Cause e sviluppi della crisi del modello della concertazione tra governo e parti sociali, nell’ultimo quindicennio
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Intervista rilasciata ad Arianna Tassinari, dottoranda in Relazioni Industriali presso l’Università di Warwick, nell’ambito del suo progetto di ricerca su “Concertazione, dialogo sociale e politiche pubbliche in Italia, 2008-2017”, aprile 2017 – In argomento altri documenti e interventi sono reperibili nella sezione Sindacato di questo sito .
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I. Natura del rapporto tra governi e parti sociali prima e dopo la crisi
Professor Ichino, qual è la sua valutazione di merito sui risultati prodotti nel campo delle politiche del mercato del lavoro e del welfare dalle dinamiche di concertazione tra governi e parti sociali che hanno caratterizzato i processi di riforma del mercato del lavoro e del welfare negli anni ’90?
A dire il vero, la mia impressione è che il sistema delle relazioni industriali negli anni ’90 si sia occupato ben poco dell’esigenza di promuovere politiche attive del lavoro e in particolare politiche volte a innervare il mercato del lavoro di una rete di servizi efficienti. Anche perché nel movimento sindacale era ancora dominante la posizione di difesa del monopolio statale del collocamento e il rifiuto del lavoro temporaneo tramite agenzia (sulle radici di questo modo di atteggiarsi del movimento sindacale sulla questione di servizi al mercato del lavoro rinvio ai miei scritti Il collocamento impossibile, De Donato, 1982, e Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro, ne I servizi per l’impiego, con Alessandra Sartori, Cedam, 2912). Il profondo mutamento normativo recato dal “pacchetto Treu” del 1997 è stato favorito molto più dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea che dai contenuti della concertazione.
Diversi studiosi delle relazioni industriali e delle politiche pubbliche parlano di un ‘declino della concertazione’ come modalità di negoziazione e implementazione delle riforme strutturali, in particolare dall’inizio della crisi in avanti. Secondo lei questa è una diagnosi accurata?
A me sembra che il declino della concertazione sia incominciato nel 2001, con la frattura tra Cgil da una parte e Cisl-Uil dall’altra in riferimento all’accordo proposto dal Governo di centrodestra. Di fatto questa frattura ha indebolito il fronte sindacale di fronte al Governo, consentendo a quest’ultimo di depotenziare il “tavolo” Governo-sindacati, derubricandolo da concertazione a “dialogo sociale”. Però va riconosciuto a Cisl e Uil un ruolo positivo nell’accordo con il Governo che ha costituito la premessa per la Legge Biagi del 2003.
È desiderabile un superamento della concertazione come modalità di definizione delle politiche pubbliche?
La concertazione può costituire uno strumento utile e dare “una marcia in più” al Governo; ma a una condizione: che ci sia piena condivisione tra il Governo stesso e le associazioni sindacali e imprenditoriali circa gli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare. Se questa condivisione non c’è o c’è soltanto con metà del movimento sindacale – come accade nel caso italiano negli ultimi due decenni –, la concertazione intesa alla maniera degli anni ’90 come necessità del consenso di tutti significherebbe soltanto attribuire a una parte delle associazioni sindacali (o imprenditoriali) un potere di veto, che non gioverebbe certo alla necessaria incisività ed efficacia dell’azione del Governo.
Secondo lei, in che modo la congiuntura della crisi ha avuto un impatto sulle dinamiche e modalità di interazione fra governi e parti sociali in Italia?
La crisi in Italia ha travolto definitivamente gran parte dei vecchi riti nei rapporti tra Stato e sistema delle relazioni industriali; e ha indotto quest’ultimo a rivedere incisivamente il sistema della contrattazione collettiva, in particolare i rapporti tra contratto nazionale e contratto aziendale, con l’accordo interconfederale del 2011.
Qual è la sua valutazione riguardo all’impatto del processo di integrazione europea e delle politiche dell’Unione Europea e della BCE sulle dinamiche di concertazione e dialogo sociale in Italia dall’inizio della crisi in avanti?
Il processo di integrazione europea ha privato lo Stato di “una moneta di scambio” utilizzata molto largamente nella negoziazione con le parti sociali, nella seconda metà del secolo scorso: gli aiuti alle imprese, sia nella forma dei “fondi di dotazione” alle imprese a partecipazione statale, sia in forma di credito agevolato, di agevolazione fiscale o di appalti pubblici. E lo ha privato di una leva molto importante di governo dell’economia, che è stata accentrata alla BCE: quella della politica monetaria; questo ha, in qualche misura, prosciugato l’acqua in cui nella seconda metà del secolo scorso aveva per così dire “nuotato” la concertazione.
Come descriverebbe l’approccio dei diversi esecutivi che si sono alternati dall’inizio della crisi nel 2008 ad oggi nei confronti delle parti sociali (sindacati e associazioni datoriali)? A quali fattori imputa la differenza negli atteggiamenti adottati dai vari esecutivi?
Il Governo Monti ha seguito una politica del doppio binario: esclusione totale del confronto con le associazioni sindacali e imprenditoriali nella fase della riforma pensionistica (novembre-dicembre 2011), dialogo nella fase della riforma del lavoro (febbraio-giugno 2012). Il Governo Letta ha proseguito la fase del dialogo, mentre il Governo Renzi ha ricalcato in qualche modo l’andamento del Governo Monti: una prima fase di esclusione pressoché totale del confronto nella prima fase della riforma del lavoro (marzo 2014-marzo 2015) e ripresa del dialogo nella seconda fase della riforma (seconda metà del 2015) e nel periodo successivo.
Sulla base della sua esperienza di Senatore e membro della Commissione Lavoro, mi può spiegare come si manifesta in pratica l’attività di lobbying e di influenza sul processo parlamentare di sindacati e associazioni datoriali?
La forma istituzionale di questa attività volta a influenzare le decisioni del Parlamento è costituita dalle “audizioni”, che sono delle sedute della Commissione nel corso delle quali un rappresentante del sindacato o dell’associazione datoriale risponde alle domande che gli vengono poste dal presidente e dai membri della Commissione stessa, esponendo le posizioni e le richieste della propria organizzazione. In realtà, però, l’attività più efficace, mirata a esercitare una influenza sulle decisioni legislative, è quella che sindacato e associazioni datoriali svolgono “sotto traccia”, o “per linee interne”, attraverso i contatti dei loro esponenti con i parlamentari amici e, soprattutto, con i membri del Governo o degli staff ministeriali con cui hanno rapporti più stretti.
II. Riforme del mercato del lavoro dall’inizio della crisi a oggi
Dalla sua prospettiva di Senatore e membro della Commissione Lavoro al Senato, vorrei farle qualche domanda riguardo alle dinamiche di confronto tra governi e parti sociali nell’implementazione delle due principali riforme del mercato del lavoro negli ultimi anni: la cd. Riforma Fornero (Legge 92/2012) e il cd. Jobs Act. Incominciamo dalla riforma Fornero. Qual è il suo giudizio sul modo in cui fu gestito il processo di confronto con le parti sociali dal Governo Monti durante la formulazione della cd. riforma Fornero? Perché secondo lei il Governo Monti, dopo i primi mesi, optò per un processo di confronto intenso con le parti sociali?
Il Governo Monti si è insediato in una situazione di emergenza gravissima della finanza pubblica, con il rischio incombente di un default che avrebbe avuto conseguenze disastrose per tutti, e probabilmente più gravi per la parte più debole della popolazione. In quella situazione, la sola via praticabile per evitare il default, e allo stesso tempo per consentire che le istituzioni europee facessero la loro parte (istituzione del Fondo Salva-Stati, politica incisiva di sostegno “non convenzionale” da parte della Banca Centrale Europeo), consisteva nell’adozione delle misure draconiane che il Governo adottò in tempi strettissimi nel novembre-dicembre 2011. In quella situazione, per un verso la non consultazione dei sindacati costituiva un elemento simbolico del contenuto emergenziale e straordinario delle misure adottate, utile per l’immagine del Paese agli occhi delle istituzioni europee; per altro verso, i sindacati stessi avevano interesse a non essere consultati, per non essere costretti a dare il loro consenso a quelle misure, oppure ad assumersi la responsabilità gravissima di contrastarle.
In che modo influirono in quella fase le diverse sigle sindacali e le associazioni datoriali sul processo di approvazione e sul contenuto finale della riforma? Quali sono le aree di policy su cui pesò di più il ‘veto’ o l’opposizione delle parti sociali?
Nella prima fase – novembre-dicembre 2011 – l’influenza delle associazioni imprenditoriali e sindacali fu nulla, anche per la rapidità con cui la riforma pensionistica venne confezionata e varata. Dal febbraio-marzo 2012 invece la loro influenza incominciò a farsi sentire di più. Non tanto sulla materia, pur cruciale, della disciplina dei licenziamenti, sulla quale il negoziato si svolse quasi esclusivamente tra il Governo e le forze politiche che lo sostenevano, quanto su quella degli ammortizzatori sociali e della Cassa integrazione in particolare.
È vero che ci furono modifiche apportate alla proposta iniziale sulla riformulazione dell’articolo 18 a seguito dell’opposizione espressa dalla CGIL e di certe componenti del PD? In che modo si manifestò e che peso effettivo ebbe questa opposizione?
L’opposizione della Cgil c’era, sì, ma fu il segretario del Pd Bersani a farsi portatore delle istanze di tutta la sinistra di fronte al Governo. La soluzione finale scaturì da una trattativa serratissima che si svolse nella tarda sera del 23 marzo 2012 a Palazzo Chigi, sotto gli occhi del Presidente del Consiglio Monti, tra la ministra Fornero e i segretari dei tre partiti maggiori della maggioranza: Alfano, Bersani e Casini. In quell’occasione Bersani, con molta determinazione, ottenne che si applicasse la reintegrazione anche nel caso in cui il giudice ritenesse il motivo addotto dall’imprenditore a sostegno del licenziamento “inesistente”, oppure non corrispondente ai casi di mancanza punibile con la massima sanzione previsti dal contratto collettivo applicabile.
Come si svolse invece il confronto con le parti sociali sul tema della riforma degli ammortizzatori sociali? Quali erano le differenze di posizione tra il governo e le parti sociali?
Sul principio generale per cui la Cassa integrazione non può essere utilizzata per mascherare situazioni in cui la ripresa del lavoro non è ragionevolmente prevedibile, c’era un consenso abbastanza generale. Così pure sulla necessità di rafforzare e rendere più duraturo il trattamento economico di disoccupazione. Però sindacati e organizzazioni imprenditoriali ottennero, in considerazione della crisi economica gravissima perdurante, che venisse prorogata la possibilità di attivazione della “Cassa integrazione in deroga”, cioè erogata in situazioni in cui ogni limite di durata del trattamento è stato superato, oppure addirittura è mancata qualsiasi contribuzione. Ancora oggi, a cinque anni di distanza, non ce ne siamo del tutto liberati.
Perché secondo lei il governo Monti non riuscì ad ‘elevarsi’ del tutto al di sopra delle pressioni esercitate dalle parti sociali nel determinare il contenuto finale della riforma del mercato del lavoro?
Perché neppure un Governo “tecnico”, qual era quello di Monti nel 2011-12, riesce a fare del tutto a meno del consenso delle grandi associazioni che rappresentano milioni di persone. Per altro verso, per tirare dritto senza guardare in faccia nessuno occorre anche avere le idee chiarissime sulle riforme che si vogliono realizzare; mi sembra, invece, che il Governo Monti avesse le idee chiarissime soltanto sulla riforma pensionistica; su tutto il resto non aveva avuto il tempo per chiarirsele del tutto.
Secondo lei, che tipo di impatto – positivo o negativo – ebbe il confronto instaurato con le parti sociali sul contenuto finale della riforma?
È difficile dire se quel po’ di confronto che c’è stato ha avuto un impatto positivo o negativo, non conoscendo se ci fosse e quale fosse il disegno originario che quel confronto avrebbe modificato.
Veniamo al Jobs Act. Il governo Renzi fu criticato da alcuni per l’approccio verso le parti sociali che adottò durante la stesura e il processo di approvazione del Jobs Act, in termini di mancato coinvolgimento e confronto con i sindacati. Qual è la sua opinione al riguardo? E quali erano le ragioni che portarono il governo Renzi ad adottare un approccio di ‘rottura’ così forte nei confronti dei sindacati?
Una parte non secondaria della ragion d’essere politica della riforma del lavoro del 2014-2015 stava nel fatto che essa costituiva il presupposto di una recuperata affidabilità dell’Italia, e di un conseguente maggior potere negoziale del Governo italiano, nei confronti della Commissione UE e dei partner europei maggiori, la Germania innanzitutto. Questo era ciò di cui il premier aveva bisogno, e questo è ciò che effettivamente ha ottenuto. Ma perché questo potesse accadere era in qualche misura indispensabile che la riforma venisse varata senza sottoporla a negoziazione con le organizzazioni sindacali.
Secondo lei questo atteggiamento ha giovato al consenso ottenuto dal governo Renzi?
In una parte dell’elettorato sì, in un’altra parte dell’elettorato no.
Quale impatto ebbero le manifestazioni di opposizione al Jobs Act portate avanti da CGIL e UIL alla fine del 2014 sulle decisioni del governo e sull’iter parlamentare della riforma?
Ebbero un impatto molto scarso.
A cosa imputa le differenze di posizione adottate dalla CISL rispetto alle altre sigle confederali?
La Cisl ha assunto un atteggiamento molto più aperto nei confronti dei contenuti della riforma del lavoro varata dal Governo Renzi, perché nel DNA della Cisl non c’è la stessa fede nell’onnipotenza della legge come strumento per la protezione dei lavoratori, che da mezzo secolo anima la Cgil e in parte anche la Uil. Non si deve dimenticare che negli anni ’60 la Cisl si spinse ad avversare la legge sui licenziamenti del 1966 e lo Statuto dei Lavoratori del 1970, non perché non ne apprezzasse i contenuti, ma perché riteneva che quei contenuti dovessero essere promossi mediante la contrattazione collettiva e non mediante la legge: il suo motto era “il nostro Statuto è il Contratto”.
Quale fu invece la natura del rapporto instaurato dal governo con Confindustria e con le altre associazioni datoriali durante la stesura e l’approvazione del Jobs Act? Ci fu un confronto con le associazioni datoriali sulle loro preferenze di policy? Quali erano le line di convergenza o di disaccordo?
Dei contatti ci sono stati. Ma i contenuti della riforma più graditi a Confindustria, in particolare la nuova disciplina dei licenziamenti, non furono conseguenza di sue pressioni: Palazzo Chigi avrebbe battuto quella strada anche se Confindustria non ci fosse stata del tutto o se ne fosse stata del tutto zitta. Del resto, la stessa Confindustria non ha gradito affatto l’ulteriore giro di vite che è stato dato per limitare l’uso della Cassa integrazione nelle crisi occupazionali aziendali.
Come mai il governo Renzi scelse di non esercitare la delega sul salario minimo e di non intervenire per via legislativa sulla riforma del modello di relazioni industriali? Ci fu una volontà di rispettare l’autonomia delle parti sociali in questi ambiti?
Esercitare quella delega comportava la soluzione di una serie di problemi niente affatto facili. Il primo era costituito dalla scelta dell’entità del salario minimo orario: se si voleva evitare di provocare perdite importanti di occupazione regolare in alcuni settori, come quello del lavoro domestico, o quello del bracciantato agricolo, soprattutto nel Mezzogiorno del Paese, occorreva fissare lo standard al di sotto dei 6 euro orari. Ma un minimo così basso avrebbe rischiato di costituire, soprattutto al Nord, un invito per molte imprese a scollegarsi dal sistema del contratto collettivo nazionale assumendo come parametro retributivo il salario minimo legale, molto più basso dei minimi tabellari. Per evitare o limitare questo rischio, sarebbe stato necessario infrangere il tabù dello standard retributivo minimo uguale per tutto il territorio nazionale, indicizzando il salario minimo al costo della vita di ciascuna regione. Ma neppure un Governo decisionista come il Governo Renzi si è sentito di compiere questo passo.
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