PRIMARIE ED ELEZIONE DIRETTA DEL PRESIDENTE UE, COMPETENZA (E BILANCIO) UE SU DIFESA, IMMIGRAZIONE E CONFINI ESTERNI, RICERCA E CONTRASTO ALLA DISOCCUPAZIONE NON STRUTTURALE, POLITICHE NAZIONALI CENTRATE SULL’OBIETTIVO DELL’INTEGRAZIONE CONTINENTALE: QUI STA IL DISCRIMINE FONDAMENTALE
Articolo di Enrico Morando per la presentazione della mozione congressuale di Matteo Renzi, pubblicato anche sul sito idemlab.org, marzo 2017 – In argomento v. anche gli altri interventi e documenti raccolti nel portale Il nuovo spartiacque della politica mondiale
La rivoluzione tecnologica e digitale ha creato le condizioni perché lo sviluppo del capitalismo prendesse come teatro non più lo Stato nazionale, ma l’intero globo terrestre.Gli strumenti sui quali la politica di sinistra ha fondato la sua capacità di fornire risposte alle contraddizioni e ai rischi più gravi – la malattia, la disoccupazione, l’ignoranza, la vecchiaia – sono venuti perdendo di efficacia. Piena occupazione, più stato sociale, più bilancio pubblico usato per contrastare le fasi di bassa crescita, uguale: maggiore efficienza economica, meno disuguaglianza. Queste solide basi della nostra politica erano tutte ben piantate sul terreno sicuro dello stato-nazione.
La globalizzazione, che consente a milioni di persone prima escluse di entrare nel processo di sviluppo – di nutrirsi, di vestirsi, di avere una casa – diffonde nelle nostre società paura ed incertezza.
Quella paura e quella incertezza che gonfiano le vele del nazionalismo populista: brexit, Trump, Le Pen, Salvini e Meloni…: erigere muri, barriere doganali, scavare solchi tra chi è dentro e chi è fuori.
Noi, forti dei nostri ideali di libertà, eguaglianza e solidarietà, dobbiamo sfidare in campo aperto il nazionalismo populista. Ma il compito non è svolto, se ci limitiamo a dire “apertura” dove loro dicono “chiusura”.
Dobbiamo fondere in un unico progetto soluzioni fondate su più libertà e più protezione. Solo se saremo capaci di “comprendere” le paure e le incertezze dei lavoratori, dei giovani e delle donne dei nostri paesi, potremo riproporci come sostenitori di una politica progressista che riprende il controllo della situazione.
Dunque, nel nuovo contesto, dobbiamo fornire una “organizzazione” al capitalismo globale, esattamente come abbiamo saputo fare nella seconda metà del novecento, nell’età dell’oro del secolo socialdemocratico.
Non c’è speranza per la sinistra che pretende che le risposte ai nuovi problemi siano nella riproposizione delle ricette del passato. Al massimo, riuscirà a testimoniare una generosa “diversità”, non a governare la realtà in nome dei nostri valori eterni. Il Partito Democratico è un grande partito riformista e popolare, non perché testimonia e protesta, ma perché “sa” vedere i problemi e “partecipa” della sofferenza delle vittime della globalizzazione. Si differenzia dai populisti non perché non vede e non condivide, ma perché va alla ricerca di soluzioni credibili e possibili, da costruire col lavoro politico. Loro, alla costante ricerca di colpevoli da esporre alla gogna; noi, alla testarda ricerca di cause vere e soluzioni possibili.
Europa prima di tutto. Se questo è il nostro compito, allora: “Europa prima di tutto”. La dimensione europea è quella che ci consente di candidarci credibilmente al governo della globalizzazione. Basta con l’inseguimento della destra antieuropea, dicendo le stesse cose, ma con tono più urbano: le politiche seguite in Europa nel corso della Grande Recessione sono sbagliate, e noi ci battiamo per cambiarle. Le abbiamo, in parte, già cambiate. Ma non è colpa dell’Europa se da anni la produttività totale dei fattori in Italia cresce meno della media dell’Area dell’Euro. Quindi, apriamo una nuova fase del processo di integrazione, avanzando tre proposte precise:
- Elezione diretta da parte dei cittadini europei del Presidente della Commissione. Preparata, per quello che riguarda il nostro partito, il PSE, da elezioni primarie per scegliere il nostro candidato. Primarie, da tenere già in occasione delle prossime elezioni europee, che possono assumere un carattere ri-costituente per quel partito del Socialismo Europeo cui abbiamo finalmente aderito – per iniziativa di Matteo Renzi – dopo una lunga fase di incertezza.
- Facciamo della costruzione dell’Unione politica l’asse dei programmi dei partiti del PSE alle elezioni in Francia, Germania e Italia, chiedendo agli elettori un mandato chiaro, da realizzare nei prossimi cinque anni.
- Procediamo attraverso una netta distinzione tra le politiche affidate alla competenza piena dell’Unione Federale, e politiche affidate alla cura degli Stati nazionali. In particolare: difesa, immigrazione e presidio dei confini esterni, investimenti infrastrutturali, ricerca, prelievo fiscale sui colossi dell’Web e dell’economia globale, contrasto alla disoccupazione non strutturale…, affidati alla competenza dell’Unione Federale, dotata di un bilancio più grande dell’attuale e fondato su entrate proprie.
Si può fare? È difficile, ma si può fare: ciò che avviene in Francia e Germania sembra testimoniare che quando il centro-sinistra riformista combatte a viso aperto – con orgoglio e fiducia nelle sue ragioni – contro il nazionalismo populista, può suscitare energie nuove e provare a vincere. Quindi: Europa prima di tutto, senza se e senza ma.
Proseguiamo la strada delle riforme. Naturalmente, non tutto dipende dalla svolta impressa all’Unione Europea. In Italia, dobbiamo proseguire sulla strada che abbiamo intrapreso col Governo Renzi: riforme strutturali, che possono favorire la crescita nel medio periodo; e interventi urgenti volti a sostenere i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Tra le prime, il Jobs Act e la decontribuzione straordinaria per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato (700.000 posti di lavoro in più, nonostante la crescita debole); la riduzione strutturale della pressione fiscale sul lavoro (80 Euro) e sull’impresa (IRES ridotta di 4 punti). La riforma delle banche popolari e di Credito Cooperativo. La Buona Scuola, con 3,5 mld in più stabilmente dedicati all’istruzione, rispetto al 2013.
Non dovrebbe essere impossibile che tutti – indipendentemente dalle nostre scelte congressuali – concorressimo a valorizzare questi risultati. Non fosse altro, per rendere chiaro che lo sforzo di cambiamento di domani poggia sulle basi solide del cambiamento già realizzato.
In ogni caso, noi non ci siamo pentiti di aver messo così tanta carne al fuoco delle riforme, rischiando di suscitare troppe reazioni, troppo concentrate nel tempo. Se un’autocritica possiamo farci, è quella di avere qualche volta rallentato il passo (es. Riforma del catasto). Quindi, dobbiamo rilanciare, prendendo nuovo slancio proprio grazie al Congresso.
Un grande partito a vocazione maggioritaria. Sì, perché non dobbiamo dimenticare che è stato un Congresso di partito, quello del PD del 2013, a ridare un senso e una ragione di essere ad una legislatura nata morta, con una maggioranza alla Camera, costruita solo per virtù del vituperato (giustamente) Porcellum, e nessuna maggioranza al Senato. Al nostro Congresso dobbiamo ora chiedere non solo di affrontare a viso aperto le ragioni delle difficoltà e delle sconfitte subìte – a partire da quella del 4 dicembre -, ma anche la definizione di soluzioni chiare sia per le questioni che la legislatura lascia irrisolte; sia per il posizionamento del PD in vista delle prossime elezioni politiche; sia, infine, per le promesse che abbiamo fatto agli italiani di centro-sinistra col nostro atto di nascita e non abbiamo mantenuto.
Questioni irrisolte: una legge elettorale ben funzionante. Noi una soluzione precisa l’abbiamo: Mattarellum sia alla Camera, sia al Senato. Perseguiamo questa strada, e costringiamo tutti rapidamente a prendere posizione. Col voto in Parlamento. Non a chiacchiere.
Posizionamento politico: “Noi ci sottraiamo a una discussione sul tema delle alleanze elettorali meramente politicista”. Non intendiamo dare corda a quanti hanno già cominciato: con noi, sì. Ma se c’è quell’altro, no.
Noi siamo e vogliamo restare un grande partito a vocazione maggioritaria, che presenta agli elettori un programma e una leadership di governo. Tutto il resto, è ritorno al passato, approfittando del risultato referendario.
La nostra mozione propone con assoluta nettezza l’identificazione tra Segretario del PD e candidato premier. Chi la avversa, dovrebbe almeno darsi carico di spiegare perché mai – abolendola – si dovrebbero ancora chiamare gli elettori, e non solo gli iscritti, ad eleggere il Segretario del partito. Si tratta di una soluzione praticata in tutta Europa, senza eccezioni: proprio domenica scorsa il congresso della SPD ha eletto Schulz – candidato premier contro la signora Merkel – Presidente del Partito. Anche loro sarebbero dunque caduti in un “eccesso di personalizzazione”? La verità è che nella competizione democratica per il governo il leader del partito incarna visione sul futuro del Paese e programma di cui quel partito è portatore. L’assenza di una leadership forte, selezionata in un contesto di effettiva contendibilità, è sintomo di scarsa o nulla credibilità di governo del partito stesso. Per questo, una soluzione diversa rispetto a quella della identificazione leader di partito-candidato premier, in Europa, è semplicemente inconcepibile.
Certo, quando il leader del partito sta guidando il Governo bisogna avere particolare cura dello strumento partito. Una cura che non c’è stata. E vengo così alle promesse disattese. Con qualche significativa eccezione (Milano), il partito promesso al Lingotto, dieci anni fa, non l’abbiamo materialmente costruito, né a Roma, né sul territorio. Una mancanza, questa, pagata a caro prezzo. Per mettervi rimedio, non c’è che una scelta: utilizzando strumenti vecchi e nuovi, mettendo in relazione tra loro iscritti che vengono dai partiti fondatori e persone “native” del PD, ripartire dal lavoro politico organizzato su quei milioni di lettori più attivi del PD che accorrono ogni volta che li chiamiamo, salvo dimenticarcene nei mesi e negli anni successivi.
Nella mozione si indicano strumenti e modalità per procedere in questa direzione. Ma una cosa è certa: se non l’abbiamo fatto, in questi dieci anni, non è perché ci mancassero strumenti e modalità. È perché ci è mancata la volontà politica. Il problema non è stato il mancato amalgama tra ex DS e ex Margherita. Quello, c’è stato da tempo: non c’è oggi una sola questione politica sulla quale i confini della nostra dialettica interna ricalchino i confini dei precedenti partiti. C’è mancato il coraggio di andare a navigare – ognuno con la sua barca di idee, di relazioni, di pregiudizi e di giudizi, di ambizioni personali e di gruppo -, in un mare del tutto nuovo, molto oltre la cerchia degli iscritti. Un mare fatto di elettori variamente disponibili all’impegno, da interessare e coinvolgere in forme nuove…
Un ambiente, questo mare più grande, in cui anche le legittime ambizioni di acquisire ruoli di rappresentanza e di governo nelle istituzioni devono fare i conti che discendono dall’apertura e dalla piena contendibilità delle cariche di direzione.
Ma è un mare migliore, in cui avventurarci. Altro dunque che richiamo a dove e come eravamo. Molliamo gli ormeggi.
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