NON MISURE “ALLA TRUMP” DI DIFESA DEGLI INSIDER CONTRO GLI OUTSIDER, DELLE STRUTTURE PRODUTTIVE ESISTENTI CONTRO I NEW ENTRANTS, MA MISURE VOLTE AD APRIRE E RENDERE PIÙ ATTRAENTE IL NOSTRO PAESE AGLI IMPRENDITORI MIGLIORI, CAPACI DI VALORIZZARE MEGLIO IL LAVORO DEGLI ITALIANI
Intervista a cura di Tiziano Marino, pubblicata sul sito L’Indro il 12 gennaio 2017 – In argomento v. anche il mio articolo Politica industriale: le due leve sbagliate e le cinque giuste, pubblicato su il Foglio il 3 marzo 2015
.
.
Si preannuncia un ‘inverno caldo’ sulla questione lavoro in Italia. Fallita la vertenza Almaviva Contact, costata il posto a oltre 1.600 lavoratori in attesa dell’assegno di ricollocazione, tra le 145 trattative aperte al tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico, spicca quella su Alitalia. L’ex compagnia di bandiera, alla terza ristrutturazione in poco meno di 8 anni, «è stata gestita male» afferma il Ministro Carlo Calenda. L’obiettivo del ‘break-even’, un tempo fissato per la fine di quest’anno, dovrebbe scivolare al 2019 e, in attesa del piano di rilancio, il problema restano gli esuberi: più di mille tra tagli, licenziamenti, prepensionamenti ed esternalizzazioni, secondo le indiscrezioni che circolano da settimane. «Non esiste che si parli di esuberi prima di parlare di piano industriale. Nessuna azienda si salva senza piano industriale», prosegue il Ministro riconfermato a Palazzo Piacentini da Paolo Gentiloni. Il riferimento è al piano che stanno elaborando gli azionisti di Alitalia: la cordata di imprenditori italiani CAI, che ne possiede il 51 per cento, e la compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti Etihad, che di fatto la gestisce con il 49 per cento delle azioni. Sempre nella giornata di giovedì è giunta la risposta del Presidente di Alitalia, Luca Cordero di Montezemolo, che annuncia entro le prossime tre settimane un progetto «forte e coraggioso», che rilanci la competitività dell’azienda. Intanto i Sindacati di categoria sono sul piede di guerra. Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti e Ugl Trasporto Aereo, hanno scritto una lettera al Governo, chiedendo un «incontro urgentissimo» e si preparano agli scioperi del 20 gennaio, legato alle problematiche del Fondo di solidarietà del settore, e del prossimo 23 febbraio. E sulla situazione di Alitalia, è intervenuta Susanna Camusso, Segretario Generale della Cgil, che ha espresso la sua preoccupazione, individuando grandi «responsabilità dell’impresa, ma anche responsabilità del modo in cui si è mosso il Governo»
Sulla questione Alitalia e sulle strategie industriali del Governo, abbiamo intervistato il Professor Pietro Ichino, giuslavorista e Senatore del Partito Democratico.
Professor Ichino, dopo molti anni siamo ancora qui a parlare di esuberi in Alitalia. Paghiamo solo errori del passato o c’è stato un difetto di attenzione da parte del Governo nei confronti della crisi in atto?
La crisi di Alitalia ha radici molto lontane nel tempo: radici che affondano in decenni di gestione parastatale in regime di sostanziale monopolio sulle rotte interne e oligopolio sulle rotte internazionali, durante i quali il management si è spartito con i sindacati la cospicua rendita monopolistica. Quando è incominciata l’era della concorrenza, l’impresa non è stata capace di ristrutturarsi né, soprattutto, di cambiare la propria cultura aziendale.
Colpa di chi?
La dividerei equamente tra i politici della prima Repubblica, management e sindacati. Questi ultimi, poi, portano su di sé la responsabilità gravissima di avere rifiutato, nel 2008, la soluzione che il ministro dell’Economia Padoa Schioppa, superando molte difficoltà, aveva progettato: cioè l’acquisizione di Alitalia da parte di Air-France-KLM, che era il più grande vettore aereo mondiale. Allora Air-France-KLM offriva di accollarsi un miliardo e mezzo di debiti pregressi di Alitalia e di investire un miliardo fresco in più per la ristrutturazione; e si impegnava a limitare i tagli di organico entro limiti che erano la metà rispetto a quelli poi effettivamente attuati negli anni immediatamente seguenti.
Però anche Berlusconi era contrario a quella operazione.
Sì, ma Berlusconi non aveva ancora vinto le elezioni. Se Cgil Cisl e Uil avessero fatto sponda al ministro Padoa Schioppa e avessero accettato di negoziare il piano industriale con Air France-KLM, l’operazione avrebbe potuto chiudersi positivamente prima che Berlusconi tornasse a capo del Governo. Invece, in nome dell’“italianità” dell’impresa, hanno preferito “ingaggiare” come imprenditore una “cordata”, la C.A.I., dei cui membri, certo tutti italianissimi, nessuno aveva mai fatto volare un aereo. Per poi finire a dover accettare il mezzo matrimonio con Etihad, che proprio perché “dimezzato” ha risolto ben poco sul piano industriale.
Ora però il ministro Calenda ha parlato di “un piano industriale da dettagliare rapidamente”. Quali interventi si aspetta dal nuovo Governo?
Avrò un incontro con Carlo Calenda la settimana prossima, dal quale trarrò maggiori informazioni su quello che si propone di fare. Conoscendolo bene, però, penso di non sbagliare ipotizzando che il suo “piano industriale” consista essenzialmente nell’accelerare il processo, già in atto da un quinquennio, volto a rendere l’Italia più attrattiva per gli investitori, soprattutto stranieri. Oggi l’aumento del flusso di investimenti diretti dall’estero costituisce la leva principale, se non l’unica, di cui disponiamo per aumentare il ritmo della crescita economica del nostro Paese, la produttività del lavoro degli italiani e il loro potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro, quindi anche le loro retribuzioni.
Si parla, però, anche di difesa dell’italianità delle imprese strategiche.
Ho molte perplessità sia sul concetto di “difesa dell’italianità”, sia su quello di “imprese strategiche”. Sull’”italianità”, prendiamo per esempio il caso delle telecomunicazioni: perché mai dovremmo considerare pericoloso da un punto di vista “strategico” il fatto che Telecom sia controllata da un imprenditore d’oltralpe piuttosto che da un italiano? L’esperienza dei servizi deviati nella Telecom governata dall’italianissimo Tronchetti Provera, o quella di Mediaset controllata ed esplicitamente utilizzata nelle competizioni elettorali da un politico italiano di primissimo piano, nell’ultimo quarto di secolo, mi sembra che stiano a indicare semmai il contrario. E poi, chi stabilisce, e secondo quali criteri, che un’impresa di telecomunicazioni sia più “strategica” di un’impresa di trasporti, di una siderurgica, o di una alimentare? Non sono uno specialista della materia; ma ho forte il sospetto che si tratti di una categoria di comodo, utilizzata per nascondere il desiderio di non liberarsi dei vecchi vizi di un’Italia molto provinciale.
Insomma, par di capire che lei sia scettico sull’idea di una nuova politica industriale del Governo.
No: sono scettico, anzi nettamente contrario, soltanto a scelte che si fregino del titolo di “politica industriale”, ma che siano essenzialmente mirate a favorire gli insider contro gli outsider, cioè a difendere le strutture esistenti e i loro dipendenti attuali, impedendo l’insediamento di strutture nuove e nuova occupazione. Una “politica industriale” alla Trump, per intenderci. La politica industriale buona deve consistere, invece, nel favorire al massimo grado l’insediamento di imprese nuove, senza la pretesa di selezionarle, se non secondo il criterio della serietà del piano industriale e dell’affidabilità di chi lo propone. Questa politica industriale, poi, deve gemellarsi con una politica del lavoro che sostenga nel modo più efficace i lavoratori interessati nel passaggio dalle vecchie imprese meno produttive alle nuove più capaci di valorizzare il lavoro degli italiani.
.