DIALOGO SULL’OCCUPAZIONE FEMMINILE E IL WELFARE

IL DISSENSO E’, IN REALTA’, SU QUESTO PUNTO: RITENIAMO DAVVERO CHE UN AUMENTO DEL TASSO DI OCCUPAZIONE REGOLARE DELLE DONNE GIOVI AL BENESSERE E ALLA SICUREZZA DELLE FAMIGLIE? SE LA RISPOSTA E’ “SI'”, E’ GIUSTO USARE L’INCENTIVO FISCALE IN QUESTA DIREZIONE. IL GOVERNO RISPONDE INVECE “NO”; INFATTI LA SUA RIFORMA FISCALE, FONDATA SUL “COEFFICIENTE FAMILIARE”, VA NELLA DIREZIONE OPPOSTA

Intervista a cura di Federico Ferraù, pubblicata sul quotidiano on line Il Sussidiario il 6 luglio 2009. Seguono un intervento dissenziente di Luca Pesenti, professore dell’Università Cattolica di Milano, e una mia replica (v. anche, in argomento, il mio articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 3 luglio).

Dopo che il Governo ha presentato il decreto anticrisi, resta sempre aperto il capitolo riguardante le riforme del sistema previdenziale. L’Ue ha già chiesto da tempo all’Italia di parificare l’età pensionabile di uomini e donne nel settore pubblico, ma questo non è stato ancora fatto, anche per l’opposizione dei sindacati. Altri settori della società chiedono invece l’introduzione del quoziente famigliare per riformare il sistema fiscale. Dell’opportunità di queste e di altre riforme abbiamo parlato con Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd.
Professor Ichino, la Corte di Giustizia europea è tornata a sollecitare l’equiparazione dell’età pensionabile di donne e uomini nella Pa. Conviene adeguarsi a quanto chiede l’Europa?
Certo che sì! Avremmo, anzi, dovuto provvedere già da tempo. Ormai siamo rimasti gli ultimi in Europa a non aver parificato l’età di pensionamento per uomini e donne e nei tre Paesi nei quali una differenza ancora esiste, è già in corso una parificazione graduale e si conosce già l’anno, ormai vicino, in cui la parità di trattamento verrà integralmente raggiunta.
Una riforma pensionistica con l’innalzamento dell’età sembra inevitabile. Esiste secondo lei un approccio in grado di superare la paura politica di perdere voti, che sembra comparire in entrambi gli schieramenti?
Se si fa politica con l’orizzonte temporale della legislatura, non ci si dovrebbe lasciar paralizzare da questa paura: sulla distanza dei quattro o cinque anni, anche le scelte più incisive e coraggiose vengono capite dall’opinione pubblica. Ormai, comunque, quello della parità di trattamento previdenziale è un vincolo inderogabile per noi. Occorre rispettarlo, procedendo a una parificazione graduale dell’età di pensionamento, in modo da evitare di danneggiare le lavoratrici già vicine al requisito minimo. La riforma Dini del 1995 consente di stabilire un limite flessibile di età per il pensionamento, a scelta del lavoratore o lavoratrice: chi sceglie di andare in pensione prima, riceve una pensione più bassa. Per esempio, in Svezia tutti coloro che hanno raggiunto i 40 anni di contribuzione possono scegliere quando andare in pensione, tra i 61 e i 67 anni di età; e ovviamente chi ci va più tardi ha una pensione nettamente migliore.
Una delle obiezioni all’equiparazione dell’età pensionabile è che le donne sopportano un carico aggiuntivo, rispetto agli uomini, di lavoro di cura dei bambini e degli anziani. Cosa ne pensa?
È vero. Ma dobbiamo uscire dalla logica risarcitoria: “tu donna sopporti questo carico diseguale e in cambio ti mandiamo in pensione prima”. È una logica che ci condanna a un equilibrio deteriore. Per uscirne occorre parificare gradualmente l’età del pensionamento e destinare subito, anche in via anticipata, tutto il denaro che in questo modo si risparmierà a incentivare il lavoro femminile regolare, a incrementare i servizi alla famiglia, a istituire periodi di contribuzione figurativa in corrispondenza con congedi parentali allungati.
A proposito dei congedi parentali, si dice che ne usufruiscono quasi sempre le donne, col risultato di rendere meno appetibile il loro lavoro per le imprese.
Anche questo è vero. Proprio per questo condivido la proposta avanzata da alcuni economisti (tra i quali Alberto Alesina) di una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne, come “azione positiva” in funzione dell’aumento del tasso di occupazione femminile, fino al raggiungimento dell’obbiettivo fissato dall’Unione Europea (rispetto al quale siamo molto indietro). Per esempio: oggi, su di un reddito di mille euro al mese si pagano 110 euro di Irpef. Ridurre questa imposta per le donne a 10 euro al mese costerebbe circa 4 miliardi all’anno, cioè circa lo stesso importo che è costato allo Stato l’abolizione totale dell’ICI sulle case dei ricchi.
E come si potrebbe “coprire” questo mancato gettito Irpef?
In parte questa perdita di gettito fiscale sarebbe recuperata con l’aumento dell’occupazione femminile: domanda e offerta di lavoro femminile sono infatti molto più elastiche rispetto al lavoro maschile, quindi risponderebbero bene a un incentivo fiscale di questo genere. Per il resto, quel costo potrebbe essere finanziato con il 4 o 5 per cento dei 70 miliardi che oggi lo Stato spende ogni anno per mantenere in equilibrio il bilancio pensionistico dell’Inps. Invece di spendere quei soldi per mandare in pensione i 59enni o 60enni, spendiamoli per far entrare nel mercato del lavoro molte più donne, per offrire più servizi alla famiglia, che oltretutto richiedono manodopera per lo più femminile. Il lavoro di cura svolto professionalmente e in forma regolare rende molto di più alla società, e alle lavoratrici stesse che lo svolgono, del lavoro domestico che oggi viene da esse svolto per lo più informalmente.
L’Ocse ha dato una valutazione positiva delle misure anticrisi del governo. In generale il provvedimento del governo, al pari di quello varato per le banche, appare puntuale e circostanziato, ma “minimale”. Condivide quest’analisi?
Sì, questa “manovra” varata dal Governo contiene alcune buone idee; ma è veramente di entità complessiva ridottissima, poco più che simbolica. Serve quasi solo a poter dire, in televisione e nei dibattiti, di aver dato una risposta a questo o a quello. Se si intervenisse con le riforme strutturali del welfare e del mercato del lavoro, guadagneremmo margini molto maggiori per interventi congiunturali più incisivi ed efficaci. Su questo punto concordo totalmente con quanto sostiene e propone il Governatore della Banca d’Italia Draghi.
Occorre però anche tener conto della fattibilità e della sostenibilità delle riforme…
Qui si vede la capacità di governare il Paese. Riconosco che l’Unione guidata da Prodi non ha brillato, su questo terreno; ma il centrodestra di Berlusconi mi sembra del tutto fermo. Sembra che Tremonti e Sacconi abbiano paura anche soltanto di parlare delle riforme del welfare e del mercato del lavoro.
L’80% del cuneo fiscale è legato al finanziamento delle pensioni pubbliche. A parte l’innalzamento dell’età pensionabile, la nostra previdenza complementare è al palo. Secondo lei andrebbe incentivata e sviluppata?
Nel complesso, mi sembra che il sistema dei fondi di previdenza complementare abbia retto bene alla tempesta della crisi. Con la ripresa economica, anche la previdenza complementare avrà un forte impulso. E sarà un bene sia per i lavoratori interessati, sia per l’intera economia.
La riforma della contrattazione, puntando su merito e decentramento, le pare in grado di evitare il ricorso massiccio a contratti di collaborazione o di lavoro parasubordinato?
Francamente, non vedo un nesso tra l’una e l’altra cosa. La lotta per il riconoscimento del merito e contro il regime di apartheid ai danni del lavoro precario si combatte ridisegnando il diritto del lavoro per le nuove generazioni di lavoratori: tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile. E per chi perde il posto, in conseguenza di un licenziamento per motivi economici, sostegno del reddito e assistenza a livelli nord-europei. È quello che propongo col disegno di legge n. 1481 presentato nel marzo scorso, ”per la transizione a un regime di flexsecurity”.¦lt;br /> Di recente il ministro Scajola ha auspicato la reintroduzione in finanziaria del quoziente familiare. È d’accordo?
No.
Perché?
Perché è un meccanismo fiscale che disincentiva l’ingresso nel mercato del lavoro del secondo membro adulto della famiglia, che per lo più è la moglie. L’effetto sul tasso di occupazione femminile sarà esattamente contrario a quello che dobbiamo proporci di ottenere.
Per quanto concerne il Libro bianco sul welfare, il grande tema rimane quello della sostenibilità: da un lato, un Paese che non cresce non può permettersi spese eccessive per la tutela dei propri cittadini più deboli; dall’altro lato, i vincoli di finanza pubblica saranno probabilmente già ampiamente infranti senza avviare alcuna delle auspicabili riforme del settore, per effetto della crisi economica. Come agirebbe in questo scenario il “suo” Libro bianco?
Delle misure per l’incremento del lavoro femminile ho detto poco fa. E sarebbe già una misura molto incisiva, in funzione dell’allargamento della base produttiva e dell’incremento del prodotto lordo. Poi occorrerebbe adottare tutte le misure che possono consentire di aumentare gli investimenti stranieri in Italia. Siamo un Paese fortemente chiuso agli investimenti esteri, non solo per alcuni nostri difetti strutturali, ma anche per scelte politiche precise, come quella della difesa dell’ “italianità” delle nostre imprese. E anche a causa di alcuni gravi difetti del nostro sistema di relazioni industriali e del nostro diritto del lavoro. Basterebbe che raggiungessimo la metà della capacità della Gran Bretagna di attirare investimenti stranieri, perché la nostra economia ne abbia un enorme beneficio in termini di domanda di lavoro aggiuntiva e di innovazione positiva nel tessuto produttivo.
Infine, un accenno al Pd. Prima delle elezioni una delle possibili vie d’uscita dall’impasse caldeggiate dai fautori del rinnovamento del partito passava per il territorio: buona politica del territorio vs. vecchia forma-partito della segreteria e del notabilato. A suo avviso come produrre una vera discontinuità e come affrontare il nodo delle alleanze, cioè la più controversa, quella con Di Pietro?
Lo statuto del Pd prevede che il segretario sia anche il candidato-premier; e che sia eletto col metodo delle primarie. Questo costringe il partito a superare le logiche auto-referenziali degli apparati, del ceto politico, e ad aprirsi alla società civile, a capirne le esigenze reali. È una autoriforma della politica molto difficile; ma è la via giusta per uscire dall’impasse in cui oggi il Pd si trova. Lo stesso metodo deve applicarsi se ci si allea con uno o più altri partiti minori, i quali pertanto devono condividere quel metodo. Il senso principale del congresso che si celebrerà a ottobre sta nella conferma dell’impegno del partito a praticare questo metodo, oppure nel ritorno al metodo tradizionale che ha caratterizzato la nostra “prima Repubblica” e in qualche misura anche la seconda, fino allo scorso anno.

L’INTERVENTO DISSENZIENTE DI LUCA PESENTI: LA NOSTRA IMPOSTA SUI REDDITI OGGI PENALIZZA INDEBITAMENTE LE FAMIGLIE MONOREDDITO
Sul quotidiano on line Il Sussidiario, 8 luglio 2009. Luca Pesenti insegna tecniche e programmazione del welfare locale all’Università Cattolica di Milano ed è consulente della Presidenza della Regione Lombardia
     Il professor Pietro Ichino, attualmente esponente dell’opposizione parlamentare al Governo Berlusconi, ha bocciato senza appello l’idea di introdurre il quoziente famigliare nel sistema fiscale italiano (si veda l’intervista pubblicata su ilsussidiario.net lunedì 6 luglio 2009). Una riforma, questa, sostenuta in campagna elettorale da Silvio Berlusconi e oggi ferma ai box, in attesa (così viene sostenuto) che passi la lunga notte di crisi.
     Le ragioni addotte da Ichino sono legate principalmente alla tendenza disincentivante che, a suo dire, la misura di riassetto fiscale avrebbe sull’occupazione femminile, a causa di una presunta agevolazione per le famiglie monoreddito che alcune simulazioni farebbero prevedere. Questa affermazione, seppur degna di attenzione, presenta però diversi problemi.
     L’idea di Ichino è che le donne, se potessero realmente scegliere, deciderebbero inevitabilmente di lavorare, e dunque la legislazioni dovrebbe mettere dei paletti capaci di rendere possibile questo desiderio. Si tratta di un’affermazione piuttosto diffusa, che il giuslavorista condivide ad esempio con due personalità mainstream del panorama intellettuale italiano e internazionale come il politologo milanese Maurizio Ferrera (autore de “Il Fattore D”) e la sociologa torinese Chiara Saraceno.
     La tesi della necessaria femminilizzazione del mercato del lavoro è stata infine ripresa ancora di recente da altri due autorevolissimi intellettuali della famiglia de la voce.info, come l’economista Daniela del Boca e il demografo Alessandro Rosina (“Famiglie sole”, Il Mulino). La tesi di Ichino appare in ogni caso fortemente connotata in senso ideologico, marcata come è da un’ipotesi sottostante (quella delle pari opportunità) che non fa i conti con quella componente di donne (piuttosto estesa, a giudicare anche dai dati di alcune ricerche empiriche) che vorrebbe dedicare più tempo all’educazione dei figli, riducendo il proprio lavoro full-time ad un part-time raramente concesso dalle aziende. Più corretto sarebbe anche in questo settore delle politiche pubbliche applicare il principio di sussidiarietà, mettendo le donne (e le famiglie) nella condizione di scegliere realmente tra cura dei figli (e prima ancora maternità) e fatiche lavorative.
     Al di là delle opzioni di tipo politico-culturale (direttiva e orientata alle pari opportunità versus sussidiaria e orientata alla libera scelta), anche sul piano squisitamente tecnico le cose non sono così limpide come si potrebbe pensare leggendo le affermazioni di Ichino. A seconda delle metodologie di calcolo e dei pesi attribuiti al quoziente, cambia infatti sensibilmente la tipologia di famiglie che ne verrebbe beneficiata. Quel che è invece certo è che l’attuale sistema fiscale penalizza fortemente le famiglie monoreddito, a tutto favore di quelle in cui si lavora in due: e questo sistema non ha sicuramente portato a quel massiccio inserimento delle donne nel mercato del lavoro auspicato da Ichino, se è vero che l’Italia presenta il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa.
     Un riequilibrio in favore delle famiglie monoreddito (e delle famiglie numerose, che sarebbero le vere beneficiate dall’intervento) rappresenta un elemento di sicura equità fiscale, le cui conseguenze in termini occupazionali devono essere dimostrati.
     Quanto detto (e autorevolmente teorizzato ad esempio dal pro Rettore della Cattolica, Luigi Campiglio) trova conforto per altro sul piano empirico: vi sono infatti esempi internazionali che mostrano come il quoziente famigliare non determini necessariamente il risultato discriminatorio lamentato da Ichino.
     Come ho più diffusamente argomentato nel mio recente “Politiche sociali e sussidiarietà” (Ed. Lavoro), l’esempio francese dimostra in realtà esattamente la tesi opposta, ovvero che più quoziente famigliare fa bene alle donne, alle famiglie, al mercato del lavoro. Grazie a questo sistema fiscale, parte centrale di un più ampio disegno di sostegno alle famiglie, la Francia presenta infatti al tempo stesso un tasso di occupazione femminile vicino al 60% (superiore alla media europea e di oltre 10 punti più alto rispetto a quello italiano) e non ascrivibile in modo preponderante alla diffusione di contratti part-time.
     La lezione francese cosa dimostra allora? Che le famiglie, messe realmente nella condizione di scegliere rispetto alla loro vita, sono capaci di trovare un equilibrio virtuoso tra figli e lavoro, senza costringere le donne a lavorare ma neppure senza costringerle necessariamente tra le quattro pareti domestiche. Questa è la vera lezione che bisognerebbe iniziare ad imparare. E possibilmente a importare nel nostro vecchio e anti-famigliare sistema di welfare.

LA MIA REPLICA: IL VERO DISSENSO E’ SUL PUNTO SE SIA GIUSTO PERSEGUIRE UN AUMENTO DEL TASSO DI OCCUPAZIONE REGOLARE FEMMINILE
Sul quotidiano on line Il Sussidiario, 13 luglio 2009

     Ringrazio Luca Pesenti dell’attenzione dedicata alla mia intervista; e a mia volta prendo buona nota delle sue osservazioni critiche. Non comprendo, però, nel suo intervento, la differenza tra “pari opportunità” e “libertà di scelta”: per me le due espressioni, nel contesto in cui le usiamo entrambi, hanno sostanzialmente lo stesso significato.
    
Mi sembra, dunque, che concordiamo sulla necessità di costruire per le donne questa condizione di “pari opportunità”, o, che è lo stesso, di “pari libertà di scelta” se entrare o no nel mercato del lavoro regolare. A questo punto chiedo a Pesenti: è vero o no che, nel nostro sistema attuale, per una numerosa serie di circostanze, le donne incontrano di fatto maggiori ostacoli di quanti ne incontrino gli uomini, cioè siano meno libere? Se la sua risposta è “no, non è vero”, le nostre strade divergono. Ma se la risposta è “sì”, se cioè siamo d’accordo sul punto che oggi esistono degli ostacoli da superare perché le donne possano esercitare appieno la libertà di scelta tra il dedicarsi esclusivamente alla famiglia e il dedicarsi anche al lavoro professionale, allora dobbiamo discutere quali siano i modi migliori per eliminare quegli ostacoli.
    
La divergenza tra Pesenti e me – se ben comprendo – è su di un altro punto: sulla questione, cioè, se debba essere perseguito o no come obiettivo di progresso economico-sociale un aumento del tasso di occupazione regolare femminile nel nostro mercato del lavoro. A me sembra che questo obiettivo debba essere perseguito, insieme a quello di una più facile conciliazione tra lavoro professionale e lavoro domestico di cura, perché questo aumenta complessivamente la sicurezza e il benessere delle famiglie. Questa non è per me una certezza metafisica; ma mi convincono gli argomenti che vengono portati a sostegno di questa tesi da molti studiosi (ultimamente esposti da Maurizio Ferrera nel suo libro “Il fattore D”, Mondadori, 2008). Che cosa pensa Pesenti di quegli argomenti?
    
Capisco che, se non si condivide l’opzione – fatta propria dall’Unione Europea – di un aumento del nostro tasso di occupazione regolare femminile, non si può concordare neppure sull’opportunità di un incentivo economico al lavoro professionale femminile. Questo è il vero punto di dissenso tra noi.   (p.i.)

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