L’AUTORE, CONTESTANDO DURAMENTE LA MIA TESI, SOSTIENE, CON ARGOMENTI ASSAI DISCUTIBILI, LA TESI DELLA NECESSARIA RADICALE DIFFERENZA DELLA DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO RISPETTO A QUELLO PRIVATO
Articolo pubblicato il 9 gennaio 2017 sul sito luigioliveri.blogspot.it, in riferimento alla mia intervista pubblicata da la Repubblica il giorno precedente – Vedi in proposito la risposta mia e di alcuni lettori – L’Autore di questo articolo non deve essere confuso con l’omonimo Dirigente Coordinatore dell’Area Funzionale Servizi alla Persona e alla Comunità della Provincia di Verona, collaboratore del sito lavoce.info .
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Il giuslavorista Pietro Ichino non è ancora pago di aver scatenato la campagna sui “fannulloni” e di aver spinto verso la creazione di uno dei più inutili enti mai visti nel panorama della pubblica amministrazione italiana, la Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche).
Così inutile che uno dei componenti iniziali, chiamato proprio su indicazione e spinta del giuslavorista, Pietro Micheli, si dimise nel gennaio 2011 pochissimo dopo, avendo constato l’assoluta incapacità della Civit a svolgere le funzioni previste. Così inutile, che infatti non solo non ha mai prodotto alcuna direttiva utile per i sistemi di valutazione del personale, ma è stata abolita e in parte sostituita in alcune sue funzioni dall’Anac.
Sicchè, richiesto da La Repubblica di parlare sul tema delle assenze che nel lavoro pubblico risultano maggiori di quelle del privato, nell’articolo-intervista “Pietro Ichino: “Gli abusi sono favoriti dai dirigenti che non vigilano”” torna a proporre analisi e diagnosi fortemente fuori bersaglio.
Il giuslavorista è tenacemente ed orgogliosamente abbarbicato alla teoria secondo la quale le regole del lavoro privato debbano valere anche nel lavoro pubblico, considerando che la pubblica amministrazione dovrebbe funzionare “come un’azienda”.
Non c’è il minimo dubbio che il trattamento dei lavoratori dovrebbe, il più che sia possibile, essere il meno differenziato possibile, anche per non ledere basilari diritti di eguaglianza.
Sta di fatto, comunque, che per primo l’esimio giuslavorista sa che a seconda dei settori, delle qualifiche e delle mansioni le condizioni contrattuali, organizzative e logistiche dei lavoratori sono molto diverse, per quanto analoghe. Né si può immaginare che l’organizzazione di una piccola impresa artigiana debba essere uguale a quella di una grande industria.
Non si sa perché, invece, quando si parla di pubblica amministrazione da ormai un quarto di secolo si insiste nel voler applicare (per altro male) principi “aziendalistici”, commettendo una serie di errori:
1) non comprendere che la pubblica amministrazione non opera nel mercato, ma eroga servizi non in rapporto di concorrenza, agendo per lo più con poteri autoritativi; pertanto non è il mercato ad ottimizzarne l’azione, ma le regole operative pubblicistiche;
2) non comprendere che è erroneo parlare della pubblica amministrazione come fosse un aggregato unico ed indistinto: i 3 milioni di lavoratori pubblici operano in enti e funzioni estesissimi e totalmente eterogenei: si passa dai docenti delle scuole, agli addetti ai servizi cimiteriali, dall’attività delle forze dell’ordine alle autorità portuali, dai progettisti tecnici ai letturisti dei contatori, dai barellieri agli agenti di polizia locale, dai medici agli impiegati amministrativi; pertanto, l’organizzazione dei servizi e la stessa resa dei servizi non può essere considerata come un tutto unico e tutto riconducibile a metodologie aziendali. Basti pensare ai comuni: si tratta di enti che svolgono una quantità estesissima di funzioni fondamentali, oltre a tutta un’altra serie di funzioni e servizi non fondamentali, trattandosi di enti a finalità pubbliche generali e aperte. Nessun’azienda privata riuscirebbe a gestire un’estensione tale di servizi, senza fallire entro breve;
3) non comprende che la quantità enorme di leggi speciali poste a disciplinare il funzionamento delle pubbliche amministrazioni (proprio perché non operano nel mercato) e lo stesso rapporto di lavoro (fortemente diversificato da quello privato), rendono un ossimoro, un’antitesi irrisolvibile la presunzione di poter estendere all’attività pubblica regole che i privati, dotati di un’autonomia operativa di diritto privato incommensurabilmente maggiore, possono utilizzare.
Tornando all’intervista, riportiamo la domanda e la risposta, che rivela come la diagnosi proposta da Ichino sia ancora ferma alla fallimentare concezione del lavoro pubblico, da cui è disceso il flop gigantesto della Civit: “In fondo però non stiamo parlando di assenteismo, ma di comportamenti leciti, giustificati dall’ordinamento. Perché il datore di lavoro privato riesce ad arginarli e il pubblico no?
“In realtà non si tratta sempre di comportamenti leciti. Per esempio, la legge 104 non consentirebbe che il lavoratore, ottenuto il permesso, invece di assistere la vecchia zia ottantenne, si dedichi a un corso di canottaggio. Pensiamo anche ai permessi elettorali: non è ammissibile che in un servizio pubblico si dimezzino gli organici in occasione delle elezioni. Nel settore privato il dirigente verifica che chi ne fruisce sia veramente un militante del partito, vada a fare davvero il rappresentante di lista; nel pubblico nessuno si cura di controllare””.
Ecco il solito confronto tra pubblico e privato, come troppo spesso avviene, per altro, basato su affermazioni assolute, inidonee a verificare i dati reali analitici e posti ad imporre un’idea inemendabile: nel privato tutti controllano, nel pubblico nessuno!
Fatta l’affermazione propagandistica e demagogica, ecco la successiva affermazione che rivela l’estrema superficialità dell’analisi e la conoscenza abbastanza sommaria delle regole del lavoro pubblico. L’intervistatrice chiede se si tratti solo di una questione di incapacità dei dirigenti ed il prof. Ichino sentenzia: “Innanzitutto di irresponsabilità dei dirigenti. I vertici politici, da Brunetta in poi, hanno varato diverse norme anti-assenteismo, ma non hanno mai fatto l’unica cosa efficace: imporre ai direttori del personale l’obiettivo di allineare il tasso di assenze rispetto a quello di aziende private comparabili, entro un termine ragionevole, sotto pena di perdere l’incarico, come previsto dall’articolo 21 del Testo Unico (d.lgs 165/2001, nda)”.
In una sola semplice frase, una serie di incongruenze. Il prof. Ichino, quando afferma che non si è imposto l’obiettivo di ridurre il tasso delle assenze ai “direttori del personale” dimostra di non sapere che nella pubblica amministrazione la gestione del personale non è concentrata, come talvolta accade in alcuni enti pubblici o società a partecipazione pubbliche e spesso nelle aziende, sulla figura del”capo del personale”. Al contrario, la gestione concreta del rapporto di lavoro è affidata singolarmente a ciascun dirigente preposto alla direzione degli uffici.
Quello che viene definito “direttore del personale” o “capo del personale”, per lo più nelle pubbliche amministrazioni cura le attività “trasversali”: la complicatissima pianificazione delle assunzioni, il computo del valore annuale delle risorse decentrate, le procedure di contrattazione decentrata, l’attivazione dei concorsi, il pagamento degli stipendi, la cura delle istruttorie dei procedimenti disciplinari, la difficilissima elaborazione dei dati per il conto annuale del personale, le pratiche di pensionamento. Ma, al controllo dell’attività lavorativa e anche delle assenze, ci pensano i singoli dirigenti.
Dovrebbe essere notorio che per verificare l’effettiva assenza dal lavoro, i dirigenti debbono chiedere ai servizi ispettivi delle Usl l’uscita, che è onerosa. Esistono casi di pronunce della Corte dei conti di condanna di un eccesso di richieste, mentre al contempo, comunque, talmente pochi e inadeguati sono i componenti degli uffici ispettivi delle Usl che a seconda dei territori da un terzo fino alla metà delle segnalazioni vanno totalmente a vuoto.
Dunque, anche quei dirigenti volenterosi che cercano di effettuare i controlli, spesso si ritrovano con un pugno di mosche in mano, per inadeguatezza degli uffici addetti.
Se poi, per caso, qualcuno, anche operando in società pubbliche, si azzarda ad essere innovativo ed affida in appalto un servizio di investigazione privata, apriti cielo! Non solo si debbono porre in essere le bizantine procedure di gara (che ovviamente un’azienda privata nemmeno si sogna di attivare), ma la Corte dei conti valuta in maniera molto negativa simili iniziative e non ha fatto mancare sentenze di condanna per danno erariale.
Nessun dirigente di nessun’azienda privata deve fare i conti con le regole pubblicistiche degli appalti o con la responsabilità erariale nel gestire il rapporto di lavoro con i dipendenti. Non si vede come, dunque, possa nemmeno lontanamente determinarsi un obiettivo di allineamento dei tassi di assenza tra amministrazioni pubbliche e aziende private “comparabili”, posto che la “comparabilità” è totalmente esclusa esattamente dalle peculiarità molto evidenti dell’agire della PA.
Delle due, dunque, l’una:
- o si va verso una reale privatizzazione non solo delle regole di gestione del rapporto di lavoro, ma anche dell’agire, della PA, che venga esonerata dall’immenso gravame delle regole pubblicistiche da rispettare e del macigno della responsabilità erariale;
- oppure, si prende atto che il paragone tra PA e “privato” proprio non regge e continua ad essere buono solo per titolo roboanti ed interviste sui media, un po’ per celia, un po’ per non morire, ma con utilità prossima allo zero.