COMPRENDERE IL POPULISMO: I NUMERI DELLE DISUGUAGLIANZE

I PAESI CON ALTI LIVELLI DI DISEGUAGLIANZA TENDONO A OSCILLARE TRA DEMOCRAZIA E REGIME AUTOCRATICI: QUESTO CREA VOLATILITÀ DELLE POLITICHE, DEPRIMENDO GLI INVESTIMENTI E IN DEFINITIVA LA CRESCITA ECONOMICA STESSA

Articolo di Pushan Dutt, economista e politologo (*), postato sul suo blog il 15 Dicembre 2016 sotto il titolo Understanding populism: inequality by the numbers – La traduzione è a cura della redazione iDemLab per la versione pubblicata sul sito idemlab.org l’8 marzo 2017 – In argomento v. anche il mio editoriale del 12 febbraio scorso, Sostenere la parte bassa della proboscide e gli ulteriori documenti e interventi di cui ivi si trovano i link    
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Pushan Dutt

Pushan Dutt

La spettacolare crescita del populismo nel 2016 stava covando da tempo: i dati sulle disuguaglianze lo dimostrano.

La vittoria di Donald Trump è stata un terremoto, completamente non anticipata da sondaggisti, esperti, commentatori delle TV e, sì, anche da persone come me appartenenti al mondo accademico. Improvvisamente le due principali superpotenze, gli Stati Uniti e la Russia, sono guidate da uomini profondamente scettici sul sistema internazionale esistente di regole e alleanze, da leader che promettono un ritorno a una qualche mitologica era passata e che hanno astutamente sfruttato le insicurezze dei loro popoli in un mondo in rapida evoluzione. In Europa sta diventando plausibile in molti paesi l’accesso dei partiti populisti di destra al governo.

Se pensiamo al ruolo dell’UKIP nella campagna per la Brexit, alla crescita di Geert Wilders nei Paesi Bassi, alla Lega Nord in Italia, a Marine Le Pen in Francia, alle recenti elezioni in Austria e a Viktor Orban in Ungheria, vediamo almeno qualcuno degli istinti populisti di Trump: disprezzo per l’élite politica tradizionale, scetticismo verso la globalizzazione e le grandi imprese, e una presa di posizione anti-immigrazione che sconfina nella xenofobia.

La crescita dei populisti ha portato a una gran quantità di articoli di giornali e di analisi. Molte di queste si sono rivelate puramente speculative, con asserzioni non provate, alcune delle quali basate su un’analisi frammentaria di dati provenienti da sondaggi e exit polls. È ironico che molte di queste analisi siano state scritte dalle stesse persone che erano assolutamente sicure di una vittoria di Hilary Clinton e/o che il fronte del Leave in Gran Bretagna sarebbe stato sconfitto. Io ho sbagliato le mie predizioni sia sulla Brexit che su Trump v. Clinton perciò prendete tutto ciò che dirò da qui in poi con il giusto buon senso.

Una falsa dicotomia

Due scuole di pensiero chiaramente in contrasto tra loro sono rapidamente emerse. Una imputa l’ascesa dei populismi a una regressione culturale contro i valori progressisti, per lo più realmente condivisi solo dalle élite cittadine. L’altra attribuisce la crescita invece alla crescente insicurezza economica acuita da una crescita delle diseguaglianze nei redditi e nella ricchezza. Entrambi i punti di vista sono plausibili. Nel primo scenario, la maggioranza, in molti paesi, ha sviluppato un complesso di inferiorità, paradossalmente ‘un complesso di minoranza’. Le persone si sentono minacciate dai rapidi cambiamenti culturali così come dal paragone con il passato quando il loro gruppo aveva posizione maggiormente dominante, sia economicamente che culturalmente. Questa situazione ha permesso l’emersione di ‘imprenditori politici’ che hanno abilmente fatto appello alle nostre insicurezze più profonde, generando la paura “dell’altro”. La crisi dovuta ai forti flussi migratori in Europa ha reso questo compito molto più facile.

La seconda spiegazione è invece più il risultato di una dinamica lenta, prodotta da decenni di entrate stagnanti e da una diminuzione della porzione di torta disponibile per persone non qualificate, della classe media e di quelle più basse, che sono sono stati lasciati indietro dalla globalizzazione (dalla crescita dei commerci e dell’outsourcing, dagli investimenti diretti all’estero, dalla distribuzione dei prodotti su scala globale, dai flussi finanziari globali). Il problema è acuito da un declino del movimento sindacale, specialmente negli Stati Uniti, e dallo sfaldarsi delle reti di sicurezza a seguito delle politiche di austerity applicate dopo la crisi finanziaria globale.

Certo questi due argomenti non sono mutuamente esclusivi né indipendenti. Di fatto, è probabile che una crescita della diseguaglianza si manifesti nel tempo con una regressione culturale.

L’(in)desiderabilità della diseguaglianza

Una questione più fondamentale è se dovremmo preoccuparci della diseguaglianza in prima battuta. Per esempio, se l’1% più ricco sperimenta una crescita nelle entrate assolute, mentre il resto mantiene le entrate costanti. Questo è ciò che gli economisti etichetterebbero come un miglioramento paretiano (un miglioramento di Pareto consiste in una riallocazione delle risorse che migliora la condizione di almeno un individuo senza peggiorare quella di altri, producendo quindi un aumento dell’efficienza complessiva del sistema). E dunque verrebbe connotata come una situazione desiderabile: qualche persona sta meglio mentre gli altri non stanno peggio.

Una utile dicotomia al riguardo è la diseguaglianza nei risultati rispetto alla diseguaglianza nelle opportunità. Gli economisti si preoccupano molto di più della seconda che della prima. Se qualcuno è più intelligente di me, meglio addestrato e istruito di me, lavora più duramente di me, è più ambizioso di me, allora non ho ragioni di lamentarmi se guadagna di più di me. D’altra parte, se l’altra persona guadagna più di me semplicemente perché i suoi genitori sono più ricchi dei miei, allora siamo di fronte a una diseguaglianza di opportunità, in cui il destino di un bambino è determinato alla nascita. Essenzialmente non vogliamo vivere in un mondo con nessuna mobilità intergenerazionale tra le classi di reddito.

La curva di Miles Corak (del 2012) riprodotta qui sotto e soprannominata la Curva del Grande Gatsby, mostra come la diseguaglianza sociale e la diseguaglianza inter-generazionale sono correlate. L’asse orizzontale misura la diseguaglianza, quello verticale descrive la relazione tra il proprio reddito quello dei prorpi genitori. Un punteggio pari a zero significa che abbiamo una perfetta eguaglianza di opportunità: i figli di persone ricche guadagnano tanto quanto i figli dei poveri. Gli Stati Uniti su questa scala hanno un punteggio di 0.4 che significa che, in media, i genitori passano il 40% del loro vantaggio economico ai loro figli: se tu guadagni 100,000 dollari più di me, allora poi, in media, i tuoi figli guadagneranno 40,000 dollari in più dei miei. Come si vede dal grafico c’è una forte correlazione tra queste due quantità: i paesi che hanno maggiori diseguaglianze nei redditi sono anche quelle con poca mobilità intergenerazionale. Tra le economie più avanzate, gli Stati Uniti sono quelli con il punteggio più alto su questa scala. Così, nel paese delle libertà, c’è poca libertà di mobilità sociale!

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L’influenza distruttiva della diseguaglianza

La diseguaglianza può portare a politiche che danneggiano una crescita a lungo termine. Oggi vediamo una reazione contro la globalizzazione sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Il mondo potrebbe ben osservare una risurrezione di politiche protezionistiche, specialmente nelle economie avanzate dove i guadagni dovute a tariffe più alte per i trasferimenti commerciali sarebbero trasferiti da chi possiede i capitali e i lavoratori più specializzati (i beneficiari della globalizzazione) alla manodopera meno specializzata (coloro che sono stati lasciati indietro). Questa è una conseguenza nei modelli standard del commercio e c’è una evidenza sperimentale che le pressioni verso pratiche protezioniste sono più alte in paesi con più diseguaglianza. L’efficacia di tali pratiche protezionistiche è discutibile: politiche di questo tipo possono creare posti di lavoro per robots nelle economie più avanzate piuttosto che per esseri umani!

E la diseguaglianza può anche portare a instabilità politica. In un lavoro precedente ho mostrato che i paesi con alti livelli di diseguaglianza tendono a oscillare tra democrazia e regime autocratici, come si vede nel grafico qui sotto. Questo crea una tremenda volatilità delle politiche che vengono applicate, deprimendo gli investimenti e in ultima battuta la crescita economica stessa.

Pushnam 2

Non c’è una soluzione semplice

In tutte queste discussioni si vede chiaramente “l’elefante nella stanza” nel grafico successivo, che è stato proposto da Branko Milanovic. Mostra il cambiamento nei redditi reali tra il 1988 e il 2005 per l’intera popolazione mondiale. Sull’asse orizzontale i cittadini del mondo sono categorizzati dai più poveri ai più ricchi mentre sull’asse verticale viene mostrate la crescita del proprio reddito, in termini di potere d’acquisto reale. E’ soprannominato “il grafico dell’elefante” perché è possibile scorgere la figura di un elefante, con la sua coda nella sinistra e la proboscide sulla destra.

Elefante di Milanovic

Come discusso prima, è facile vedere che l’1% più ricco ha lavorato bene per se stesso. Ma il segmento di popolazione che ha fatto anche meglio (in termini percentuali) è quello nel mezzo, che è essenzialmente dovuto alla crescita economica in India e Cina che ha permesso a vaste fasce della loro popolazione di uscire dalla povertà. Quando si celebra l’economia di mercato, la globalizzazione, e si sottolinea come l’economia sia una ‘forza positiva che spinge per il benessere comune’ in realtà ci si focalizza essenzialmente su questi paesi e su questo segmento di popolazione rispetto alla distribuzione totale dei redditi. Ma dopo la mediana globale, i guadagni decrescono rapidamente (a partire dall’inizio della proboscide dell’elefante), diventando quasi trascurabili tra il 75esimo e il 90esimo percentile. Questi sono gli elettori di Trump, coloro che hanno votato per la Brexit, coloro che sono stati espulsi dalla classe media e lasciati indietro sotto la forza congiunta della tecnologia e della globalizzazione. Ed è anche interessante osservare che coloro che sono in fondo nella scala della ricchezza globale (i più poveri tra i poveri) hanno aumentato di molto poco i loro redditi. Per questi paesi il supporto a programmi di riduzione della povertà dovrebbe essere il focus chiave.

Tutte queste informazioni prese insieme mostrano la complessità delle sfide che il mondo ha davanti così come quelle presenti nei suoi diversi paesi.

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(*) Pushan Dutt è professore di Economia e Scienze Politiche a INSEAD, una delle più grandi business schools nel mondo con campus in Francia, Singapore e Abu Dhabi. La sua ricerca si concentra sull’intersezione tra politica, istituzione e economia internazionale. In passato ha lavorato per la Banca Mondiale.

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