SE LE NUOVE TECNOLOGIE E LA GLOBALIZZAZIONE AUMENTANO LA CONCORRENZA DEI LAVORATORI DEL TERZO MONDO CON GLI ITALIANI NELLE FASCE PROFESSIONALI INFERIORI, SERVIZI GRATUITI ED EFFICIENTI DI INFORMAZIONE E DI FORMAZIONE MIRATA TUTELANO IL LAVORO DEBOLE MEGLIO DI QUANTO NON FACCIA IL CCNL
Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 17 novembre 2016 – In argomento v. anche Se le politiche attive del lavoro sono inattive e gli altri documenti e interventi di cui ivi si trovano i link
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Caro Direttore, gli ultimi articoli di Dario Di Vico dal fronte dei disoccupati e degli occupati male, sempre straordinariamente densi di stimoli preziosi e di informazioni su una realtà poco conosciuta, mi inducono a proporre una riflessione, fondata sulla mia esperienza del mondo del lavoro maturata nell’arco di ormai quasi mezzo secolo.
Quando, nel ’69, incominciai a occuparmi di lavoro in qualità di sindacalista della Fiom-Cgil, impegnato nella contrattazione aziendale alla periferia nord di Milano, la situazione era questa: fatta 100 la produttività standard di un operaio-tipo, quello che in concreto aveva una produttività inferiore si attestava intorno a quota 90, raramente si arrivava al limite minimo di 80, mentre quello più produttivo poteva arrivare a 130, 140, raramente a 150. In altre parole, il rapporto tra il più e il meno produttivo non arrivava neppure a 2. All’incirca la stessa cosa di poteva dire degli impiegati con funzioni esecutive, che si trattasse di dattilografia, mansioni inerenti alla contabilità aziendale, segreteria d’ufficio, reception o centralino. Quelli essendo i valori, era molto sensato che le assunzioni avvenissero “all’ingrosso”, senza approfondite selezioni; e che un contratto collettivo nazionale fissasse la retribuzione-base in riferimento alla produttività standard, un contratto aziendale eventualmente prevedesse un premio per chi era più produttivo rispetto allo standard, e per il resto i più produttivi compensassero il deficit di produttività degli altri, anche in nome di quella che allora veniva chiamata solidarietà di classe.
Oggi la situazione è totalmente cambiata. Un’azienda che intenda assumere un addetto a mansioni anche di livello basso, come quelle di addetto a un magazzino, a una reception, o a mansioni semplici di ufficio, e che sottoponga i candidati a un test attitudinale elementare, può trovarsi di fronte a risultati che indicano differenze di produttività da 100 a 10.000. Per esempio, se il test consiste nella ricerca di tutti i ristoranti operanti in una determinata zona della città, ci sarà un candidato che è in grado di sfornare un tabulato più o meno completo nel giro di cinque minuti, mentre un altro non ci riesce neanche in cinque ore: sulla performance incide, infatti, la capacità di usare il computer, la dimestichezza con Internet, l’inventiva, l’emotività e altro ancora. Se poi dai livelli esecutivi più bassi si passa a quelli di concetto, o addirittura a quelli del lavoro creativo, la gamma delle produttività individuali, risultanti in parte dalle capacità individuali di avvalersi dei nuovi strumenti, si allarga a dismisura. E se a questo aggiungiamo che chi si colloca ai livelli più bassi soffre oggi molto più che cinquant’anni fa della concorrenza della manodopera dei Paesi in via di sviluppo, vuoi per effetto dei flussi migratori, vuoi per effetto della mobilità enormemente maggiore delle merci, dei servizi e dei capitali (bloccare i flussi migratori, anche se fosse possibile, non basterebbe), si comprende perché la gamma delle retribuzioni si sia enormemente divaricata rispetto a mezzo secolo fa.
In altre parole, per semplificare al massimo: tra chi sa soltanto confezionare o recapitare una pizza e chi sa individuare i suoi potenziali consumatori e gli ingredienti della stessa pizza a loro più graditi, come raccoglierne in modo più efficiente le ordinazioni e i pagamenti e come organizzare le consegne, si è determinata una distanza molto maggiore nel mercato del lavoro rispetto a quella che separava cinquant’anni fa, o anche solo venticinque, il pizzaiolo o il fattorino più produttivo da quello più imbranato.
Così stando le cose, la domanda che dobbiamo porci – mi sembra – è questa: il contratto collettivo nazionale di settore, con il suo inquadramento professionale in sette o otto livelli e i suoi minimi retributivi riferiti a ciascun livello, può costituire ancora lo strumento principale e più efficace di protezione della generalità dei lavoratori? O non è forse più ragionevole, per sostenere i più deboli, puntare su di un sistema di informazione, anzitutto, ma anche di formazione e riqualificazione professionale mirata agli sbocchi professionali effettivamente esistenti, che consenta anche al lavoratore più debole di salire lungo la scala delle produttività individuali e poter dunque rendersi appetibile per imprese che valorizzino meglio il suo lavoro? Nel nostro Paese si registra oltre mezzo milione di situazioni di skill shortage, cioè di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di persone che abbiano le qualità necessarie per ricoprirli; perché non incominciare a rendere questo mezzo milione di posti accessibile agli ultimi della fila, offrendo loro gratuitamente gli strumenti efficaci per acquisire le capacità necessarie?
Certo, questo secondo strumento è molto più difficile da attivare, rispetto al contratto collettivo nazionale; ma se è soprattutto di questo che oggi hanno bisogno i lavoratori più deboli, perché i sindacati non dedicano tutte le loro energie a rivendicare e favorire la costituzione di quel sistema di informazione e formazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivi, che in Italia oggi quasi dappertutto manca totalmente? O per il lavoro debole qualcuno ha da proporre qualche sistema di protezione più efficace?
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