PER CONVINCERE L’OPINIONE PUBBLICA CHE, NELL’INTERESSE DI TUTTI, È MEGLIO LA GIUSTIZIA CHE “RICUCE” RISPETTO A QUELLA CHE “TAGLIA”, OCCORRE RACCONTARE LE MOLTE STORIE DI SUCCESSO DEL METODO DELL’ “AGO E FILO” FIN DALL’INIZIO, DA QUANDO LA FERITA È ANCORA APERTA NELLA VITTIMA E NELL’ANIMO DI CHI L’HA COLPITA
Il 20 gennaio 2017 nella grande palestra del Carcere di Padova si è svolto un convegno promosso dalla rivista Ristretti Orizzonti, diretta da Ornella Favero, sul tema del “fine pena mai” e degli eccessi nell’applicazione delle misure di sicurezza previste dagli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, con la partecipazione di circa 600 persone – Quello che segue è il mio intervento nel corso dell’incontro, che ha visto anche quelli di numerosi detenuti, di loro parenti, e di altrettanto numerosi studiosi, politici ed esperti della materia, tra i quali il professor Giovanni Maria Flick, l’ex-pubblico ministero milanese Gherardo Colombo, il direttore dell’Unità Sergio Staino, l’esponente radicale Rita Bernardini, il senatore Luigi Manconi e il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore – Questo mio intervento è stato ripreso quasi integralmente su l’Unità del 25 gennaio 2017 sotto il titolo Le carceri cambiano se cambiano gli italiani – I link a documenti precedenti in argomento, già a loro tempo pubblicati su questo sito, sono contenuti nel testo .
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Sul Foglio di oggi Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto ed ex-magistrato, mette il dito su di una piaga che ci riguarda tutti e alla quale dobbiamo prestare molta attenzione, se vogliamo che i temi di questo convegno diventino parte integrante della cultura nazionale. La piaga è la divaricazione impressionante tra la realtà sociale, nella quale la criminalità è fortunatamente in continua diminuzione da almeno dieci anni, e l’immagine del fenomeno diffusa dai media, soprattutto dalla televisione, che convince invece l’opinione pubblica di un aumento della criminalità, alimentando un senso crescente di insicurezza, di paura. Dal senso di insicurezza e di paura alla parola d’ordine “schiaffarli in galera e gettare la chiave” il passo è brevissimo.
Poco fa, mentre parlava Giovanni Maria Flick, ho cercato di sintetizzare il cuore del suo discorso in questo tweet: “Padova: G.M. Flick interviene sul paradosso dell’ergastolo, che la Consulta giudica costituzionale solo in quanto non venga applicato davvero”. La prima risposta che ho ricevuto è questa, di uno sconosciuto A.P.: “Io sto con Abele, non con Caino. Dobbiamo pensare alle vittime, non ai criminali”. Dobbiamo prendere atto che oggi la maggior parte della gente ragiona così. E questo si riflette sugli orientamenti di un ceto politico debole, incapace di svolgere autorevolmente un ruolo pedagogico, di guida, nei confronti dei propri elettori. Ne ho avuto la diretta percezione quando due anni fa, dopo l’incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti proprio in questo carcere, insieme al collega Gianpiero Dalla Zuanna e a diversi altri senatori, scrivemmo una lettera al Presidente del Senato e al Presidente della Commissione Giustizia chiedendo che questa dedicasse un’audizione, nella sede di Palazzo Madama, a un gruppo di condannati all’ergastolo e detenuti in regime di articolo 41-bis. Nel presentare quella proposta osservavamo che il Parlamento ascolta tutte le categorie dei cittadini, tutti i segmenti della società civile: è dunque doveroso che esso ascolti anche queste persone, che sono in stato di detenzione nelle condizioni più dure, che fanno pur sempre parte anch’esse della società civile. La nostra proposta venne respinta sulla base di questo solo argomento: “La gente non capirebbe”. Non valse a nulla la nostra replica: “Tocca a noi far capire alla gente perché compiamo questo gesto: ce lo impone l’articolo 27 della Costituzione”.
Siamo dunque di fronte a un difetto della politica, che rinuncia a (perché non è capace di) orientare l’opinione pubblica in direzione della soluzione migliore dei problemi. Le battaglie di una rivista come Ristretti Orizzonti e i convegni come questo hanno il compito di spronare almeno la parte dei politici che su questi temi ha la visione più avanzata, più coerente con quel principio costituzionale, a darsi maggiore coraggio e venire allo scoperto.
In qualche misura il ministro Andrea Orlando lo ha fatto, l’altro ieri, quando nella sua relazione al Senato sullo stato della Giustizia in Italia ha indicato come risultato positivo conseguito e da rafforzare “un nuovo e più maturo equilibrio del rapporto fra presenze carcerarie ed esecuzione penale esterna, ormai quasi paritario” e “l’ampliamento dei presupposti per l’accesso alle misure alternative, l’introduzione dell’istituto della messa alla prova per gli adulti […] un sistema di probation ampio ed effettivo”, esteso a tutte le pene, senza preclusione per quelle di maggiore durata. Ma credo che si possa chiedere al Governo anche qualche cosa di più. Per esempio, approfitto della presenza a questo tavolo del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, di cui ben conosco la grande sensibilità per i temi che ci stanno a cuore, che il Governo colga l’occasione offerta dall’interrogazione presentata esattamente un anno fa in tema di articolo 41-bis per esplicitare in Parlamento le opinioni che su questo tema so essere condivise dallo stesso Gennaro Migliore e dal ministro Andrea Orlando. Quell’interrogazione era nata da un incontro nel carcere di Parma, promosso da Ornella Favero, con un gruppo di ergastolani e con alcuni detenuti in regime di 41-bis; nel testo, cui gli stessi detenuti hanno attivamente contribuito, denunciavamo che “là dove viene applicato il regime previsto da questa norma dell’ordinamento penitenziario, vengono invariabilmente disposte anche misure che appaiono – salvo casi particolari – incongrue rispetto alle esigenze di sicurezza che il regime deve soddisfare; in particolare:
– la limitazione dell’orario dei colloqui con i familiari della persona detenuta a una sola ora al mese;
– la regola della rigida invariabilità del giorno e dell’orario fissati dall’amministrazione penitenziaria per il colloquio i familiari, per cui il colloquio salta anche quando questi ultimi abbiano subìto un impedimento oggettivo a presenziare al colloquio (per esempio a causa di uno sciopero dei mezzi di trasporto);
– la regola per cui le conversazioni telefoniche consentite tra la persona detenuta e i familiari possono avvenire soltanto a condizione che questi ultimi si facciano trovare per la chiamata presso un carcere;
– il divieto di cucinare i propri alimenti in cella;”
e osservavamo che “la previsione legislativa rigida dei contenti della misura, i quali non sono dunque più modulabili dal ministro a seconda delle circostanze concrete, ha indebitamente introdotto una rigidità del sistema […]; resta non previsto e non disciplinato il dovere di consentire anche ai detenuti in regime di 41-bis, nonostante le limitazioni necessarie, di usufruire di istituti e strumenti per intraprendere e proseguire il percorso rieducativo (cultura, istruzione, assistenza religiosa ove richiesta dalla persona interessata, osservazione e colloqui con gli educatori, contatti con persone esterne adeguatamente selezionate: i colloqui con persone diverse dai familiari sono autorizzati solo in via eccezionale, caso per caso, dalla Direzione); donde un profilo assai rilevante di possibile violazione dell’art. 27, comma 3, della Costituzione”.
Chiedo dunque al sottosegretario Gennaro Migliore: perché non fare della risposta a questa interrogazione, i cui contenuti corrispondono perfettamente agli orientamenti emersi l’anno scorso dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale promossi dal suo stesso dicastero, l’occasione per uno statement of policy del Governo accuratamente motivato, capace di fornire all’opinione pubblica argomenti convincenti sul punto che nessuno sarà meno sicuro in Italia se a un detenuto in regime di 41-bis si consentirà di cucinarsi in cella i propri alimenti; se gli orari degli incontri con i familiari saranno stabiliti in modo meno rigido; se lo stesso regime verrà applicato in modo più strettamente correlato alle circostanze di ciascuna detenzione; se la permanenza di quelle circostanze sarà controllata periodicamente, con la dovuta frequenza, da un organo competente capace di verificarle in loco, e non da centinaia di chilometri di distanza; se si terrà conto delle situazioni nelle quali il detenuto è realmente recuperato alla convivenza civile, anche se non ha, perché non può più avere, nulla da offrire in termini di informazioni utili alla lotta dello Stato contro la criminalità organizzata.
Dunque, la politica deve fare la sua parte. Ed è giusto criticarne la debolezza e i ritardi. Ma credo che anche la parte di società civile mobilitata su questo tema, e prima fra tutti la redazione di Ristretti Orizzonti, possa e debba fare la sua parte fino in fondo. Qui tocco un tema sul quale con la direttrice della Rivista e alcuni detenuti dei carceri di Padova e di Parma ho avuto un utile dibattito e c’è forse ancora qualche dissenso; ma siamo qui per discutere apertamente, non soltanto per cantare a una sola voce.
Fare la propria parte fino in fondo, da parte di voi redattori di Ristretti Orizzonti che giustamente denunciate gli eccessi di durata delle pene e l’inutile durezza delle misure di sicurezza nella maggior parte in cui esse sono applicate, significa anche riconoscere che esistono tuttavia alcuni casi in cui esse si giustificano: non come vendetta della società nei confronti del reo, ma soltanto come misura di prevenzione di nuovi comportamenti criminosi da parte di detenuti che non hanno rinunciato affatto a ripeterli, che anche dopo venti o trent’anni di detenzione sono pronti a continuare anche dall’interno del carcere la loro guerra contro la società civile; ho vissuto personalmente l’esperienza di essere bersaglio di minacce provenienti anche da aggressori detenuti da tempo. Fare la propria parte fino in fondo significa non limitarsi a denunciare l’eccesso di rigore nell’esecuzione della pena, o la sua eccessiva durata, in tutti i casi in questo eccesso si manifesta, ma spingersi a parlare di tutto il cammino compiuto dalla persona che sta soffrendo di quell’eccesso, fin dall’inizio, fin dal momento in cui ha commesso il crimine per il quale la pena le è stata inflitta, proprio per mostrare come la riabilitazione si sia compiutamente realizzata e come proprio la sua riconciliazione con la società civile costituisca la garanzia di sicurezza migliore per la società stessa.
Sostengo questo, perché di fronte a una opinione pubblica che per la maggior parte identifica la Giustizia soltanto con la spada che vendica tagliando, amputando, uccidendo, è necessario mostrare i successi della Giustizia che invece opera – in coerenza con l’articolo 27 della Costituzione – con l’ago e il filo, che ricuce, che risana. Per questo è necessario raccontare non soltanto la sofferenza indebita, incivile, oggi patita dal detenuto già compiutamente riabilitato, bensì raccontare tutta la sua storia, il percorso compiuto, il suo ritorno nel novero delle persone nelle quali si può riporre piena fiducia, quella che i teologi indicano come la sua metànoia, la sua conversione. È solo questo il racconto che può produrre una conversione anche nell’opinione pubblica maggioritaria.
Nel recensire sul Corriere della Sera il bel libro scritto da Carlo Musumeci e Andrea Pugiotto contro la pena dell’ergastolo ho sostenuto che parlare anche di questa parte più antica di ciascuna vicenda individuale – nel caso di Musumeci, una vicenda di evidente successo della Giustizia “ago e filo” – è indispensabile, perché significa andare al nocciolo della vicenda, a quella rinascita della persona che segna il raggiungimento di entrambe le finalità della pena previste dalla Costituzione: il recupero del reo ai valori della convivenza civile e la migliore, più radicale protezione di altre persone contro il ripetersi del suo comportamento criminale. Certo, residua una terza finalità della pena: la deterrenza, cioè il disincentivo efficace e proporzionato contro i possibili comportamenti criminali di altri individui. Ma, anche volendo prescindere dall’assai dubbio effetto deterrente della pena dell’ergastolo, è evidente l’impossibilità logica che l’esecuzione di una pena resti immutabile nel suo contenuto e nel suo rigore quando ben due delle sue tre funzioni siano state pienamente adempiute. Dunque, per l’efficacia della giusta battaglia in difesa del “diritto a un futuro” del detenuto, è essenziale dar conto non soltanto del suo tempo presente, ma anche del suo passato: precisamente dar conto di come nel corso dell’esecuzione della pena si è prodotta la sua redenzione. Anche perché il darne conto comporta il riconoscimento – necessario affinché la battaglia sia vincente – della funzione positiva che la pena ha svolto, in quella fase passata.
Se non facciamo questo, rischiamo di salvarci la coscienza con discorsi che in questa sala riscuotono un consenso unanime, che possono meritatamente riscuoterlo anche in molti altri circoli ristretti, ma che non riescono a fare breccia nel muro di una opinione pubblica che per la maggior parte rifiuta ancora il principio contenuto nel terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, resta ancora legata all’idea della Giustizia come dea bendata con la mano sinistra che regge la bilancia e nella destra la spada. Se vogliamo convincere quell’opinione pubblica che per la sicurezza di tutti sono molto più utili l’ago e il filo che la spada, dobbiamo mostrare non soltanto la ferita rimarginata e guarita, ma anche l’ago e il filo all’opera, fin dal momento in cui la ferita è ancora aperta e sanguinante nel corpo della vittima come nell’animo di chi la ha colpita, il processo della ricucitura e il suo successo. E senza avere paura di riconoscere che in alcuni – per fortuna pochi – casi quel processo di ricucitura non dà l’esito sperato: ciò che non legittima certo, neppure in quei casi, il “gettare la chiave”, ma implica la necessità di una maggiore quantità di tempo e di filo di sutura.
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