e Panizza)
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