IN RISPOSTA ALLE GRANDI CRISI ECONOMICHE CIASCUN PAESE TENDE A CHIUDERSI, FAVORENDO UN COMPORTAMENTO ANALOGO DEGLI ALTRI PAESI; MA COSÌ FACENDO SI ALIMENTA LA SPIRALE DELLA CRISI – COME ACCADDE CON LO SMOOT-HAWLEY ACT AMERICANO DEL 1930
Editoriale di Federico Fubini pubblicato sul Corriere della Sera del 25 marzo 2017 – In argomento v. anche i documenti e interventi raccolti nel portale Il nuovo spartiacque fondamentale della politica mondiale.
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Non è chiaro se dell’Unione europea di questi giorni resteranno più le cerimonie per i sessant’anni del Trattato o gli insulti del ministro olandese Jeroen Dijsselbloem ai Paesi del Sud. In entrambi i casi, quando si ritrovano oggi in Campidoglio, ai ventisette leader sarebbe utile dedicare un pensiero anche a un altro accordo che ha segnato il Novecento: lo Smoot-Hawley Act del 1930.
Non che quella legge votata dal Congresso Usa dopo il grande crash di Wall Street abbia molto a che fare, a prima vista, con la Ue oggi. Per rassicurare le imprese americane, lo Smooth-Hawley Act imponeva dazi all’importazione di ventimila prodotti dal resto del mondo. E per quanto il protezionismo di Donald Trump preoccupi, almeno l’Europa per ora non rischia derive del genere: il suo mercato interno funziona e gode del consenso di tutti. Per la Ue oggi è più urgente rispondere alle forze — dal Front National a M5S, ai partiti di governo di Budapest o Varsavia — che rimettono in discussione le sue istituzioni.
È qui che la vicenda dello Smoot-Hawley Act ha qualcosa da insegnare. Quella legge fu scritta per difendere alcuni settori produttivi americani, ma segnò l’avvitamento del sistema internazionale in un ciclo di ritorsioni. Gli altri governi risposero agli Stati Uniti con nuovi dazi per difendere le proprie aziende e presto il sistema degli scambi collassò, innescando la Grande depressione. Ciascuno per proprio conto cercava solo di difendersi, tutti insieme finirono per produrre una catastrofe.
Oggi questa spirale protezionista si sta riproducendo nella vita politica europea. Quando il ministro delle finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo accusa i Paesi del Sud di spendere i soldi del Nord in «donne e alcol», prova a difendersi come può dai populisti di casa propria; ma se questa è la voce dell’Europa, essa non fa che incoraggiare gli slogan populisti e anti-europei in Grecia, Italia o Spagna. Non che l’Italia sia innocente, anzi. Quando Matteo Renzi si scaglia contro i «burocrati di Bruxelles» solo perché fanno rispettare leggi europee (spesso) logiche che l’Italia ha liberamente sottoscritto, l’effetto è uguale e contrario: il leader in pectore del Pd cerca difendersi dai populisti di casa propria copiandone lo stile; ma nel farlo finisce per incoraggiare i populisti tedeschi o olandesi, convinti che dell’Italia non merita fiducia e che le regole europee sono troppo deboli per impedirle di barare.
La fenomenologia del protezionismo politico ovviamente non si ferma qui. L’intransigenza tedesca sulla gestione della crisi bancaria italiana in fondo ha la stessa origine: Berlino vuole ridurre gli aiuti di Stato per le banche, per rassicurare i propri elettori che in futuro non dovranno contribuire a salvare istituti di credito di altri Paesi. Ma proprio questa rigidità contribuisce a prolungare una crisi bancaria italiana, nella quale i populisti di casa nostra fioriscono. Anche i governi dell’Ungheria, della Polonia o della Francia che rifiutano (in modi diversi) di farsi carico di parte dei migranti sbarcati dalla Libia o dalla Turchia, cercano solo di proteggersi dai nazionalisti di casa propria. Comprensibile: se Parigi accettasse la redistribuzione dei rifugiati dall’Italia o dalla Grecia, Marine Le Pen avrebbe un argomento in più da brandire.
Dunque la chiusura sui migranti è un costo inevitabile della transizione politica francese. Ma vista dall’altra parte delle Alpi o del Reno — dove la Germania sperava che la Francia accogliesse qualche rifugiato siriano — il passo indietro di Parigi alimenta la protesta della Lega o di Alternative für Deutschland.
Così questo ciclo protezionista in politica ha tutta l’aria di riprodurre quello che negli anni Trenta si innescò nel commercio. Ciascun governo alza barriere per proteggersi, ma lo fa scaricando i costi sugli altri. Quindi questi ultimi reagiscono a loro volta alzando altri muri. Il risultato è che i riflessi difensivi di ciascuno finiscono per danneggiare tutti e l’intero sistema ne esce sconfitto, nessuno escluso. Il finanziere Ray Dalio ha compilato un indice del populismo nei Paesi avanzati dall’inizio del ‘900 ad oggi: mostra che il consenso per quelle forze ha appena raggiunto il suo punto più alto dagli anni 30.
Dopo lo Smoot-Hawley Act, i leader mondiali compresero la lezione e si impegnarono a darsi istituzioni e comportamenti che impedissero altri errori del genere. Fu un impegno consapevole alla cooperazione e al dialogo sui problemi comuni. Anche i leader europei riuniti oggi al Campidoglio non hanno altra scelta.
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