RIDURRE LA TASSAZIONE SUL (SOLO) LAVORO FEMMINILE COME “AZIONE POSITIVA” DA SPERIMENTARE FINO AL RAGGIUNGIMENTO DELL’OBIETTIVO DI UNA SUFFICIENTE PARITÀ DI GENERE SIA NEI TASSI DI PARTECIPAZIONE SIA NELLE PROSPETTIVE DI RETRIBUZIONE E DI CARRIERA
Editoriale di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 7 marzo 2017 – In argomento v. anche il disegno di legge per la detassazione selettiva del lavoro delle donne ripresentato da me con dieci altri senatori nel marzo 2013.
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La partecipazione al lavoro femminile è pari, in Italia, al 47 per cento contro una media di circa il 60 per cento nei 28 paesi dell’Unione Europea. Peggio di noi solo la Grecia. In Germania è il 70 per cento e in Svezia si arriva al 74 per cento. In compenso le donne italiane lavorano in casa il doppio degli uomini (circa 40 ore contro 20 per settimana). Sommando il lavoro in casa e fuori, la differenza totale è di mezzora in più per le donne. Sembra poco, ma moltiplicato per 365 giorni l’anno sono circa 23 giorni lavorativi di 8 ore. Un’enormità e lo riconoscono anche i compagni delle donne intervistate. I dati sono tratti da una nostra indagine per Valore D e valgono non solo per un campione rappresentativo della popolazione, ma anche per un campione di donne manager. Quindi, anche le donne con elevato livello di istruzione mediamente lavorano molto in casa mentre i loro compagni, indipendentemente dal livello di istruzione, non le aiutano quasi per nulla nei lavori domestici.
Va bene così? Forse questo stato di cose corrisponde alle preferenze di una parte delle coppie più anziane. A giudicare, però, da quanto avviene negli altri Paesi europei (verso i quali troppi nostri giovani stanno fuggendo, come ricordato ieri dall’Istat), le nuove generazioni preferiscono equilibri diversi che, tra l’altro, possono produrre effetti positivi per tutta la collettività. Una divisione più equilibrata dei compiti, infatti, non spreca il capitale umano delle donne quasi solo in compiti domestici e non assorbe quello degli uomini interamente nel mercato. I padri non sono meno importanti delle madri per i figli e la tradizionale divisione “donne a casa – uomini in azienda” oggi non è più vantaggiosa, se mai lo è stata.
Come rimediare al nostro ritardo? Una decina d’anni fa avevamo suggerito una proposta di facile attuazione: ridurre la tassazione sul (solo) lavoro femminile come “azione positiva” (affirmative action) da sperimentare fino al raggiungimento dell’obiettivo di una sufficiente parità di genere sia nei tassi di partecipazione sia nelle prospettive di retribuzione e di carriera. In questo modo, le famiglie avrebbero un incentivo a far lavorare le donne relativamente di più nel mercato e gli uomini di più a casa. Molti studi dimostrano che una riduzione anche modesta delle aliquote sul reddito femminile induce un forte aumento dell’offerta di lavoro delle donne, facendo perdere allo Stato poco gettito fiscale dato l’aumento consistente della base imponibile. Quindi questa riduzione delle aliquote costerebbe relativamente poco e potrebbe essere compensata con la riduzione di quei trasferimenti alle famiglie che costano tanto e hanno effetti limitati o addirittura controproducenti perché si limitano ad alleviare i sintomi, senza contribuire ad eliminare le cause delle disparità di genere. Aprire un asilo nido ad ogni angolo di strada, sussidiato dai contribuenti, non consentirà alle donne di lavorare di più nel mercato e avere carriere simili a quelle degli uomini, se saranno sempre loro a dover mollare tutto a metà pomeriggio per correre a prendere i figli. E i figli non sono comunque l’unico compito che uomini e donne devono dividersi in casa, soprattutto in una popolazione in cui gli anziani richiedono sempre maggiore attenzione familiare. Sia per la cura dei figli sia per la cura degli anziani, meglio sarebbe risparmiare sui sussidi e lasciare più reddito in mano alle famiglie in modo che siano libere di scegliere il tipo di cura che preferiscono, piuttosto che affidare allo Stato il diritto di decidere cosa sia meglLa tassazione differenziata a favore delle donne, invece, cura la causa del problema perché induce le coppie a riequilibrare la divisione dei compiti familiari e di quelli svolti nel mercato. Lo studio di una riforma fiscale svedese del 2007 mostra, in una ricerca di uno di noi (Ichino), che una riduzione anche contenuta dell’aliquota della donna rispetto a quella dell’uomo aumenta in modo considerevole la differenza tra i giorni di congedo parentale presi dall’uomo rispetto a quelli presi dalla donna. Un effetto più grande di quello che la riforma italiana del congedo parentale sembra aver ottenuto.
Inoltre, lasciare più risorse e opportunità di lavoro a disposizione delle coppie aumentando l’incentivo a dividere equamente tra i sessi i compiti di cura, potrebbe influire positivamente sulla fertilità che nel nostro Paese continua a ridursi (si vedano ancora i dati Istat di ieri).
Oggi si leggerà tanta retorica sulla questione femminile. Da domani, come ogni anno, ce ne dimenticheremo e continueremo a non utilizzare il valore del capitale umano delle donne sul lavoro e di quello degli uomini a casa. Ma allora smettiamola di celebrare, ipocritamente, la Festa della Donna.
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