LA CINA, CUI FA SPONDA L’AUSTRALIA, SI STA MOSTRANDO MOLTO LESTA NELL’OCCUPARE GLI SPAZI LASCIATI APERTI DAL RIFIUTO DEI TRATTATI DI LIBERO COMMERCIO DA PARTE DEL NUOVO GOVERNO STATUNITENSE – E INTANTO L’EUROPARLAMENTO LANCIA A TRUMP UN MESSAGGIO MOLTO CHIARO, APPROVANDO IL TRATTATO CETA CON IL CANADA
Articolo di Alessandro Maran, vicepresidente del gruppo dei senatori Pd, pubblicato su l’Unità del 16 febbraio 2017 – In argomento v. anche TTIP: un’eredità di Obama che non dobbiamo disperdere , dello stesso Autore, e Il Ceta tra realtà e false suggestioni, del professor Manlio Frigo .
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In campagna elettorale, si sa, Donald Trump è stato molto indulgente con Putin. All’opposto, non ha attaccato nessun altro paese così intensamente come la Cina. Trump ha accusato i cinesi di «stuprare» e di «uccidere» gli Stati Uniti sul piano commerciale manipolando artificialmente la loro valuta per favorire l’export. Una linea che ha ripreso, una volta eletto, accentuando la sua bellicosità verso Pechino, e che è culminata in una inusuale telefonata alla presidente di Taiwan.
Eppure, come ha scoperto con una certa sorpresa Fareed Zakaria, il conduttore di Global Public Square sulla CNN, le élite cinesi si mostrano ottimiste. «Trump è un negoziatore e la retorica fa parte delle mosse iniziali della partita», ha detto al giornalista uno studioso cinese che preferisce non essere menzionato. «Gli piace fare affari», ha aggiunto, «e noi anche siamo dei bravi negoziatori. E ci sono diversi accordi che possiamo fare sul commercio». Del resto, che Stati Uniti e Cina siano destinati ad essere nel lungo periodo partner strategici è opinione diffusa. Non per caso, Donald Trump è tornato rapidamente sui suoi passi e, in una «lunga e molto cordiale» conversazione telefonica con il presidente cinese Xi Jinping, ha riconosciuto, in linea con la tradizionale politica americana, che esiste «una sola Cina» e che dunque Taiwan ne fa parte.
Il fatto è che la Cina ha molte frecce al proprio arco. È un enorme mercato per le merci americane (e non solo per quelle, ovviamente) e solo l’anno scorso (secondo il Rhodium Group) il paese ha investito 46 miliardi di dollari nell’economia americana. Ma l’imperturbabilità delle élite cinesi deriva soprattutto dal fatto che la Cina sta diventando meno dipendente dai mercati esteri per il proprio sviluppo. Dieci anni fa, l’export ammontava ad un impressionante 37% del Pil cinese. Oggi ammonta appena al 22 per cento e sta calando.
La Cina è cambiata. I brand occidentali sono piuttosto rari e le compagnie cinesi ora dominano quasi ogni aspetto dell’enorme e fiorente economia nazionale. Sono pochi i business ancora influenzati dalle imprese americane (ed europee). Le imprese focalizzate sulle produzioni ad alto contenuto di conoscenza stanno innovando e molti giovani cinesi ostentano che le versioni locali di Google, Amazon e Facebook sono migliori, più veloci e più sofisticate delle originali. Il paese, insomma, procede per conto proprio.
In parte è il risultato delle politiche del governo. Da tempo le aziende estere e i giganti hi-tech americani devono lottare a causa di regole formali (e informali) concepite «contro» di loro. E, verosimilmente, ora la Cina cercherà di sfruttare il vuoto di leadership creato dal «ritiro» degli Stati Uniti. Mentre Trump prometteva protezionismo e minacciava letteralmente di isolare con un muro gli Stati Uniti dal suo vicino meridionale, il presidente cinese Xi Jinping è tornato (per la terza volta in quattro anni) in America latina, ha firmato più di 40 accordi e si è impegnato con miliardi di dollari di investimenti nella regione. Inoltre, cercherà di approfittare della decisione di Trump di affossare la Trans-Pacific Partnership (TPP). L’accordo commerciale, negoziato tra gli Stati Uniti e altri 11 paesi, riduceva infatti le barriere al commercio e agli investimenti e spingeva le economie asiatiche più grandi (come il Giappone ed il Vietnam) in direzione di una maggiore apertura basata sul rispetto delle regole. Ora sarà la Cina ad offrire la propria versione dell’intesa, che, ovviamente, esclude gli Stati Uniti e favorisce l’approccio cinese, più mercantilista.
L’Australia, un convinto sostenitore del TPP, ha subito annunciato il proprio sostegno all’alternativa cinese. E presto altri paesi asiatici seguiranno. Al summit del Consiglio per la cooperazione economica asiatico-pacifica (APEC) del novembre scorso, l’allora il primo ministro della Nuova Zelanda, John Key, l’ha messa in modo molto semplice: «Il TPP era una dimostrazione di leadership americana nella regione asiatica (…) noi vogliamo davvero che gli Stati Uniti restino nella regione (…) Ma alla fine, se gli Stati Uniti non ci sono, quel vuoto deve essere riempito. E verrà riempito dalla Cina».
Non per caso, l’intervento di Xi Jinping (che ha elogiato il commercio, l’integrazione e l’apertura e ha promesso di adoperarsi affinché i paesi non si chiudano agli scambi e alla cooperazione globale) sembrava quello di un presidente americano. Il presidente cinese è intervenuto anche (per la prima volta) al 47° Forum economico di Davos, ergendosi a paladino del libero scambio. E nel frattempo, i leader occidentali stanno rinunciando al loro ruolo tradizionale. Assente Trump, anche Angela Merkel, Francois Hollande e Justin Trudeau hanno annullato la loro partecipazione al summit svizzero.
Pechino sembra aver concluso, infischiandosi dei tweet di Trump, che la sua presidenza potrebbe dimostrarsi per la Cina un regalo insperato. L’Europarlamento, che ieri ha approvato l’accordo con il Canada (CETA), sembra averlo capito.