QUEL CHE C’E’ E QUEL CHE ANCORA MANCA NEL DISCORSO DI FRANCESCHINI

MOLTO BENE LA DIFESA DEL BIPOLARISMO E DEL SISTEMA ELETTORALE MAGGIORITARIO, IL RIFIUTO DI UN RITORNO AL PROPORZIONALISMO E ALLA DELEGA IN BIANCO DEGLI ELETTORI AI PARTITI PER LA FORMAZIONE DEI GOVERNI. ALCUNE LACUNE, INVECE, IN MATERIA DI POLITICA ESTERA, DI POLITICA ECONOMICA E DEL LAVORO. MANCA, POI, ANCORA UN INVITO ESPLICITO A TUTTI I RIFORMISTI DEL CENTROSINISTRA A RICONOSCERE NEL PARTITO DEMOCRATICO LA LORO CASA NATURALE

L’editoriale di Francesco Verderami pubblicato sul Corriere della Sera del 17 luglio 2009 mette bene in evidenza gli aspetti positivi del programma esposto da Dario Franceschini. Segue una mia nota nella quale indico le cose che a mio avviso ancora mancano in questo programma, sulle quali credo che l’avversario di Pierluigi Bersani nella corsa alla leadership del partito dovrà essere incalzato nelle prossime settimane.

    Il Partito Democratico crede nel bipolari­smo? È pronto a difendere la democra­zia dell’alternanza e a considerarla un valore? Riconosce che la sovranità risie­de nel voto popolare e che il mandato dei cit­tadini non è un assegno in bianco da usare per successivi accordi in Parlamento? Il Pd, insomma, è disposto a preservare l’unica con­quista raggiunta nel marasma della Seconda Repubblica, o intende tornare alla stagione dei governi fotocopia, degli esecutivi balnea­ri, dei gabinetti che duravano pochi mesi, dei presidenti del Consiglio sempre con la va­ligia in mano nella porta girevole del grand hotel Palazzo Chigi?

     Dario Franceschini ieri ha posto queste do­mande ai dirigenti e ai militanti democratici, e ha risposto che lui non vuole «tornare in­dietro ». Su questo tema pone le fondamenta per la sua candidatura alla guida del partito, chiede il voto degli iscritti e lancia la sfida a Pierluigi Bersani. Una sfida che deciderà le sorti della più grande forza di opposizione. È infatti sull’accettazione o meno del bipolari­smo che il Pd rischia la scissione. Perché un conto è dividersi sugli organigrammi inter­ni, sul programma, sulle alleanze da costrui­re o da rompere. Altra cosa è non riconoscer­si sulle regole del gioco che formano il peri­metro entro cui sfidare gli avversari per la conquista del potere politico.
     Nel discorso di Franceschini è stato indub­biamente questo il passaggio più importan­te. Il suo appello era rivolto a quanti hanno aderito al nuovo partito senza nostalgie per il passato, lontani dall’idea tardo-comunista di chi non ha mai fatto fino in fondo i conti con la propria storia e cerca sempre una scor­ciatoia per il governo. Se il Pd è davvero una nuova storia, e lui pensa sia così, era inevita­bile lo scontro con Massimo D’Alema, con i suoi propositi di introdurre la legge elettora­le «alla tedesca», dietro cui si cela il ritorno al proporzionale, ai governi che si fanno e si disfano nelle aule del Parlamento: «Sono contrario — ha detto Franceschini — a siste­mi che spostino dopo il voto la scelta delle alleanze, sottraendo ai cittadini il diritto di conoscerle e sceglierle prima».
     I bipolaristi di centrodestra avrebbero do­vuto porre maggiore attenzione all’interven­to del segretario uscente del Pd, senza lasciar­si andare a giudizi sommari, legati ai passag­gi in cui Franceschini ha attaccato il premier, il suo governo, la sua maggioranza e la sua linea politica. È evidente che la scelta bipola­re impone la competizione. Di qui la necessi­tà di costruire un partito con una forte identi­tà, che tuttavia non può coincidere con l’an­ti- berlusconismo, formula ormai frusta e per­dente, ma con un tratto pienamente «rifor­mista ». L’idea è tanto ambiziosa quanto ar­dua. Nel centrosinistra, con o senza trattino, tutti hanno abusato del concetto, nessuno pe­rò è riuscito finora ad applicarlo. E c’è il ri­schio di un ennesimo fallimento.
     A meno di non restituire il significato alle parole che si usano, e di avere il coraggio di renderle carne e sangue nel quotidiano svol­gersi dell’azione politica. Se a questo mira Franceschini, allora è giusto buttare a mare il vecchio armamentario ideologico, è giusto ri­conoscere l’errore di non aver varato negli an­ni di governo la legge sul conflitto di interes­si, a un passo dall’approvazione e poi usato solo come strumento di campagna elettora­le. In una moderna democrazia quella legge è necessaria, e sarà indispensabile inserirla dentro una riforma complessiva (e condivi­sa) dell’architettura dello Stato.
     Ma la sorte del Pd, oltre che sul bipolari­smo, si giocherà a breve su un altro terreno. Perché è solo dall’opposizione che potrà mo­strarsi come credibile forza di governo. Final­mente libera dall’ossessione del Cavaliere che l’ha resa prigioniera di se stessa. Pronta a chiedere il voto per la guida del Paese. Sono le riforme sociali quelle di cui l’Italia ha oggi bisogno, per fronteggiare la crisi e prepararsi a competere quando sarà passata l’emergen­za. Ieri Franceschini si è detto pronto a misu­rarsi con la revisione del sistema pensionisti­co, per un nuovo welfare. Senza un’intesa, seppur minima, tra maggioranza e opposizio­ne è impensabile allo stato varare una simile riforma, altrimenti esposta al conflitto socia­le. Il candidato alla segreteria del Pd annun­cia insomma un passo che non sarebbe vissu­to in modo indolore nelle sue stesse file.
     Sono ragionamenti già sentiti in altre epo­che, ma se l’intento è quello di restituire alle parole il loro significato, allora vorrà dire che Franceschini si propone di fare per davvero ciò che Walter Veltroni ha avuto il tempo (o il coraggio) solo di dire. Intanto ieri si è tolto di dosso l’immagine del numero due, del­l’eterno vice. Si è svestito di quel ruolo, aven­do il coraggio di lanciare a Bersani una sfida difficile. E grazie a lui, comunque, il Pd un risultato l’ha già raggiunto: per la prima volta non è una sfida finta.

L’editoriale di Francesco Verderami evidenzia i numerosi aspetti positivi del discorso di Dario Franceschini. A mio avviso, però, in questo discorso mancano ancora – o quanto meno non sono state sufficientemente esplicitate – alcune cose:
   – una opzione chiara, sul terreno della politica estera, nel senso dell’apertura dell’Unione Europea (con la gradualità e nelle forme appropriate) ai grandi Paesi musulmani laici: primi fra tutti Turchia e Marocco;
   – una opzione chiara sul terreno dell’efficienza delle amministrazioni pubbliche (tema cruciale, ma assente sia dal discorso di Franceschini, sia da quello di Bersani!), attraverso l’introduzione dei principi di trasparenza, valutazione e
benchmarking comparativo;
   – alcune indicazioni concrete su come aumentare la concorrenza nelle molte zone del nostro sistema dove essa fa difetto;
   – alcune indicazioni precise sul terreno della politica del lavoro, capaci di dare concretezza all’impegno di riformare profondamente il nostro ordinamento del lavoro, semplificandolo e rendendolo capace di abbracciare tutto il mondo del lavoro, nonché l’impegno di superare il regime di
apartheid che oggi divide i lavoratori protetti dai non protetti;
   – un invito esplicito a tutti i riformisti del centrosinistra, dai socialisti ai radicali, da Lanfranco Turci a Bruno Tabacci, a considerare il Partito Democratico come la loro casa naturale.
Una prima conferma della piena attualità di una prospettiva di convergenza nel PD di una parte almeno di queste forze politiche può vedersi nella 
dichiarazione “a caldo” di Marco Pannella sul discorso di Franceschini (16 luglio).

 

 

 
 

 

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