STUPISCE CHE SIA PROPRIO LA CGIL A PROPORRE L’ABOLIZIONE DEI VOUCHER, STRUMENTO INDISPENSABILE PER TUTELARE E RENDERE TRASPARENTE UN SEGMENTO MARGINALE MA RILEVANTE DEL TESSUTO PRODUTTIVO, E LA RIDUZIONE DEL POTERE NEGOZIALE DEL SINDACATO IN MATERIA DI TUTELA DEI LAVORATORI NEGLI APPALTI
Testo integrale dell’intervista a cura di Filippo Passantino, pubblicata con alcuni piccoli tagli sul Giornale di Sicilia il 12 gennaio 2017 – In argomento v. anche i numerosi documenti e interventi raccolti dal novembre scorso nella sezione Lavoro di questo sito
.
.
Professor Ichino, che cosa testimonia la decisione della Corte Costituzionale di non ammettere il quesito che avrebbe ripristinato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?
Che la Consulta questa volta ha fatto rigorosamente soltanto il suo mestiere. Fin dalla presentazione di questi tre quesiti referendari promossi dalla Cgil non soltanto io, ma numerosi altri giuslavoristi e costituzionalisti avevano rilevato l’evidente inammissibilità di quello sui licenziamenti, per il suo carattere non unitario e per il fatto che era mirato a introdurre una norma nuova, mai esistita nel nostro ordinamento: quella sull’applicabilità del vecchio articolo 18 anche alle aziende con meno di 15 dipendenti fino a un minimo di 5. Viceversa, sugli altri due quesiti si poteva esprimere, e anch’io lo ho espresso. il dissenso più netto; ma non era seriamente sostenibile la loro inammissibilità. È dunque correttissimo che la Consulta li abbia ammessi.
Che cosa significa l’inciso “questa volta” che lei ha usato: altre volte la Corte costituzionale si è comportata in modo diverso?
Ultimamente alcune sue sentenze mi sono parse poco rigorose, e con aspetti di notevole incoerenza rispetto alla sua stessa giurisprudenza: mi riferisco, per fare solo un esempio, alla sentenza n. 70 del 2015, che ha considerato incostituzionale la sospensione temporanea, e in un periodo di inflazione molto bassa, della rivalutazione periodica delle pensioni di entità pari a tre volte il minimo, in un contesto in cui a tutte le categorie di cittadini si chiedeva un contributo al riequilibrio dei conti pubblici.
Quanto ha inciso nel pacchetto delle politiche sul lavoro varato dal governo Renzi, lo stop al reintegro del lavoratore nell’azienda in caso di licenziamento ingiustificato?
Ha contribuito in modo decisivo, insieme alla decontribuzione che ha operato nel 2015 e nel 2016, a rimettere in moto il nostro mercato del lavoro. In quest’ultimo biennio l’occupazione è cresciuta, e sta continuando a crescere, a un tasso superiore rispetto al prodotto interno lordo. Solitamente accade l’inverso: il tasso di occupazione ricomincia a crescere dopo che ha preso a crescere il pil, e in misura inizialmente inferiore. Il dato negativo è che di questa crescita non stanno godendo i giovani, ma soltanto adulti e anziani.
Perché accade questo?
Perché, se si escludono tre regioni del nord, mancano del tutto i servizi di orientamento scolastico e professionale, i programmi di alternanza scuola-lavoro, un sistema di rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, Se il tasso di disoccupazione generale è all’11 per cento e quello giovanile è al 39, la causa va cercata nelle difficoltà specifiche che incontrano i giovani nel passaggio dalla scuola al tessuto produttivo. E nell’assenza dei servizi che, nei Paesi del centro e nord-Europa, vengono attivati capillarmente proprio per aiutarli a superare quelle specifiche difficoltà.
Che cosa ha prodotto finora il Jobs Act? Quali vantaggi hanno tratto le imprese e i lavoratori?
Oltre alla ripresa della crescita del tasso di occupazione generale, di cui ho detto prima, il fatto che due terzi degli 800mila nuovi posti di lavoro creati in due anni siano a tempo indeterminato. Negli ultimi anni fino al 2014 le assunzioni a tempo indeterminato erano state un sesto rispetto al flusso generale delle assunzioni. Inoltre, via via che i contratti a tutele crescenti andranno diffondendosi, aumenterà la mobilità del lavoro, quindi migliorerà l’allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, con un conseguente aumento della produttività media del lavoro, che a sua volta porterà a un aumento dei redditi da lavoro.
Come giudica invece il sì della Corte al referendum sui voucher?
Mi sembra ineccepibile. L’intendimento perseguito dal quesito è profondamente sbagliato; ma il quesito è formalmente ineccepibile.
Perché ritiene il quesito profondamente sbagliato? I voucher non sono uno strumento che incentiva il precariato?
Tutti, compresi i sindacati di settore della Cgil che nell’ultimo anno ne hanno utilizzati 750.000, sanno che c’è una infinità di prestazioni occasionali per le quali non è ragionevole esigere dal datore di lavoro di aprire una posizione Inps e dotarsi di un libro-paga e matricola: eliminare i buoni-lavoro equivale a condannare tutte queste forme di lavoro a tornare nel sommerso. I 121 milioni di voucher utilizzati in Italia nel 2016 equivarrebbero, se si fosse trattato di rapporti a tempo pieno, a circa 60.000 posti di lavoro, in un Paese in cui le ore di lavoro si misurano in miliardi e la forza-lavoro è costituita da 23 milioni di persone: chi può ragionevolmente sostenere che quei 121 milioni di voucher offrano di per sé l’evidenza dell’abuso?
Ritiene che abusi non ce ne siano stati?
No, certo che ce ne sono stati. Ma tutto sommato marginali rispetto al fenomeno nel suo complesso. Individuiamoli e correggiamo la legge in modo da prevenirli; ma eliminare i voucher significherebbe privare di ogni tutela il lavoro occasionale. Sarebbe persino incostituzionale, visto che l’articolo 35 della Costituzione protegge il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”.
Il governo ha annunciato un intervento su questo tema. A quale soluzione potrebbe condurre?
Impedire l’utilizzazione dei voucher in alcuni settori dove gli abusi sono stati più frequenti, come quello edilizio, e nei casi in cui l’imprenditore ne abbia fatto uso sistematico, continuativo: cosa che l’Inps può rilevare molto facilmente.
E il quesito sugli appalti?
Questo mira alla soppressione di una norma contenuta nella legge Biagi del 2003 che attribuisce al sindacato la facoltà – la facoltà, si badi bene, non l’obbligo! – di contrattare “metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”, sostituendo una disciplina negoziata a una rigida norma legislativa che regola la materia. Un sindacato che propone questo è un sindacato che nega la propria funzione.
Quali ricadute pratiche possono verificarsi per le imprese alla luce dei quesiti referendari ammessi dalla Corte costituzionale?
Io spero proprio che sui due referendum dichiarati ammissibili dalla Consulta gli italiani si pronuncino con un secco “no”. Se dovesse invece prevalere il “sì” sui voucher, le imprese non ne risentirebbero più che tanto: l’effetto consisterebbe più che altro in un ritorno di fiamma del lavoro nero. Se dovesse prevalere il “sì” sulla disciplina degli appalti, l’effetto sarebbe un irrigidimento della normativa su questa materia e una perdita di ruolo dei sindacati maggiori. Stupisce che a proporsi questo effetto sia una grande confederazione sindacale, che è stata guidata in passato da Giuseppe Di Vittorio, da Luciano Lama e da Bruno Trentin. E ancor più che in questa confederazione non si levi neppure una voce di dissenso.