SOPRATTUTTO, MA NON SOLTANTO, NEL CENTRO-SUD SI REGISTRA UN EVIDENTE ABUSO FRAUDOLENTO DI PROTEZIONI DISPOSTE PER SITUAZIONI DI VERA MALATTIA O DISABILITÀ GRAVE, MIRATO AL GODIMENTO INDEBITO DI ESENZIONI DAL SERVIZIO, TRASFERIMENTI O PERMESSI RETRIBUITI
Servizio di Marco Ruffolo pubblicato su la Repubblica l’8 gennaio 2017 – In argomento v. anche la mia intervista a cura di Rosaria Amato, pubblicata sulla stessa pagina di quel quotidiano .
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Cosa dobbiamo pensare quando a Palermo 270 netturbini hanno potuto esibire un certificato medico che vieta loro di spazzare le strade, quando in Calabria oltre la metà del personale sanitario riesce a farsi trasferire dietro una scrivania e il 50% dei dipendenti della protezione civile lavora al centralino, quando a Como gli operai assunti dal Comune diventano di colpo impiegati, quando a Pescara 50 infermieri e operatori socio-sanitari svolgono mansioni solo amministrative, quando a Firenze il 40% dei vigili urbani passa più tempo in ufficio che in strada?
Ecco a voi l’Italia degli imboscati. Sbaglierebbe chi volesse vedere in questo fenomeno comportamenti palesemente illegittimi. Non stiamo parlando dei furbetti che timbrano e se ne vanno a spasso, degli assenteisti cronici, o di altri piccoli truffatori del pubblico impiego. Stiamo raccontando una storia di formale legalità, non per questo meno scandalosa: la storia di chi, soprattutto nel settore pubblico, riesce senza fondate motivazioni a evitare, per “inidoneità parziale” o per abuso della legge 104, il lavoro per il quale è stato assunto (un lavoro spesso duro, faticoso, delicato) facendosi trasferire tra le scartoffie di un ufficio, lontano dalla strada, lontano dai cittadini. Una premessa è d’obbligo: andare incontro a malattie o infortuni parzialmente invalidanti o dover assistere parenti disabili sono sacrosante e indiscutibili ragioni per cambiare mansione, per evitare i lavori più gravosi, o più semplicemente per avere permessi e congedi. Ma qui stiamo parlando dell’abuso che si fa di questi diritti, grazie a migliaia di sconsiderate autorizzazioni rilasciate dalle commissioni mediche. La conseguenza è doppia: si creano vuoti preoccupanti nei lavori più richiesti (dagli infermieri ai vigili urbani) caricando un peso sempre più insostenibile sulle spalle di chi nel pubblico impego dà l’anima tutti i giorni; e si penalizza chi tra i lavoratori avrebbe veramente bisogno di assistenza.
Lavori vietati
Scopriamo così che il 12% dei dipendenti della sanità pubblica, circa 80 mila persone, per lo più donne – è riuscito a farsi riconoscere una serie di limitazioni alla propria idoneità lavorativa, con punte del 24% tra gli operatori socio-sanitari, seguiti dal 15% degli infermieri. La metà di quegli 80 mila – dice una ricerca a campione targata Cergas-Bocconi – ha diritto a non sollevare più i pazienti e non trasportare carichi troppo pesanti (un lavoro burocraticamente chiamato “movimentazione di carichi e pazienti”). Un altro 13% non può lavorare in piedi, il 12% non lo può fare di notte. Il resto viene esentato da una lunghissima serie di operazioni: essere esposti a videoterminali, a rischi biologici, chimici e allergie, stare a contatto con i pazienti, fare lavori che producono stress, operare in taluni reparti, e così via. Certo, lavorare in una corsia di ospedale può sicuramente creare problemi anche gravi, e tuttavia è difficile considerare normali percentuali di lavoratori “inidonei” che toccano e superano in qualche caso il 25%. Anche perché in settori privati ugualmente pericolosi (se non di più) non c’è la stessa possibilità di vedersi alleggerire il proprio carico di lavoro.
I record del Sud
È soprattutto al Sud che l’esercito degli “inidonei” si infittisce in misura anomala. Nell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, su 1.178 dipendenti, 652 (oltre la metà) lavorano a regime ridotto. Ottanta psicologi della sanità regionale – come più volte denunciato dal commissario straordinario Massimo Scura, invece di aiutare i pazienti, sono finiti negli uffici amministrativi. Tutto in Calabria sembra funzionare al contrario: più di cento medici lavorano nel reparto prevenzione, dove ne servirebbero meno della metà, e rimangono invece scoperti screening oncologici e assistenza domiciliare. Ma gli imboscati non sono solo nella sanità. Un terzo dei vigili urbani di Napoli ottenne tempo fa certificati medici che consentivano loro di evitare la strada. Qualcuno non poteva guidare l’auto di servizio, qualcun altro neppure rispondere al telefono o stare più di pochi minuti al computer. A Palermo sono tuttora circa 400 gli “inidonei temporanei”, tra autisti che non possono guidare, netturbini che non possono spazzare le strade, giardinieri che diventano improvvisamente portieri.
Veri e finti disabili
Fin qui alcuni degli innumerevoli casi di “imboscamento” per inidoneità. Ma c’è un altro strumento (di per sé sacrosanto) di cui si è fatto e si sta facendo un abuso che supera i livelli di guardia. Ed è la legge 104, una grande legge di civiltà, perché offre una serie di benefici ai lavoratori disabili gravi, o ai genitori, coniugi, parenti e affini entro il terzo grado di familiari disabili gravi. Oltre ai tre giorni di permessi retribuiti al mese per l’assistenza, la legge dà loro il diritto di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, di rifiutare eventuali trasferimenti, eventuali lavori notturni e in alcuni casi anche lavori domenicali e festivi. Per le stesse categorie scatta anche il congedo straordinario retribuito di due anni. Tutto molto giusto, se non fosse che anche in questo caso c’è chi se ne approfitta. Sono i “furbetti della 104”, che accertamenti medici quanto meno superficiali hanno inserito e continuano a inserire tra i disabili gravi meritevoli di assistenza. Prima anomalia: negli ultimi cinque anni – dice l’Inps – gli accessi alla legge, per la propria disabilità e per quella dei propri familiari, sono cresciuti rispettivamente del 22,5 e del 34 per cento. Seconda anomalia: Nel pubblico impiego – ancora dati Inps – i beneficiari della 104 e dei congedi straordinari sono 440 mila, ossia il 13,5% di tutti i dipendenti, mentre nel settore privato sono appena il 3,3%. Certo, in qualche misura può pesare il fatto che un dipendente privato, per timore di perdere il posto, sia meno propenso a chiedere quei permessi. Ma questo non basta a spiegare una differenza così macroscopica.
Il caso Menfi
Quando un anno fa si scoprì che nella scuola Santi Bivona di Menfi, un paese dell’agrigentino, addirittura il 41% dei docenti (settanta su centosettanta) usufruiva della legge 104, il ministero dell’istruzione fece partire un’inchiesta in tutta Italia. Risultati anche qui inquietanti, e questa volta a toccare i record negativi troviamo insieme al Mezzogiorno anche il Centro Italia. Così, mentre la Sardegna è in testa per docenti di ruolo disabili gravi o parenti di disabili (il 18,3%), all’Umbria va il primato del personale non docente che beneficia della legge: il 26,3%. Si posiziona bene anche il Lazio, rispettivamente con il 16 e con il 24,8%. In Veneto, Piemonte e Toscana, al contrario, troviamo il minor numero di beneficiari.
Le maglie della 104
Centro-Sud e Isole riescono dunque ad allargare a dismisura le maglie della 104, riuscendo per esempio a inserire tra i disabili gravi i figli celiaci, oppure le nonne residenti a centinaia di chilometri di distanza. C’è chi riesce addirittura a ottenere più di una 104. Se questo è il quadro generale, non è difficile capire perché soprattutto al Sud interi servizi pubblici essenziali restano solo sulla carta mentre quelli meno necessari traboccano di personale per lo più inutile. E perché gli stessi ispettori che dovrebbero verificare sul campo tutti questi abusi non di rado finiscono essi stessi tra le file degli imboscati.
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