UNA LEZIONE SULLA FECONDITA DEL (PROPRIO) SACRIFICIO
Scritto in occasione del convegno che si è svolto a Roma il 6 aprile 2017, per la presentazione del libro di Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, con la partecipazione anche di Adele Corradi – In argomento v. anche, su questo sito, Ritorno a Barbiana .
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1. Due libri gemelli – A cinquant’anni dalla morte, uno dei primi allievi della scuola di Barbiana propone oggi un nuovo racconto della vita di don Lorenzo Milani; ma non è una sua biografia come le tante altre che sono andate accumulandosi in questo mezzo secolo. È un racconto costruito interamente sulla base del ricordo di una stagione straordinaria che l’allievo ha vissuto vicino al maestro come a pochissimi altri è stato dato viverla; e, per la parte precedente alla nascita della scuola di Barbiana, sulla base delle cose, anche intime, ascoltate direttamente dalla sua bocca (Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, Edizioni San Paolo, 2016). Conosco un solo altro libro dalle cui pagine emerga l’immagine vivida e vera di questo profeta del ’900 dal vivo, con tutta la forza abrasiva, scarnificante, della sua predicazione quotidiana, con l’aggressività e la spigolosità del suo carattere, con il suo modo peculiare di vivere la fede nella fecondità del proprio sacrificio personale: è il libro di Adele Corradi (Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, 2012). Indispensabile questo nuovo come quello di quattro anni fa per chiunque voglia conoscere da vicino e non in modo agiografico il priore di Barbiana in carne e ossa. Con in più l’emozione di vivere con lui alcuni passaggi cruciali della sua vita, come se lui stesso li stesse raccontando.
Nella seconda parte di queste note propongo al lettore alcuni dei brani del libro nei quali sembra, appunto, quasi di leggere un racconto di don Lorenzo in prima persona. Ma prima vorrei provare ad aggiungere al grande mosaico dei ricordi “in presa diretta” costituito dai libri di questi suoi due grandi discepoli le poche e marginalissime tessere dell’esperienza che accadde a me, adolescente, di fare della presenza di don Lorenzo nella mia famiglia durante l’ultimo decennio della sua vita.
2. La scuola di Barbiana a Milano – A cavallo tra la fine degli anni ’30 e i primi ’40 Lorenzo Milani era stato molto legato a una cugina di mia madre, Carla Sborgi, con la quale condivideva l’amore per la pittura. Mia madre e suo fratello Gianluigi Pellizzi lo avevano dunque conosciuto frequentando Carla, e avevano nutrito verso di lui simpatia – “un bellissimo ragazzo, alto, con un gran ciuffo nero sulla fronte, sempre vestito in modo elegante, ma sempre senza spocchia, allegro e cordialissimo”, lo descriveva mia madre –, anche se tra loro due e lui non ne era nata una amicizia particolarmente intensa. Poi all’improvviso, verso la fine del ’43, lui si era separato da Carla – che ne aveva sofferto non poco – per entrare in seminario a Firenze. E da allora mia madre ne aveva perso le tracce. Nel ’57 Carla le fece avere Esperienze Pastorali, uscito l’anno prima. Lei lo lesse d’un fiato facendolo subito leggere anche a mio padre; e ne rimasero entrambi fortemente colpiti. Convinta che quel libro segnasse una pietra miliare nella storia della Chiesa italiana, ne acquistò direttamente dall’editore duecento copie per farle avere come regalo di Natale agli amici e amiche dei gruppi del Gallo, di Adesso, e di Rinascita Cristiana, dei quali era parte attiva. L’editore informò di questo acquisto di dimensioni inconsuete l’autore, che nel frattempo era già stato esiliato dal Cardinal Dalla Costa a Barbiana; e lui subito scrisse all’amica ritrovata. Così si ristabilì il contatto tra di loro. Si scoprirono molto cambiati rispetto a quindici anni prima; ma constatarono una forte sintonia sul terreno dell’impegno sociale ed ecclesiale.
Da allora i miei genitori offrirono a don Lorenzo tutto l’appoggio che potevano. E lui non mancò di avvalersene, chiedendo l’invio di ogni genere di materiali per la sua scuola: libri, strumenti scientifici, abbonamenti a quotidiani e riviste. Mai soldi. L’anno dopo chiese ospitalità per una decina dei suoi ragazzi, che intendeva portare in visita di istruzione a Milano. Quando vennero – nell’inverno 1958 – avevo nove anni. Le mie sorelle Maria Paola e Giovanna furono spedite a dormire dai nonni e in casa nostra furono messi molti materassi per terra dappertutto: nelle nostre due stanze, in guardaroba, e persino un paio nel lungo corridoio.
Ricordo il loro arrivo una sera, dalla stazione centrale. Don Lorenzo era entrato in casa per primo, salendo con l’ascensore – stavamo al quarto piano – caricandovi le valigette e borse di tutti, ma aveva fatto salire loro per le scale; così i dieci ragazzi arrivarono su alla spicciolata con il fiato grosso. Li ricordo tutti intorno al grande tavolo fratino della nostra sala, mentre la mamma ammanniva loro la cena e cercava di farli parlare della loro vita e della “scuola del priore”. Il quale fu poi ospitato per la notte da Elena Brambilla Pirelli, un’altra sua sostenitrice milanese, la cui vita sarebbe stata segnata profondamente dalla sua predicazione.
3. La pena di morte in fabbrica – Nei giorni seguenti, nei quali fui autorizzato ad aggregarmi al gruppo saltando la scuola ordinaria, il pezzo forte del programma fu la visita alla fabbrica della Pirelli Bicocca. Anche per me era la prima volta che entravo in una fabbrica di grandi dimensioni. Fu un giro lungo e impegnativo. Proprio in quei giorni in fabbrica si discuteva molto del licenziamento di un operaio, che era stato scoperto ad accendere una fiamma in un lavandino o, secondo un’altra versione, a fumare in un bagno; sentii discutere la cosa con grande calore: don Lorenzo chiedeva ai sindacalisti perché non fosse stato proclamato uno sciopero di protesta, loro si schermivano dicendo che effettivamente la cosa era abbastanza grave perché la fabbrica era piena di gomma e qualsiasi fuoco era vietatissimo, per evitare un incendio che avrebbe distrutto tutto in un attimo.
Sulla via del ritorno, nel pulmino che ci riportava a casa, il priore ci diceva: “per un operaio il licenziamento è come la pena di morte; pensate ai suoi figli, quando lui torna a casa e gli dice che da domani non c’è più da mangiare; dovrebbe essere vietato licenziare, anche per una mancanza grave; puoi dargli una multa, sospenderlo, ma il lavoro non glielo puoi togliere. Mai.” Quelle parole mi sono risuonate nella testa a lungo; e quando, solo sette anni dopo, vidi emanare la legge sui licenziamenti, che li consentiva soltanto per un motivo giustificato, pensai che a don Milani quel passaggio non sarebbe bastato: lui riteneva che non potesse esistere alcun motivo così grave da giustificare il licenziamento di una persona. Non avrebbe giudicato sufficiente neppure l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, destinato a entrare in vigore qualche anno dopo.
A quell’epoca l’economia era ancora molto statica, le assunzioni erano per tre quarti a tempo indeterminato essendo i vincoli al licenziamento molto ridotti, il dualismo tra stabili e precari era ancora di là da venire, la teoria del conflitto di interessi tra insider e outsider doveva attendere ancora vent’anni prima di vedere le sue prime formulazioni. E l’indennità di disoccupazione era di trenta lire al giorno, per una durata di poche settimane. Il mondo di allora era davvero diversissimo da quello attuale. Anche in riferimento al contesto di allora, comunque, attribuire a don Milani la teorizzazione di un ordinamento del lavoro che quindici anni dopo sarebbe stato classificato come un regime di job property, sarebbe come oggi attribuire a Papa Francesco la teorizzazione di un regime economico-sociale di tipo comunista. La predicazione di don Milani, come quella di Papa Francesco, non si colloca sul piano della politica economica, ma su quello dell’etica sociale; ed è su questo piano che essa conserva tutta la propria attualità.
4. Scuola di scrittura “senza belletto” – Uno di quei giorni la mamma diede a don Lorenzo da leggere un mio tema, non mi ricordo su quale argomento, ma sicuramente scritto secondo i dettami che mi venivano quotidianamente impartiti: dunque cercando di aumentare il colorito della scrittura con gran sfoggio di aggettivi e avverbi. Dopo averlo letto, lui mi disse: “Scrivi bene, ma usi troppi aggettivi; gli aggettivi sono come il belletto che usano le donne per sembrare più belle; se vieni a Barbiana ti insegno a scrivere acqua e sapone, andando al cuore delle cose, senza belletto”. Quella sua critica mi rimase impressa, sia perché mi era stata rivolta davanti ad alcuni dei suoi allievi, dei quali in quel momento invidiai segretamente ancora di più il privilegio di essere tali; sia perché mi resi improvvisamente conto di quanto frivolo fosse quel mio modo di scrivere, mirato innanzitutto a fare sfoggio della mia padronanza della lingua invece che a dire le cose in modo chiaro e incisivo, mirato a fare la ruota con le parole come il pavone invece che a mettere le parole al servizio delle cose da dire, cioè andare direttamente al cuore delle cose stesse.
Trent’anni dopo avrei sentito rivolgere la stessa critica al modo in cui scrivevano alcuni studiosi di diritto del lavoro da un altro maestro, Giuseppe Pera: una persona lontana dal modo di vivere e di credere di don Milani, ma che di lui condivideva l’amore per il linguaggio semplice, chiaro ed essenziale.
5. L’extremum oltre il quale omnia sunt communia – Da allora in poi, per tutti gli otto anni che gli rimasero da vivere, don Lorenzo fu presente in modo forte, costante e onnipervasivo nella vita della nostra famiglia, non solo attraverso le lettere che scambiava con i genitori per raccontare quel che accadeva a Barbiana, o per chiedere l’invio di materiali didattici, oppure assistenza per i ragazzi che venivano o passavano dalle nostre parti, ma anche con le visite che sempre ci faceva quando veniva a Milano, con i reiterati inviti ad andare anche noi a Barbiana – che più volte accogliemmo –, e con l’invio dei suoi scritti prima ancora che venissero pubblicati: conservo ancora l dattiloscritti su carta-carbone della lettera ai cappellani militari del febbraio 1965 e della sua autodifesa dell’ottobre successivo nel processo per istigazione a delinquere in cui fu imputato per quella lettera: documenti entrambi che come i precedenti potemmo leggere in anteprima, con grande emozione e condivisione. Lo stesso accadde poco dopo per Lettera a una professoressa.
Eravamo affascinati dalla sua idea che la povertà peggiore consistesse nella deprivazione dell’istruzione, della capacità di esprimersi; e che dunque ai poveri dovesse essere restituita prima di tutto la parola. Ma eravamo anche profondamente interpellati dalla sua condanna della ricchezza, in quanto sottrazione del necessario ai poveri. E colpiti dalla radicalità del suo comunismo, predicato come imperativo morale in modo molto più incisivo di quanto non facesse il partito comunista. Don Lorenzo citava, a questo proposito, il passo di S. Tommaso secondo il quale in extremis omnia sunt communia, aggiungendo: “La questione sta tutta nello stabilire dove stia il limite dell’extremum”. Ci insegnava a vedere sempre nella sofferenza umana, e soprattutto in quella originata dall’ingiustizia sociale, l’extremum che mette in discussione le nostre avarizie; e ci invitava a stabilire quel limite, sul piano dell’etica individuale, in modo molto più severo di quanto esso possa e debba essere stabilito sul piano della politica economica e quindi del diritto statuale. Tutta la sua predicazione era volta a metterci di fronte all’evidenza di un extremum che era intorno a noi, facilmente visibile da chiunque non chiudesse deliberatamente gli occhi proprio per non vederlo.
6. Marchiato a fuoco – Lui, d’altra parte, non faceva nulla per attutire l’impatto contundente della sua predicazione: anzi, quanto più ci vedeva colpiti, tanto più affondava i suoi colpi. Mi ricordo ancora come fosse ieri la volta in cui volle segnarmi come con un marchio a fuoco. Un giorno, nella primavera del ’62, eravamo tutti – lui, i miei genitori, le mie sorelle e io – nel bel soggiorno della nostra casa milanese di via Giotto; e lui, a bruciapelo, mi disse, facendo un gesto circolare per indicare tutto quel benessere: “per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai ventun anni, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato” (i ventun anni allora erano la soglia della maggiore età).
Guardai i genitori, per capire come loro reagissero a questa invettiva, che, pur diretta a me, mi pareva riguardasse anche loro, e come! Li vidi scuri in volto, pensosi, ma non vidi nessun cenno da parte loro che potesse significare un dissenso. Questo di don Lorenzo non fu certo un suo atto isolato: tutti i suoi rapporti con noi erano improntati alla critica del tenersi le ricchezze, soprattutto dell’usare le proprie doti per coltivare il proprio benessere, mentre il prossimo soffre. Essa fu però il momento della sua predicazione nei miei confronti che poi mi rimase più impresso, e al quale continuai a riferirmi nel mio arrovellarmi per tutto il decennio successivo sul come liberarmi dei condizionamenti dell’ambiente in cui vivevo e mettermi in condizione di compiere la scelta moralmente giusta, per quanto scomoda essa potesse essere. Quella che mi indusse a lavorare per dieci anni nel sindacato, rifiutando di andare a lavorare nello studio legale di mio nonno e mio padre.
7. Don Milani “preconciliare” – Solo ora mi chiedo perché quella sua invettiva sia stata rivolta soltanto a me e non anche alle mie sorelle; e la risposta che mi do è che don Lorenzo era ancora in qualche misura legato al maschilismo di cui era impregnata la cultura della Chiesa di allora, del quale peraltro egli si liberò negli anni successivi, forse anche per le sollecitazioni rivoltegli in proposito da persone che stimava, tra le quali mia madre ed Elena Pirelli. La Chiesa se ne sarebbe liberata più tardi, soltanto in parte e certo non nella parte maggiore.
Adele Corradi, rispondendo nel suo libro a una perplessità sulla forte connotazione maschile della scuola di Barbiana espressa da Lidia Menapace e da Adriana Zarri, dà una spiegazione diversa, che certamente coglie un aspetto importante della realtà di quella scuola lontana da ogni altro abitato: “forse la Menapace e la Zarri non si sarebbero meravigliate che lassù non venissero bambine se avessero fatto con Enrico la strada da Campestri a Barbiana”. Questa osservazione non spiega, però, il fatto che don Lorenzo rivolgesse soltanto a me la sua invettiva e non alle mie sorelle Non credo, comunque, di sbagliare ricordando quello che lui stesso riconosceva apertamente: per alcuni aspetti, tra cui questo, la sua cultura era profondamente radicata in quella della Chiesa degli anni ’40 e ’50, della Chiesa preconciliare.
Nel frattempo, nel ’58 era stato eletto Papa il cardinale Angelo Roncalli, il quale aveva quasi subito indetto il Concilio Vaticano II, che si sarebbe aperto nel ’62. Erano anche gli anni dei primi governi di centro-sinistra, nei quali incominciavano ad aprirsi spazi via via più ampi di comunicazione e di contaminazione reciproca tra il mondo cattolico e il mondo socialista, ma anche quello comunista. A quel ribollire di idee nuove, nella Chiesa e nel mondo politico italiano, don Lorenzo, nel suo esilio di Barbiana, appariva estraneo: lui stesso diceva di sentirsene in qualche modo superato. Nella sua concezione della Chiesa era effettivamente rimasto indietro rispetto agli sviluppi conciliari; era, però, incommensurabilmente avanti, nel suo comunismo radicale sul terreno della scuola, non solo rispetto ai nuovi orientamenti della politica italiana segnati dall’accordo tra DC e PSI, ma anche rispetto alle posizioni del Partito comunista, il quale avrebbe atteso più o meno un decennio prima di riuscire a metabolizzare compiutamente le sue idee sulla scuola e arrivare a farle proprie.
8. Il dibattito circa l’“utilità” della lezione milaniana sulla scuola – Oggi si discute se quelle idee abbiano fatto bene o male alla scuola italiana, ed è giusto che se ne discuta. Mi sembra importante, soprattutto, recuperare l’essenza della lezione milaniana evitando di attribuire valore centrale ad alcuni passaggi della Lettera a una professoressa – come la polemica contro l’insegnamento della grammatica alle elementari e alle medie – che credo vadano considerati più come delle battute polemiche che come vere e proprie affermazioni di teoria della didattica. Anche a me accade di discuterne, in varie sedi; ma prima di entrare nel merito delle molte possibili letture e applicazioni dei precetti milaniani ricordo sempre che quando, nel 1959, entrai in prima media, alla scuola statale Giulio Cesare di Milano, in classe eravamo 31, con figli di operai e di portinai, e quando tre anni dopo terminai la terza media eravamo in 13, tutti appartenenti a famiglie della media o alta borghesia, 6 dei quali peraltro dovettero rifare a settembre gli esami di una o più materie.
È importante anche chiarire che il discorso di don Milani è un discorso riferito alla scuola intesa come diritto-dovere per la generalità dei bambini e ragazzi; e che però l’università è un’altra cosa: una università che non sappia essere fortemente selettiva in base al merito sul versante dei professori, e in qualche misura necessariamente anche su quello degli studenti, non è affatto uno strumento di mobilità sociale. Dà a tutti soltanto l’illusione di attingere i livelli superiori del sapere, senza consentire in realtà di attingerli neppure ai più meritevoli.
Ancora una volta, comunque, va ribadito – e il ribadirlo è un merito non secondario del libro di Michele Gesualdi – come la lezione di don Milani, prima che sul piano della didattica, si collochi sul piano etico e su quello teologico. A cinquant’anni di distanza questo libro sottolinea come i suoi insegnamenti fondamentali, niente affatto intaccati ma semmai rafforzati dal tempo, siano costituiti sul piano etico dal discorso sul dovere dei ricchi di “restituire” ai poveri i propri privilegi, primo fra tutti quello del sapere; sul piano teologico dal suo esempio di cristianesimo intransigente, di fede nella fecondità del sacrificio di sé, fino alla croce.
9. La passione di don Lorenzo, e la sua “resurrezione” – Questo della fede nella fecondità del sacrificio è il tema principale che innerva il racconto di Michele Gesualdi. Esso emerge una prima volta con forza nelle pagine centrali del libro dedicate all’attesa e poi all’accettazione da parte di don Lorenzo delle decisioni del Cardinale circa la sua destinazione, dopo la morte del proposto di San Donato di cui era stato coadiutore: la sua speranza di potergli succedere nella stessa parrocchia, la delusione alla notizia che quel compito era stato assegnato a un altro, l’attesa di una destinazione che ormai si profilava chiaramente come una punizione, infine la “bastonata durissima” della decisione che gli viene comunicata. Quella che gli viene assegnata non è più da tempo una parrocchia vera e propria, è una pieve spersa in mezzo alla montagna e quasi disabitata, dove non arriva neppure l’energia elettrica.
Don Lorenzo cerca Barbiana sulla carta geografica ma non la trova, capisce che quella località è niente. In quel niente veniva esiliato all’età di 31 anni. [… Ma lui] accetta Barbiana a scatola chiusa, senza neppure andare a vedere il posto.
(p. 137). Il racconto del suo arrivo nel “niente” a cui è stato destinato è sempre scritto in terza persona, ma chi legge percepisce che a parlare è chi quel momento ha vissuto in totale solitudine: è in realtà il discorso del protagonista in prima persona.
Lasciarono San Donato per Barbiana il 7 dicembre 1954. Era una giornata umida e piovosa che metteva tristezza. […] Nei pressi di Vicchio il camioncino si guastò e fu costretto a fermarsi per essere riparato. Don Lorenzo, che voleva arrivare di giorno a Barbiana, proseguì da solo facendosi accompagnare con una macchina che svolgeva servizio pubblico. L’auto salì per quella strada sconnessa e sterrata fino a quando si trasformò in un sentiero e don Lorenzo dovette continuare a piedi la ricerca della sua nuova chiesa. Intorno a sé niente, solo silenzio e bosco. […]
Mentre camminava verso la sua chiesa lottava in solitudine con la coscienza.
Nel frattempo il cielo si oscurò e si scatenò un violento temporale. Arrivò che era quasi buio, bagnato e infreddolito. Non c’era nessuno ad accoglierlo.
Entrò in chiesa, si inginocchiò nell’ultima panca vicino alla porta, pregò con la testa fra le mani. […]
Quando si rialzò era già un uomo diverso.
(pp. 140-142). In quel momento cruciale, nell’accettazione senza condizioni della mortificazione, si pongono le premesse del miracolo che farà di quel “niente” un punto di riferimento per mezza Europa. Ma perché questo possa avvenire occorre che don Lorenzo “sposi” la propria punizione, il proprio sacrificio. Egli dunque chiarisce fin dall’inizio che non considera Barbiana come il luogo di una pena da scontare per poi tornare alla vita normale: il luogo del sacrificio sarà al tempo stesso il luogo della salvezza, della redenzione. Qui il libro di Michele Gesualdi rivela un fatto di cui non mi sembra che si trovi traccia in alcun altro scritto precedente e che illumina di una luce particolare tutta la vicenda esistenziale di don Milani a Barbiana:
[…] da subito volle dare un segnale concreto che non era lì di passaggio, ma che quello sarebbe stato per sempre il suo luogo, nella vita e nella morte. Scese a Vicchio in bicicletta e andò in Comune a chiedere di acquistare il terreno per la tomba nel cimitero di Barbiana.
(p. 173). Fin dall’inizio don Lorenzo Milani non considera l’esilio come un incidente di percorso, ma al contrario come ciò che all’intera sua vita dà un senso e un valore; dunque ciò cui la sua vita è d’ora in poi totalmente dedicata. Non nel fuggire la croce, ma nell’accettarla e nello spendersi fino in fondo sta la salvezza. Michele Gesualdi ci avverte che questa tra le lezioni del priore di Barbiana è a ben vedere quella fondamentale, la più importante: più ancora dell’idea-forza sulla scuola come strumento di giustizia sociale, più ancora del suo amore sconfinato per i suoi ragazzi.
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