L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA OGGI NON PUÒ PRESCINDERE DAI PROGRESSI COMPIUTI NEGLI ANNI RECENTI DALLA CONOSCENZA DEI MECCANISMI DI FUNZIONAMENTO DELLA MENTE UMANA, SUL PIANO BIOLOGICO COME SU QUELLO FUNZIONALE
Interviste parallele a Edoardo Boncinelli e a Pietro Ichino, curate da Alessandra Gardoni, per Assolombarda News, 26 gennaio 2017, in occasione della presentazione del libro di Fabrizio Favini, Comportamenti aziendali ad elevata produttività, ed. Guerini, 2016
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Il giuslavorista e senatore Pietro Ichino e lo scienziato esperto di genetica Edoardo Boncinelli hanno partecipato alla presentazione del libro Comportamenti aziendali ad elevata produttività di Fabrizio Favini. Abbiamo chiesto a entrambi quali sono i consigli che darebbero a un manager.
Cosa devono imparare i manager dalle neuroscienze? Come possono essere d’aiuto alle imprese?
Pietro Ichino: Le neuroscienze, la psicologia cognitiva, la psicologia sociale, la scienza della comunicazione, la filosofia della mente, consentono oggi di comprendere i meccanismi del comportamento umano, del sistema motivazionale, delle relazioni interpersonali, molto meglio rispetto al passato. Negli anni più recenti, proprio in riferimento al contesto dell’organizzazione aziendale, esse hanno molto contribuito ad approfondire la conoscenza di quella che chiamiamo intelligenza sociale. “Sapersi mettersi nei panni degli altri” e conoscere i meccanismi dell’empatia, di cui si conoscono sempre meglio gli aspetti fenomenologici ma anche i meccanismi neurali che la governano, sono oggi considerati come elementi di una competenza specifica di cui il management aziendale deve disporre.
Chi ha responsabilità manageriali dovrebbe essere in grado di leggere con rapidità e competenza i profili personali, gestire le conflittualità attraverso una capacità dialettica di identificazione con le parti, introdurre leve produttive basate sull’individuazione di capacità specifiche di interazione. Tutto questo e molto altro rientra in una abilità ben definita, e suscettibile di essere molto potenziata, che è appunto l’intelligenza sociale. Per quanto ovviamente non sia necessario, così come non è ovviamente sufficiente, essere neuroscienziati per essere dotati di intelligenza sociale, il patrimonio di conoscenze teoriche che le neuroscienze ci mettono a disposizione su questo aspetto (così come su molti altri) della psicologica umana è senz’altro prezioso per chiunque lavori nella gestione delle risorse umane.
Edoardo Boncinelli: Imparare fa sempre bene, anche quando ci rivolgiamo alle neuroscienze. Bisogna però ricordare che non tutto quello che si impara può essere applicato in questo ambito. Dalle neuroscienze, comunque, i manager dovrebbero apprendere prima di tutto che non siamo affatto animali razionali e che non siamo univoci. Insomma, siamo esseri a razionalità limitata.
Che cos’è il talento in un’azienda? Come si riconosce e, soprattutto, come si valorizza?
Pietro Ichino: Il talento è la capacità di risolvere i problemi che sorgono per la produzione di beni o di servizi, oggetto dell’attività aziendale. Riconoscere e valorizzare il talento delle persone che dell’azienda fanno parte è possibile solo se non si danno per acquisite, definitivamente conosciute, le loro capacità sulla base dell’accertamento iniziale e del conseguente inquadramento in una “casella” professionale, ma si consente loro di esprimersi nel lavoro anche al di fuori di quella “casella” e si considerano attentamente le attitudini che via via esse esprimono. Per riconoscerlo e valorizzarlo occorre sempre, in qualche misura, anche aprire canali di comunicazione personale e farli funzionare il più possibile, cercando che attraverso di essi possa esprimersi tutta la personalità della persona, e non soltanto quella parte di essa che fin dall’inizio è stata valutata e selezionata come utile all’azienda.
Edoardo Boncinelli: Certamente è la forte predisposizione a fare bene qualcosa. Ma non deve venire meno l’impegno, mai. È proprio un vizio degli italiani: in tanti ambiti hanno un talento così grande da non impegnarsi. La difficoltà, comunque, sta nel riconoscerlo quel talento, nel trovarlo. Cosa posso dire a chi deve gestire dei collaboratori? Ricordarsi che una persona che fa una cosa che sa fare bene produce di più e produce ancora di più se non lavora sotto stress. Fondamentale poi sarebbe chiedere ad una persona solo quello che può dare e non di più. Ma ammetto che sia molto più facile da dire che da fare.
Come può un manager, secondo la vostra esperienza, far crescere la produttività dei dipendenti?
Pietro Ichino: Valorizzare il talento dei dipendenti implica consentire che i ruoli aziendali siano comunicanti tra loro e in qualche misura contendibili. Per esempio: non deve essere considerato come un reato di lesa maestà il fatto che un dipendente inquadrato nella casella A abbia l’ardire di proporsi anche per una funzione attinente alla casella B, o di proporre idee o modalità nuove per svolgere quella funzione. Questo implica, ovviamente, una organizzazione aziendale che favorisca al massimo la trasparenza dei comportamenti, la circolazione delle informazioni e delle idee nuove.
Edoardo Boncinelli: È fondamentale non far perdere la speranza. La speranza ci spinge ad andare avanti ed è dannoso toglierla. Anche nei momenti negativi non si dovrebbe mai abbattere troppo il collaboratore. La speranza è fondamentale. Per far crescere la produttività dico anche che bisognerebbe conoscere quello che può dare una persona prima di chiedere e, soprattutto, non chiedere a tutti le stesse cose pensando che tutti siano uguali.
Quali sono i comportamenti corretti da attuare nella gestione dei collaboratori?
Pietro Ichino: Le rispondo con un episodio significativo appreso da un amico neurologo, che a cavalo degli anni ’70 e ’80 andò per due anni negli USA per la specializzazione. Appena arrivò nel nuovo laboratorio, nonostante avesse un progetto specifico da svolgere, il suo capo, per circa due mesi, lo mise a fare il lavoro del tecnico: a lavare la vetreria, a pulire i banconi, a preparare le soluzioni, e così via. Lui, frustrato, chiese un colloquio col capo per protestare; e si sentì rispondere più o meno così: “Prima di mettere mano ai tuoi esperimenti devi imparare che quando inizierai il tuo progetto avrai bisogno di persone che ti facciano il lavoro che sino ad ora hai fatto tu per altri e che ogni tua azione comporta un carico di lavoro anche per altri. Quello che hai fatto sino ad ora ti serve per capire che non sei isolato nella tua ricerca, ma che questa comporta una serie di ricadute meno gratificanti rispetto alla tua creatività scientifica”. A trent’anni di distanza il neurologo mio amico dice che quella è stata per lui una grande lezione di vita professionale, che ha poi sempre messo in pratica con profitto.
Edoardo Boncinelli: Come detto, non si dovrebbe mai far perdere la speranza. Però aggiungo: il manager si dovrebbe sforzare di essere prevedibile nei comportamenti. So che è difficile, ma l’imprevedibilità riduce le nostre prestazioni e ci infonde insicurezza. Dico anche che le neuroscienze possono dare al manager un contributo importante, ma allo stesso tempo si dovrebbe lasciar andare.
Quali quelli da evitare assolutamente?
Pietro Ichino: I comportamenti inversi rispetto a quelli di cui parlavo prima: cioè quelli tendenti a ingabbiare un collaboratore in un ruolo vietandogli ogni interferenza con quello degli altri; quelli tendenti a rendere opaci i meccanismi decisionali e l’organizzazione, a limitare la circolazione delle informazioni e delle idee.
Edoardo Boncinelli: Un comportamento molto comune è assolutamente da evitare: trattare tutti nella stessa maniera. Il manager dovrebbe essere consapevole del fatto ha di fronte persone sempre diverse e comportarsi di conseguenza, non agire come se tutti rispondessero allo stesso modo. È un errore molto comune anche tra i genitori: ci illudiamo che i nostri figli sono uguali l’uno all’altro, ma è sbagliatissimo.
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