SE VIETIAMO I VOUCHER ALLE IMPRESE, CONSENTIAMO LORO ALMENO IL LAVORO A CHIAMATA

130 MILIONI DI ORE PAGATE CON I VOUCHER, SE CONFRONTATI CON IL NUMERO COMPLESSIVO DELLE ORE DI LAVORO REGOLARE SVOLTO IN ITALIA, COSTITUISCONO UNA FRAZIONE TRA LO 0,2 E LO 0,3 PER CENTO: NESSUNO PUÒ SERIAMENTE SOSTENERE CHE QUESTA FRAZIONE COSTITUISCA L’EVIDENZA DI UN ABUSO DEL LAVORO ACCESSORIO

Intervista a cura di Fabio Paluccio, pubblicata dall’agenzia di stampa Adn Kronos il 2 marzo 2017 – In argomento v. anche La Consulta e i paradossi del referendum promosso dalla Cgil     .
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È d’accordo con il ministro Poletti secondo cui i voucher vanno drasticamente modificati e limitati e riservati alle famiglie (badanti e colf) e non più alle imprese?

Il ministro del lavoro Giuliano Poletti

Il ministro del lavoro Giuliano Poletti

Comprendo il ragionamento politico sul quale credo si fondi il suo discorso: se il rischio è quello di una abrogazione referendaria drastica dell’intero strumento dei buoni-lavoro, meglio salvare il salvabile, conservandoli almeno nell’area di utilizzazione da parte delle persone fisiche, delle famiglie. Ma in realtà i buoni-lavoro svolgono una funzione economicamente utile e socialmente positiva anche nel settore della piccola impresa.

Per esempio?
Il cartolaio che ha bisogno di assumere uno o due commessi per il solo periodo pre-natalizio, per due o tre settimane, se lo obblighiamo a rivolgersi a un consulente del lavoro per la stipulazione di un contratto a termine, rinuncerà a farlo: il costo di transazione supererebbe l’utilità del rafforzamento temporaneo dell’organico nel suo negozio. Stesso discorso per la raccolta delle olive che dura soltanto tre giorni in un anno, e per molti altri casi analoghi.

CgilLa Cgil, però, sostiene che 130 milioni di voucher venduti nel 2016 costituiscano una prova evidente dell’abuso.
Ma questo dato dimostra l’esatto contrario. 130 milioni di ore, se confrontati con il numero complessivo delle ore di lavoro regolare svolto dalla forza-lavoro italiana, composta da 23 milioni di persone, costituiscono una frazione tra lo 0,2 e lo 0,3 per cento: chi può ragionevolmente sostenere che una frazione così minuscola costituisca l’evidenza di un abuso generale del lavoro accessorio? Qualche caso di abuso c’è sicuramente, e va corretto; ma una drastica riduzione avrebbe l’effetto di condannare gran parte di questo lavoro accessorio a scomparire nell’economia sommersa, a diventare lavoro nero.

Perché allora il governo non si limita a correzioni più puntuali della disciplina vigente, affrontando poi il referendum a viso aperto?
Perché ora al Senato una componente decisiva della maggioranza che sostiene il Governo è costituita dal nuovo gruppo nato dalla scissione della minoranza PD, che condivide esplicitamente l’obiettivo del referendum. Questo è un primo effetto politico concreto della scissione.

A suo parere, se vanno modificati, come si dovrebbe intervenire sui voucher?
A mio avviso la modifica dovrebbe essere questa: divieto dell’uso dei buoni-lavoro nei cantieri edili e da parte delle imprese di dimensioni medio-grandi, alle quali deve invece essere consentito di soddisfare le proprie esigenze di lavoro accessorio con il lavoro a chiamata, oggi consentito soltanto per particolari categorie di lavoratori. Tutti gli altri soggetti, piccole imprese comprese, dovrebbero poter continuare a usare i buoni-lavoro con qualsiasi persona interessata, nei limiti massimi oggi previsti. In questo modo si eviterebbe il referendum, ma si eviterebbe anche di buttare via un grosso bambino insieme a poca acqua sporca.

Già, ma se al senato occorre il consenso del gruppo dei Democratici e Progressisti, che non concordano su questa linea?
Se dobbiamo proprio vietare del tutto i voucher alle imprese, consentiamo loro almeno di soddisfare le esigenze di lavoro accessorio con il contratto di job on call, cioè con il “lavoro a chiamata”, rimuovendo almeno alcune delle restrizioni imposte nel 2015.

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