IL PRIMO DEI TRE MIRA AD ABROGARE LE NORME SUI LICENZIAMENTI DELLA LEGGE FORNERO 2012 E DEL JOBS ACT 2015, NEL CONTEMPO ESTENDENDO L’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 18 A TUTTI I DATORI DI LAVORO CON PIÙ DI 5 DIPENDENTI – MA IN QUESTO MODO NON È PIÙ UN REFERENDUM SOLO ABROGATIVO, BENSÌ ANCHE PROPOSITIVO
Sono qui riprodotti i testi dei tre quesiti referendari sui quali la Cgil ha raccolto tre milioni di firme, per l’abrogazione di due parti della riforma del lavoro del 2015 e due della legge Fornero n. 92/2012: la nuova disciplina dei licenziamenti (compresa la riforma Fornero del 2012), la nuova disciplina dei buoni-lavoro o vouchers, e la nuova disciplina della responsabilità solidale tra committente e appaltatore – Il testo di ciascun quesito è preceduto da una mia nota evidenziata dal paragrafo rientrato e dal carattere corsivo e blu, mirata a chiarire la portata pratica del quesito, discuterne l’ammissibilità sul piano costituzionale e proporne una valutazione nel merito – In argomento v. Non è più la Cgil dei Lama e dei Trentin, e Il codice semplificato del lavoro della Cgil
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QUESITO RELATIVO ALLA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI
L’OBIETTIVO DEL QUESITO – Il quesito è strutturato in modo che, se vincesse il Sì, tornerebbe in vigore la disciplina dei licenziamenti posta dallo Statuto dei Lavoratori nel 1970, rafforzata da una modifica del 1990; questa disciplina, inoltre, risulterebbe applicabile a qualsiasi datore di lavoro, imprenditore o no, con più di cinque dipendenti, il che costituirebbe una novità assoluta per almeno un milione di imprese e qualche milione di rapporti di lavoro.
AMMISSIBILITÀ O NO – Un primo profilo di inammissibilità del quesito sta nel fatto che esso dovrebbe avere un contenuto unitario; qui, invece, di contenuti ce ne sono addirittura tre: 1) “volete voi abrogare la parte del Jobs Act relativa ai licenziamenti, applicabile agli assunti dal marzo 2015?”; 2) “per gli assunti prima del marzo 2015, volete voi abrogare le modifiche dell’articolo 18 contenute nella legge Fornero del 2012?”; infine 3) “volete voi che il vecchio articolo 18, così ripristinato, si applichi a tutti i datori di lavoro che abbiano almeno sei dipendenti?”. Un secondo profilo di inammissibilità sta nel fatto che quest’ultimo quesito non ha per oggetto l’abrogazione di una norma, ma l’emanazione di una norma nuova, che non è mai esistita: attraverso un lavoro complesso di forbici, si prende una parola del comma ottavo dell’articolo 18 (la parola “cinque” riferita nel testo originario al numero dei dipendenti delle imprese agricole cui l’articolo 18 si applica) per utilizzarla nel contesto di una norma diversa (cioè quella che si applica alla generalità dei datori di lavoro non agricoli). In questo modo non viene soltanto abrogato un insieme di norme, ma ne viene creata una nuova che non è mai esistita. . Per questa parte, il referendum promosso dalla Cgil diventa propositivo. Ma l’istituzione del referendum propositivo è stata bocciata proprio dieci giorni fa.
Una manipolazione analoga, anch’essa inammissibile, viene compiuta nel comma settimo dello stesso articolo.
VALUTAZIONE DI MERITO – Sul piano storico-politico si segnala innanzitutto una curiosità: nel 2003, in occasione di un referendum abrogativo che si proponeva un obiettivo analogo a questo, per la parte relativa all’estensione del campo di applicazione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 16 dipendenti, l’ex segretario generale della Cgil Sergio Cofferati invitò la stessa Cgil all’astensione dal voto per far sì che non venisse raggiunto il quorum; il quale poi effettivamente non venne raggiunto. Ma, soprattutto, va osservato che l’ipotetica vittoria del Sì in questo referendum interromperebbe bruscamente il processo tendente a rendere il nostro Paese più attrattivo per gli imprenditori e gli investitori, non soltanto riducendo la pressione fiscale sul impresa e lavoro, il peso della burocrazia, e il differenziale di costo dell’energia rispetto al resto d’Europa, ma anche e soprattutto allineando il nostro diritto del lavoro rispetto ai migliori standard dei Paesi dell’OECD, rendendo il nostro mercato del lavoro più fluido e più capace di agevolare e sostenere il passaggio dei lavoratori dalle imprese più deboli a quelle più produttive. Questo avrebbe il solo effetto di indebolire complessivamente i lavoratori italiani.
IL TESTO DEL QUESITO – «Volete voi l’abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza e dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”,
– comma 1, limitatamente alle parole “previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile”;
– comma 4, limitatamente alle parole: “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei
contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili,” e alle parole “, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”;
– comma 5 nella sua interezza;
– comma 6, limitatamente alla parola “quinto” e alle parole “, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi” e alle parole “, quinto o settimo”;
– comma 7, limitatamente alle parole “che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’art. 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” e alle parole “; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo”;
– comma 8, limitatamente alle parole “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento”, alle parole “quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di” e alle parole “, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti”.».
QUESITO RELATIVO ALL’ELIMINAZIONE DEI BUONI-LAVORO PER LA RETRIBUZIONE DEL LAVORO ACCESSORIO
L’OBIETTIVO DEL QUESITO – Il quesito mira all’abrogazione dei tre articoli del decreto legislativo n. 81/2015 che contengono la disciplina del lavoro accessorio. Il lavoro accessorio (per esempio: lo sgombero di una cantina, la raccolta delle olive nell’arco di pochi giorni, una serie di ripetizioni private) non è oggetto di un rapporto di lavoro ordinario, non richiede adempimenti formali – come la costituzione di una posizione Inps per il lavoratore, le comunicazioni obbligatorie all’Ufficio del lavoro, l’iscrizione in un libro paga e matricola – essendo retribuito con i buoni, o voucher, acquistati alle poste, in banca, o anche in tabaccheria. I buoni incorporano il 75 per cento di retribuzione che il lavoratore può riscuotere in banca o alle poste, e il 25 per cento destinato automaticamente alla contribuzione previdenziale.
AMMISSIBILITÀ O NO – Il quesito referendario appare ammissibile sotto il profilo formale.
VALUTAZIONE DI MERITO – Sul piano sostanziale a me non sembra ragionevole l’esito a cui mirano i promotori del referendum: cioè imporre che anche per prestazioni occasionali di breve o brevissima durata il datore di lavoro sia obbligato a compiere tutti i non semplici adempimenti burocratici previsti per la costituzione di un rapporto di lavoro ordinario. Se si accerta che il sistema dei voucher consente casi di trasformazione abusiva di lavoro regolare in lavoro accessorio, si corregga la disciplina vigente in modo da impedirlo, e/o si rafforzino le attività ispettive; ma eliminare questa forma semplice di pagamento porterà soltanto a una nuova fase di crescita del lavoro nero.
Credo che anche i promotori del referendum sarebbero pacificamente d’accordo su ciascuna di queste due affermazioni: A) “I buoni-lavoro svolgono una funzione positiva se fanno emergere il lavoro nero, assicurando maggiore trasparenza e protezione per la persona coinvolta”; B) “I buoni-lavoro producono un effetto negativo se consentono la trasformazione di lavoro regolare in lavoro accessorio col conseguente abbassamento dello standard di trattamento della persona coinvolta”. La questione, dunque, non si può risolvere a colpi di nuove norme o abrogazioni. Il problema sta solo nello stabilire se e quanto i 115 milioni di voucher utilizzati durante l’ultimo anno rientrano nel caso A, o invece nel caso B. E questo non lo si stabilisce né discutendone in un’aula parlamentare, né con un referendum, ma soltanto con le necessarie rilevazioni sul campo, compiute secondo i metodi rigorosi e con gli strumenti appropriati fornitici dalle scienze sociali. Fatto questo accertamento – non particolarmente difficile -, discutere sul che fare in modo pragmatico sarà molto più producente.
IL TESTO DEL QUESITO – «Volete voi l’abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”?».
QUESITO RELATIVO ALLA DISCIPLINA DEGLI APPALTI
L’OBIETTIVO DEL QUESITO – Il quesito mira a sopprimere la modifica dell’articolo 29 della cosiddetta Legge Biagi del 2003, in materia di solidarietà passiva tra committente e appaltatore nei confronti dei lavoratori, disposta dalla legge Fornero del 2012. La modifica che verrebbe soppressa consiste: a) nel consentire che i contratti collettivi nazionali disciplinino la materia diversamente, secondo il modello del cosiddetto “garantismo flessibile”; b) nel prevedere che il lavoratore dipendente dall’appaltatore possa agire contro il committente per il pagamento del proprio credito solo dopo che l’azione nei confronti dell’appaltatore abbia dato esito negativo, per l’incapienza del suo patrimonio.
AMMISSIBILITÀ O NO – Il quesito referendario appare ammissibile sotto il profilo formale.
VALUTAZIONE DI MERITO – La norma che con questo referendum si vuole abrogare è quella che consente al contratto collettivo nazionale di regolare la materia della corresponsabilità solidale tra committente e appaltatore in modo diverso rispetto alla disciplina standard posta dalla legge, in funzione delle caratteristiche ed esigenze particolari del settore, oppure in considerazione dell’attivazione di misure di controllo e protettive di natura diversa. Questa norma non sembra aver dato cattiva prova, nei quattro anni nei quali ha avuto applicazione.
In linea generale, l’inderogabilità di una norma protettiva serve per evitare che il singolo lavoratore, per difetto di informazione o per mancanza di forza contrattuale, rinunci a quella protezione, ritenuta dal legislatore necessaria. Ma quando a negoziare è l’organizzazione collettiva, e in particolare – come nel caso della norma qui in esame – il sindacato nazionale di settore, per un verso il rapporto di forza contrattuale tra le parti si riequilibra, per altro verso a negoziare dalla parte dei lavoratori c’è un team di rappresentanti esperti, in grado di valutare se, nella circostanza data, la rinuncia a una particolare protezione può essere accettata per aumentare le opportunità di occupazione (per esempio, nel caso che qui interessa: per ottenere un appalto che altrimenti potrebbe essere perduto). La tecnica normativa adottata dalla legge n. 92/2012, che va sotto il nome di “garantismo flessibile”, è normalmente praticata nel nostro ordinamento fin dalla fine degli anni ’70, e mira a restituire al sistema delle relazioni sindacali degli spazi che altrimenti risultano indebitamente compressi dalla rigidità della legge. Nella dialettica interna al movimento sindacale è la Cisl che maggiormente rivendica l’allargamento di questi spazi; ma anche la Cgil solitamente si è mostrata d’accordo su questa scelta legislativa, che rafforza il ruolo negoziale del sindacato.
IL TESTO DEL QUESITO – «Volete voi l’abrogazione dell’art. 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”, comma 2, limitatamente alle parole “Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti,” e alle parole “Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori”?».