L’AZZERAMENTO DEL PERCORSO DI AMMODERNAMENTO ISTITUZIONALE COMPIUTO DAL NOSTRO PAESE IN QUESTI TRE ANNI, CON IL CONNESSO RISCHIO DI ARRETRAMENTO SUL TERRENO DELLE RIFORME ECONOMICHE, DEL LAVORO E DEL WELFARE, PRODURREBBE UN NOSTRO INDEBOLIMENTO POLITICO A BRUXELLES E NEI CONFRONTI DEI NOSTRI CREDITORI
Intervista a cura di Stefano Rizzi, pubblicata dal sito Lo Spiffero il 14 novembre 2016 – In argomento v. anche Se vince il No non ci sarà alcuna riforma costituzionale
Classe 1949, giuslavorista, dal 2008 senatore del Pd, con alle spalle un’esperienza di dirigente della Fiom-Cgil (1969-1972) e di parlamentare del Pci (1979-1983), Pietro Ichino da sempre rivendica con puntiglioso orgoglio la sua carriera di eretico nelle organizzazioni politiche e sindacali, e persino il “dovere” di essere eretico da studioso. Negli ultimi anni hanno fatto molto discutere le sue proposte in materia di riforma del mercato del lavoro, dei diritti di rappresentanza e della contrattazione collettiva. Un protagonismo che gli è costato caro, e non solo per l’ostracismo che subisce all’interno della stessa sinistra: dal 2002 vive sotto scorta, dopo essere finito nel mirino delle nuove Br, ed è tra i nemici giurati dei grillini a seguito dell’anatema lanciato al “Vaffaday” dal comico in persona. A Torino per un dibattito su “lavoro e welfare” con il collega Stefano Lepri e il segretario del Pd piemontese Davide Gariglio (lunedì 14 novembre ore 17,30 alla Gam), Ichino spiega allo Spiffero cosa cambia – e deve cambiare – se vincerà il Sì.
Professor Ichino, in un recente dibattito lei ha ricordato l’angoscia provata nel 2013 di fronte all’inconcludenza del Parlamento di fronte alla formazione di un nuovo Governo e perfino davanti all’elezione del Capo dello Stato, dicendosi – allora – pessimista su un percorso di riforme che invece è giunto al suo completamento. Ora tutto è demandato al referendum. Nel caso di vittoria nel no, ritiene si torni a quella situazione che lei ha descritto come pericolosa?
Non c’è dubbio che quel rischio ci sia. Se si azzerasse l’intero percorso compiuto dal Parlamento in questi due anni e mezzo, occorrerebbe ricominciare da capo; ma questa volta mancherebbe la spinta che allora diede Giorgio Napolitano quando accettò la rielezione a patto che tutte le forze politiche che gli chiedevano di accettare il secondo mandato si impegnassero seriamente per la riforma costituzionale e quella elettorale. Si dovrebbe ricominciare in condizioni politiche peggiori.
Il fallimento del Patto del Nazareno e la posizione in seguito assunta da Forza Italia sulle riforme ha privato il Paese di un percorso che avrebbe forse evitato una divisione come quella che sta producendo la campagna referendaria?
È proprio così. Se Forza Italia non avesse ritirato il proprio consenso subito dopo l’elezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica, dopo aver votato due volte la riforma costituzionale in Parlamento, questa avrebbe avuto il voto di due terzi del Senato e di tre quarti della Camera. Era quello che due anni prima Napolitano aveva auspicato, raccogliendo il plauso quasi unanime delle Camere, e anche Forza Italia si era impegnata a portare a compimento.
Uno del cavalli di battaglia del fronte del no è la tesi del Senato non elettivo. Come risponde a questa obiezione, anche in virtù del documento sottoscritto dalla maggioranza del Pd e da Gianni Cuperlo?
Se il nuovo Senato deve essere la Camera delle Autonomie, cioè deve rappresentare venti Regioni e novemila Comuni, sono questi ultimi soggetti che devono eleggerlo e non i quaranta milioni di cittadini italiani maggiorenni. È così, sia pure con modalità diverse, anche in Germania e in Francia. Altrimenti, se lo eleggessero ancora i quaranta milioni di italiani maggiorenni, il Senato tornerebbe a essere una copia della Camera; e a quel punto non si comprenderebbe come esso potrebbe svolgere la funzione di Camera delle Autonomie.
Quanto ritiene importante il documento del Pd e quali ripercussioni interne al partito prevede nel caso di vittoria del sì o del no?
Il documento prodotto dalla commissione presieduta da Guerini ha accolto le richieste provenienti dalla minoranza, indicando la via della sostituzione del meccanismo del ballottaggio con l’uninominale di collegio e con un premio di maggioranza. Più di questo quella commissione non poteva fare, per cercare di ricucire la lacerazione in seno al Pd. Il problema è che il Pd da solo non ha i numeri per cambiare la legge elettorale: non si possono fare i conti senza l’oste. E qui l’oste è quel pezzo di Parlamento senza il quale nessuna modifica della legge elettorale è possibile. Però questo accordo tra maggioranza e minoranza può far sperare che, quale che sia l’esito del referendum, i contraccolpi sull’assetto interno del Pd non siano gravemente traumatici.
Lei ha operato a lungo nel sindacato, come giudica il ruolo e la posizione dei corpi intermedi nella campagna referendaria?
Cgil e Cisl si sono divise sulla scelta istituzionale che è oggi in discussione. Questo si spiega agevolmente se si considerano gli orientamenti generali delle due confederazioni sindacali maggiori. Era meglio, ovviamente, se anche la Cgil appoggiava la riforma, ma non si può bloccare il processo di modernizzazione delle istituzioni solo perché la Cgil non è d’accordo. La Costituzione indica come first best il procedimento di riforma che realizza intese larghe tra tutte le forze politiche e la parti sociali; ma prevede anche che, quando il first best non si possa realizzare, la riforma possa essere attuata anche attraverso le quattro letture parlamentari col voto della metà più uno degli aventi diritto, e il referendum popolare che mette il sigillo sull’opera del Parlamento. Questo è il second best a cui oggi dobbiamo puntare, per evitare il rischio di paralisi delle istituzioni.
Gli oppositori delle riforme rigettano la tesi di pesanti conseguenze economiche nel caso di una bocciatura del testo Boschi. Quale la sua opinione?
Spero che, se si verifica quell’ipotesi che non si può purtroppo escludere, abbiano ragione loro. Ma temo che sottovalutino la perdita di credibilità e affidabilità complessiva del Paese derivante dall’eventuale successo del NO: non dimentichiamo che l’uscita dalla crisi economico-finanziaria gravissima del 2011, e la politica di forte sostegno seguita dalla BCE in tutti gli ultimi quattro anni, non sarebbero mai state possibili senza le riforme che l’Italia ha fatto nello stesso periodo. Se queste venissero azzerate, sarebbe comprensibile una perdita di fiducia da parte dei nostri maggiori partner europei, oltre che da parte dei mercati finanziari.
Uno dei punti cruciali della riforma è il superamento del Titolo V e maggiori attribuzioni allo Stato di materie oggi spesso motivo di conflitto di competenza con le Regioni. Come risponde alle accuse di un ritorno allo statalismo?
Qui lo statalismo non c’entra. Ciò che dobbiamo chiederci è se le Regioni abbiano dato buona prova delle proprie capacità nelle materie attribuite loro dalla riforma del 2001. E poi: se abbia senso che un trasporto eccezionale per andare dal Brennero a Reggio Calabria debba chiedere otto autorizzazioni a otto Regioni diverse, in applicazione di otto leggi diverse che regolano la materia; o se abbia senso che il Paese dipenda dalle bizze di una singola giunta regionale per poter fruire di un gasdotto proveniente da oltremare.
Quanto inciderà l’approvazione della riforma istituzionale sull’economia, il mercato del lavoro e il percorso di riforme in questi ambiti?
Non è possibile indicare una misura. Si può soltanto dire che il prevalere del NO interromperebbe un cammino di riforme economiche ed istituzionali che nell’ultimo biennio hanno contribuito sicuramente a rimettere in moto la nostra economia e il nostro mercato del lavoro. Il rischio è che quel cammino si interrompa. La certezza è che l’Italia perderebbe l’autorevolezza acquisita in seno alla UE e parte della fiducia dei suoi creditori.
Lei a metà degli anni Settanta ha collaborato su temi giuridici del lavoro con Carlo Smuraglia, oggi protagonista delle polemiche sullo schieramento dell’Anpi a favore del no. L’ha sorpresa questa posizione e quale il suo pensiero in merito?
Non mi ha sorpreso che Carlo Smuraglia abbia preso posizione per il NO. Mi ha sorpreso che abbia potuto non rendersi conto, nella sua veste di presidente dell’Anpi, della necessità che questa associazione rispetti un’ampia pluralità di opinioni al proprio interno sulle materie che sono oggetto di questa riforma. Si può aborrire sinceramente il nazi-fascismo, e tuttavia pensarla in modi molto diversi circa i contenuti della Costituzione. La forza della Resistenza consistette proprio nell’unità tra tutti gli oppositori del nazi-fascismo, quale che fosse la loro idea circa il migliore assetto istituzionale futuro. Di questa unità l’ANPI dovrebbe essere oggi custode e promotrice. La sua scelta di vietare ai propri iscritti di partecipare alla campagna elettorale per il “Sì” nel referendum di ottobre è l’esatto contrario: significa che all’ANPI, se fossero ancora vivi, non potrebbero iscriversi oggi molti di coloro che la lotta al nazi-fascismo la fecero in prima fila e senza i quali la nostra Costituzione non avrebbe mai visto la luce.
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