PIÙ 628MILA OCCUPATI REGOLARI NEL 2015, PIÙ 340MILA NEL 2016 (A FRONTE DI SALDI NEGATIVI SIA NEL 2013 SIA NEL 2014); DI QUESTI CIRCA DUE TERZI A TEMPO INDETERMINATO; RISPETTO AL NUMERO DELLE ASSUNZIONI, I LICENZIAMENTI SCENDONO DAL 6,5% DEL 2014 AL 6,1% DEL 2015 E AL 5,9% DEL 2016
Articolo di Marco Leonardi, professore di economia del lavoro all’Università di Milano, e Tommaso Nannicini, professore di economia politica all’Università Bocconi, pubblicato su l’Unità il 24 febbraio 2017 – In argomento v. anche gli altri interventi e documenti raccolti nel Portale della riforma del lavoro, e ivi particolarmente nel capitolo Documenti e dibattito sulla riforma compiuta e i suoi effetti .
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Come da tradizione, la pubblicazione dei dati Inps sull’occupazione è un’occasione imperdibile per i professionisti delle strumentalizzazioni, sempre pronti a piegare i numeri alle proprie esigenze di parte. Per leggere in quei numeri, come molti stanno facendo in queste ore, un fallimento delle politiche occupazionali degli ultimi anni ci vuole una buona dose di fantasia.
I dati Inps di oggi arrivano al dicembre 2016 e quindi chiudono il bilancio di due anni di Jobs Act, se prendiamo a riferimento il gennaio 2015 quando entrò in vigore la decontribuzione totale delle nuove assunzioni a tempo indeterminato. La prima notizia è che la variazione netta sul totale dei rapporti di lavoro subordinato dall’introduzione del Jobs Act in poi è positiva per oltre 968 unità (+628 mila nel 2015, +340 mila nell’anno successivo). Tanto per avere un idea: nel biennio precedente si erano registrati sempre saldi negativi (nel 2014 -34.000 unità, nel 2013 -101.000). Considerando i soli contratti a tempo indeterminato, il saldo dei due anni, grazie alla trasformazione di contratti a termine o di apprendistato, supera il milione. Se qualcuno due anni fa avesse promesso la creazione di un milione di nuovi contratti permanenti (al netto di dimissioni e licenziamenti) sarebbe stato preso per un venditore di fumo. Appare quantomeno difficile scorgere in questi numeri un “crollo dei contratti stabili”. E i dati del 2015 e del 2016 vanno letti insieme perché il 2015 è stato l’anno degli sgravi contributivi totali, che hanno creato una decisa inversione di tendenza nelle assunzioni, spingendo anche molte imprese ad anticipare le proprie decisioni di stabilizzazione. Conclusione: i contratti stabili non sono affatto crollati, casomai sono stati anticipati al 2015, e comunque il dato finale del biennio del Jobs Act è un dato straordinariamente positivo – il milione di posti di lavoro di berlusconiana memoria non è fumo ma realtà.
La seconda notizia riguarda i licenziamenti. Molti fingono di non sapere che il numero di licenziamenti naturalmente aumenta se l’occupazione aumenta: quel che conta è il tasso di licenziamento in relazione al numero dei contratti di lavoro esistenti. Anche se curiosamente pochi lo sottolineano, il tasso dei licenziamento è in continua diminuzione dopo il Jobs Act: dal 6,5% del 2014 si è scesi al 6,1% del 2015 per arrivare al 5,9% dell’ultimo anno. Numeri che contraddicono clamorosamente la bufala che i licenziamenti sono aumentati per colpa del Jobs Act, bufala sulla quale qualcuno è già in campagna elettorale.
La terza notizia è la più attuale dato l’avvicinarsi del referendum sui voucher. Sul capitolo voucher si può notare come la netta flessione nella crescita dei buoni lavoro (cresciuti nel gennaio 2017 di un modesto 3,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente) rifletta gli effetti dell’obbligo di comunicazione preventiva, operativa dalla seconda metà di ottobre. Per carità, su questo fronte, rimane l’esigenza di correttivi che limitino gli eccessi di utilizzo da parte delle imprese e di altri grandi utilizzatori, limitando drasticamente l’utilizzo dei voucher nelle imprese ai soli lavori meramente occasionali. Ma i dati ci dicono che la maggiore tracciabilità – introdotta dal Jobs Act- produce effetti. Conclusione: il governo, lungi dall’essere responsabile dei voucher (che sono nati nel 2003 e sono “esplosi” già anni fa), prima ne ha vietato l’uso negli appalti e limitato l’uso con la tracciabilità e ora ne ridurrà drasticamente la diffusione per via legislativa.
Tutto bene, quindi? Viviamo già nel migliore dei mercati del lavoro possibili? Naturalmente no. Resta molto da fare, dal rafforzamento delle politiche attive al taglio del cuneo contributivo sul lavoro stabile. Perdere tempo in polemiche ideologiche e strumentali non ci aiuterà a fare passi in avanti. Per una volta l’Italia ha adottato una riforma che ha fatto bene all’occupazione e che tutta Europa ci invidia, ora si tratta di completarla non di cancellarla.
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