NEI PAESI ANGLOSASSONI AI GIORNALISTI È VIETATO ATTRIBUIRE ALL’INTERVISTATO ANCHE UNA SOLA PAROLA CHE NON SIA STATA DETTA; DA NOI, INVECE, È CONSENTITO ATTRIBUIRGLI ESPRESSIONI CHE NE RENDONO IL PENSIERO UN PO’ PIÙ CONTUNDENTE: UNA PICCOLA INIEZIONE DI FAZIOSITÀ DI CUI LA POLITICA NON AVREBBE BISOGNO
Lettera inviata il 9 gennaio 2017 al Direttore de la Repubblica, il quale la ha inoltrata ai redattori del quotidiano con una propria nota di consenso e l’invito ad adottare da qui in avanti, nelle interviste, lo standard di accuratezza e precisione proposto, evitando gli eccessi artificiosi di “polarizzazione” del pensiero dell’interlocutore – La pubblico su questo sito con il suo consenso .
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Al Direttore di Repubblica
Mario Calabresi
Caro Direttore, vorrei cogliere l’occasione di due mie interviste pubblicate da Repubblica in queste ultime settimane, per una riflessione sulla qualità dell’informazione giornalistica che spero possa essere di qualche interesse per lei, per i giornalisti e per i lettori del quotidiano da lei diretto. Le interviste sono una sul tema dei referendum in materia di lavoro promossi dalla Cgil, a cura di Giovanna Casadio, del 16 dicembre scorso, l’altra sul tema dell’abuso delle norme protettive nel settore pubblico, a cura di Rosanna Amato, dell’8 gennaio. In entrambi i casi le interviste hanno riportato in modo del tutto corretto le mie risposte, ciò che mi è stato consentito controllare preventivamente; ma in entrambi i casi è stato introdotto all’inizio, come “cappello” o come titolo del pezzo, senza sottoporlo al mio controllo preventivo, un virgolettato contenente una frase nella quale il mio pensiero è stato estremizzato, espresso in una forma contundente che non ho usato e nella quale non mi riconosco.
Nella prima intervista la frase contundente, introdotta all’inizio dell’articolo per sintetizzare il mio pensiero, era questa: “Il Jobs Act non si tocca”. Una affermazione arrogante, atta a troncare una discussione prima ancora che essa si apra; un modo di esprimersi che non mi appartiene e non corrisponde al mio pensiero. Non corrisponde, tra l’altro, neppure al contenuto dell’intervista, nella quale ammettevo l’opportunità di qualche modifica alla riforma del 2015, in materia di buoni-lavoro. Perché, dunque, questa forzatura?
Nella seconda intervista il virgolettato contundente è stato introdotto addirittura nel titolo: “Gli abusi sono tutta colpa dei dirigenti che non vigilano”. Un’affermazione che non compare nell’intervista; e che contiene una evidente sciocchezza: la colpa degli abusi in questione è innanzitutto di chi li compie e dei medici compiacenti che rilasciano i certificati di comodo; le colpe del management vengono dopo e sono di diversa natura. Anche qui una forzatura, una estremizzazione del pensiero dell’intervistato.
Capisco che possa esserci un interesse giornalistico a questa estremizzazione, per fare maggiormente colpo sui lettori; ma al prezzo di una perdita di accuratezza dell’informazione, un deterioramento della sua qualità. Una piccola iniezione di faziosità, della quale la politica italiana non ha certo bisogno.
Nei Paesi anglosassoni una precisa norma di deontologia professionale vieta ai giornalisti di attribuire alla persona intervistata qualsiasi frase virgolettata che non corrisponda esattamente alle parole da questa pronunciate. So che questa regola non vige anche da noi; ma penso che da un quotidiano come Repubblica i lettori possano e debbano attendersi un livello di precisione e accuratezza dell’informazione non inferiore rispetto ai migliori standard che ci si offrono nel panorama mondiale. Sarebbe anche un contributo al miglioramento della qualità della politica nostrana.
Con immutata stima e amicizia
Pietro Ichino