UNA PARTE MAGGIORITARIA DEL PAESE AVVERSA OGNI VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE (PROPRIE E ALTRUI), PER PAURA CHE I VALUTATORI SBAGLINO; NON SI RENDE CONTO CHE, ABOLENDO LE VALUTAZIONI, LO SBAGLIO È SICURO E PIÙ GRAVE: SI HA LA CERTEZZA DI INVESTIRE SU PERSONE MENO COMPETENTI DI QUELLE CHE SAREBBERO DISPONIBILI
Articolo di Andrea Ichino ed Enrico Cantoni pubblicato sul Corriere Economia del 3 aprile 2017 – In argomento v. anche, di Andrea Ichino, I frutti velenosi dell’avversione dei professori per i test Invalsi .
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Una parte forse maggioritaria del Paese sembra preferire il «6 politico» alla misurazione delle capacità e delle competenze delle persone, per decidere che cosa esse possano o non possano fare. È una preferenza che, sempre più spesso, sembra riflettersi anche nell’operato del Governo. I bocciati ai concorsi per diventare insegnanti vengono assunti come se la bocciatura fosse un fatto del tutto irrilevante. Un consenso bi-partisan consente che manager competenti siano sostituiti con amici dei potenti di turno. Il test Invalsi — ovvero l’unico strumento disponibile per confrontare l’apprendimento degli studenti sul piano nazionale, quindi l’efficacia dell’attività di scuole e insegnanti — rischia di essere reso inservibile dalla scelta di occultarne i risultati. Sono solo gli esempi più recenti di una lunga serie di episodi nei quali chi ci governa ha deciso di considerare il merito o il demerito di chi è candidato a rivestire un certo ruolo come un optional. Anzi, come qualcosa che è meglio non prendere in considerazione. Perché la valutazione dei meriti individuali è temuta come una prassi che può condurre a decisioni sbagliate? Che conseguenze ha questa paura per il nostro Paese? Come mai pochi taxisti riescono a imporre a tutti la difesa delle loro rendite, mentre chi avrebbe tutto da guadagnare da un sistema che valorizzasse i suoi meriti non protesta? Tralasciando le ragioni impresentabili di questo timore, è possibile individuarne una legittima.
Errori
Ogni valutazione è soggetta a due tipi di errori. Il primo, è quello di considerare meritevole una persona che meritevole non è. Il secondo è quello di considerare non meritevole una persona che invece meritevole è. Gli italiani sembrano considerare come gravissimo e inaccettabile il secondo errore, mentre il primo appare trascurabile. In altre parole, non è la fine del mondo se un incompetente viene ammesso a svolgere un certo lavoro, ma non si deve permettere che un meritevole venga escluso: in dubio, pro reo, ovvero pro candidato. Quindi, poiché tra i bocciati ai concorsi per diventare insegnante potrebbero esserci dei candidati meritevoli, una sanatoria è dovuta. Anzi, a ben vedere, meglio ancora sarebbe stato un concorso senza alcuna valutazione dei meriti, basato solo su anzianità e carichi di famiglia.
Bocciature
Questo modo di ragionare è legittimo, ma trarne la conclusione che evitare ogni selezione dia risultati migliori di quelli basati su una valutazione attenta delle capacità e delle competenze ha un costo molto elevato per la collettività. Rischia infatti di aumentare il numero di persone meno dotate per il lavoro che svolgono rispetto ad altre disponibili. È questo, ad esempio, il caso degli insegnanti bocciati nei concorsi, ai quali sarà affidato il compito di creare il capitale umano per il futuro del nostro Paese. I sistemi scolastici che funzionano bene sono quelli nei quali solo candidati meritevoli e selezionati sono ammessi a insegnare e ad essi (non a chiunque) sono pagate retribuzioni elevate proprio per incentivarli a candidarsi e per poi valorizzarne i meriti. La scelta italiana, invece, è pagare poco un numero eccessivo di insegnanti mal selezionati e male allocati rispetto alle esigenze delle diverse aree del Paese.
Aiuto, il contesto
La rilevanza del contesto sociale viene spesso menzionata come la principale ragione per cui la valutazione dei meriti individuali può commettere errori inaccettabili. Si teme, ad esempio, che chi proviene da contesti disagiati non abbia le stesse chance di emergere se la valutazione non sconta opportunamente questo svantaggio sociale di partenza. Ma è vero anche il contrario: la misurazione oggettiva delle capacità e delle competenze può essere l’unico strumento a disposizione di chi non gode di altri appoggi per dimostrare quanto vale. Soprattutto in un Paese nel quale i contatti familiari e gli scambi di favori governano le assunzioni assai più dei meriti.
L’immobilismo
Ma allora, perché nessuno protesta? Perché i candidati promossi che hanno studiato a lungo per superare il concorso non fanno una manifestazione a Roma per protestare contro un concorso cui sono stati sottoposti ma che in realtà non serviva a nulla? La ragione più probabile è che chi sa e vuole far bene il proprio lavoro, pensa a farlo e non a perdere tempo in proteste con bassa probabilità di successo. E quando la situazione diventa insostenibile, chi si sente maltrattato senza speranza preferisce l’opzione «exit» (andarsene) piuttosto che la «voice» (protestare), per usare il paradigma di Hirschman. Sembra che la pensino così i giovani italiani che stanno lasciando il Paese.
Della meritocrazia (e di altri danni)
Meritocrazia è una parola controproducente: valorizzare il merito non significa dare potere a chi ha merito. Vuol dire, invece, utilizzare meglio le persone per aumentare la dimensione delle risorse a disposizione della collettività. Chi preferisce meno risorse perché teme una loro divisione iniqua sbaglia, perché per evitare le iniquità può essere utilizzata la leva fiscale. Inoltre chi coltiva questa preferenza è destinato a ritrovarsi abbandonato da chi preferisce far riconoscere i propri meriti altrove. C’è chi accusa questo Governo di tirare a campare senza fare molto. Sembra vero il contrario: come l’acqua cheta che rovina i ponti, la tendenza al quieto vivere, allo smussare gli spigoli a tutti i costi, soprattutto con i sindacati, di danni ne sta facendo moltissimi.
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