LIBERO: 1,2 MILIONI DI ASSUNZIONI IN PIÙ IN DUE ANNI, DUE TERZI STABILI

GLI ULTIMI DATI FORNITI DALL’INPS SULLE DINAMICHE RECENTI DEL MERCATO DEL LAVORO  CONFERMANO CHE L’OCCUPAZIONE STA ANCORA CRESCENDO E CHE LA PARTE MAGGIORE DELL’AUMENTO RIGUARDA I POSTI DI LAVORO STABILI, MENTRE L’AUMENTO DEI LICENZIAMENTI NON È SERIAMENTE IMPUTABILE AL JOBS ACT

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Il numro del quotidiano Libero dell’11 maggio 2016

Testo integrale dell’intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata (con alcuni piccoli tagli concordati, per motivi di spazio) su Libero il 4 novembre 2016Considero questa intervista come segno molto apprezzabile di un ritorno del quotidiano, sotto la direzione di Vittorio Feltri, alla serietà dell’informazione sulle dinamiche del mercato del lavoro, dopo l’incredibile episodio di deliberata falsificazione dei dati che il Direttore precedente aveva fatto registrare l’11 maggio scorso – In argomento v. anche  Dati sull’occupazione: quando i giornalisti non fanno il loro mestiere   
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Professor Ichino, le sottopongo anzitutto alcune critiche rivolte da più parti al Jobs Act, in seguito alla pubblicazione dei dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps. Anzitutto, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato nel 2016 è stato sensibilmente inferiore a quello registrato nel 2015: segno, è stato detto, che l’anno scorso a pagare è stata più la convenienza della decontribuzione sui nuovi assunti che l’appeal del nuovo contratto a tutele crescenti.
Vediamo, innanzitutto, questi dati forniti dall’Inps più da vicino. Il saldo tra il numero totale delle assunzioni e quello delle cessazioni, cioè tra “l’acqua entrata nella vasca dal rubinetto e quella uscita dallo scarico”, è stato nel 2014 +539.614, nel 2015 +813.143, nei primi otto mesi del 2016 +703.384: se negli ultimi quattro mesi non ci sarà un rallentamento, il dato del 2016 complessivo sarà addirittura migliore rispetto a quello del 2015.

Ma questi dati comprendono anche i rapporti di lavoro a termine, anche quelli di brevissima durata.
È vero. Vediamo dunque il dato più significativo, cioè quello dei saldi tra il numero totale delle assunzioni a tempo indeterminato e quello delle cessazioni: nel 2014 è stato +104.009; nel 2015 è stato +465.800; nei primi otto mesi del 2016 è stato +53.303. Questi dati ci dicono che l’incentivo economico fortissimo operante nel 2015 ha prodotto un’anticipazione a quell’anno di nuove assunzioni che altrimenti si sarebbero collocate nel 2016.

jobs act 2Questi dati, comunque, confermano che nel 2016 c’è stato un notevole rallentamento.
Sì, ma attenzione: confermano anche due altre cose. La prima è che nel 2016 l’aumento dell’occupazione totale è proseguito, anche se un po’ più lentamente; la seconda è che, nonostante la drastica riduzione dell’incentivo economico, è proseguito anche l’aumento del numero degli occupati a tempo indeterminato. Il fatto che questo aumento, per effetto della decontribuzione al cento per cento, si sia concentrato nel 2015 non toglie che l’aumento stesso stia continuando. D’altra parte, questo forte “risucchio” di nuove assunzioni nel 2015 a spese del 2016 non è un fatto negativo: vuol dire che centinaia di migliaia di persone hanno incominciato a lavorare, per due terzi in forma stabile, qualche mese prima rispetto a quello che sarebbe altrimenti accaduto nel 2016. E questo fatto non toglie che l’aumento sta continuando, anche se preferiremmo che continuasse a un ritmo più forte. Sa qual è il vero dato che mostra quel che sta veramente accadendo?

Dica.
Nei 20 mesi tra il gennaio 2015 e l’agosto 2016 si sono registrate 1.214.662 assunzioni in più rispetto a quelle verificatesi negli stessi mesi 2013-2014. Di queste, 818.306 a tempo indeterminato e 396.356 a termine. Questo è il dato che conta; e che mostra quello che sta accadendo nel nostro mercato del lavoro. Le conseguenze in termini di stock dell’occupazione (qui passiamo ai dati Istat, che nella metafora della vasca corrispondono al livello dell’acqua che vi è contenuta in un dato momento) è stato, nell’arco dei 19 mesi dal 1° gennaio 2015 al 31 luglio 2016, ultimo dato disponibile, di +604.000 occupati, dei quali +408.000 a tempo indeterminato e +196.000 a termine.

Ha colpito, però, il dato sui licenziamenti per giusta causa: più 28%. Insomma, se sul lato delle entrate il Jobs Act ha deluso, su quello delle uscite ha funzionato fin troppo bene…
Mi perdoni, ma questa è proprio una sciocchezza. L’Inps non ha fornito alcun dato né sulla distribuzione dei licenziamenti in questione tra rapporti costituiti prima e rapporti costituiti dopo il 7 marzo 2015, né sulla loro distribuzione tra imprese collocate sopra e imprese collocate sotto la soglia dei 15 dipendenti, cioè imprese nelle quali la disciplina dei licenziamenti è cambiata pochissimo. Tutto, comunque, induce a pensare che questi licenziamenti abbiano riguardato per la massima parte rapporti costituiti prima di quella data, quindi non toccati dalla riforma: dunque il Jobs Act non c’entra proprio nulla. Poi occorre considerare che questo aumento dei licenziamenti disciplinari si riferisce a un numero di partenza minuscolo, rispetto al dato complessivo delle cessazioni.

Può essere più preciso?
I licenziamenti disciplinari passano dai 36.048 dei primi 8 mesi 2015 ai 46.255 dei primi 8 mesi 2016: +28,3 per cento, appunto. Ma queste grandezze hanno uno zero in meno rispetto al totale delle cessazioni di rapporti, che comprendono anche i licenziamenti per motivi economici, le cessazioni dei rapporti a termine e le dimissioni. In ciascuna di queste ultime categorie le cessazioni di rapporti si contano a centinaia di migliaia. Consideriamo, per esempio, i licenziamenti nel loro complesso: si passa dai 290.656 dello primi otto mesi 2015 ai 304.437 dei primi otto mesi del 2016, cioè si registra una crescita soltanto del 4,7 per cento.

È pur sempre un aumento dei licenziamenti.
Sì, ma compensata nello stesso periodo, come abbiamo visto, da una crescita molto maggiore delle assunzioni. L’insieme di questi dati significa che tra la riforma Fornero del 2012 e il Jobs Act si sta determinando una maggiore fluidità dei flussi occupazionali nel nostro tessuto produttivo, che significa anche allocazione migliore delle risorse, quindi – si spera – anche un aumento della produttività del lavoro. Tutto questo è un bene, non un male.

Passiamo al boom dei voucher: più 36 per cento sul 2015, che aveva peraltro già fatto registrare un più 71 per cento sul 2014. Si può parlare di diffusione degli abusi?
Potremmo parlare di aumento degli abusi se ci fosse l’evidenza che, almeno in parte, questo aumento del lavoro accessorio sia avvenuto a detrimento del lavoro regolare, stabile o a termine. Però, come abbiamo appena visto, nello stesso periodo sia il lavoro regolare stabile, sia il lavoro regolare a termine, sono aumentati. Ne dobbiamo concludere che questo aumento del lavoro accessorio pagato con i buoni-lavoro sia avvenuto, almeno per la gran maggior parte, a spese del lavoro nero e/o della disoccupazione.

Il caso dei lavoratori di Foodora, e ancor più la morte a Piacenza in circostanze controverse  di un operaio di un’azienda di trasporti rapidi che stava partecipando a un picchetto, hanno portato alla luce una realtà – quella della logistica – dove la qualità del lavoro è spesso calpestata. Non è forse vero che questa realtà, pur essendo sempre più centrale nella nostra economia, fatica a trovare attenzione presso la classe politica?
Il caso accaduto a Piacenza, pur nella sua tragicità, non mi sembra significativo riguardo al contenuto dei rapporti di lavoro in questo settore: posso sbagliare, ma mi sembra più un sinistro da circolazione stradale che un episodio da studiare nell’ottica delle relazioni sindacali e di lavoro. Quanto ai lavoratori di Foodora, la questione è la stessa che sorse trent’anni fa in riferimento ai pony-express. Il problema nasce dal fatto che lo schema contrattuale applicato lascia loro la piena libertà di rispondere oppure no alla chiamata della centrale; questo fa sì che il rapporto non possa essere qualificato come di lavoro subordinato, con la conseguenza che le protezioni assicurate dal diritto del lavoro non si applicano.

Come se ne esce?
O decidiamo di definire il campo di applicazione del diritto del lavoro sulla base di una nozione di natura socio-economica, come quella di “dipendenza economica” del prestatore dal datore di lavoro, oppure il problema è insolubile: un lavoratore che è contrattualmente libero di decidere, in qualsiasi momento, se lavorare o no, se rispondere alla chiamata o no, sulla base dell’ordinamento attuale non può che essere qualificato come lavoratore autonomo.

Veniamo alla legge di stabilità. Col prossimo anno, dalla decontribuzione generalizzata (già scesa al 40 per cento) per i neo-assunti si passerà ad agevolazioni mirate per i giovani che hanno svolto alternanza tra scuola e lavoro e per il Mezzogiorno. Ma le risorse mobilitate saranno sufficienti?
Io spero che non siano sufficienti: vorrebbe dire che finalmente i programmi di alternanza scuola-lavoro nel nostro Paese sono decollati davvero in modo molto robusto. Mi accontenterei, comunque, anche soltanto che gli 800 milioni stanziati per questo incentivo venissero assorbiti interamente: vorrebbe dire che l’alternanza scuola-lavoro è comunque decollata su larga scala. E sarebbe una svolta davvero importante, in un Paese nel quale questo strumento fondamentale per l’orientamento professionale dei giovani finora ha funzionato soltanto nell’uno per cento del territorio nazionale, cioè nella Provincia autonoma di Bolzano.

A proposito di risorse. Nel rivendicare più ampi margini di manovra a Bruxelles, il premier Renzi ha adottato una retorica anti-europea (Sabino Cassese ha coniato l’espressione “europeismo aggressivo”), che è una novità  per un esecutivo di centrosinistra. Come giudica questa evoluzione?
L’espressione coniata da Cassese mi sembra appropriata: Renzi oggi mi sembra l’unica figura politica di spicco, sul piano continentale, che sia portatrice di una visione credibile per la costruzione della nuova Unione Europea. La sua non è una retorica anti-europea: al contrario, mi sembra l’unico modo in cui si può costruire un consenso maggioritario, politicamente solido, a sostegno di un’accelerazione del processo di integrazione politica, almeno dei sei Paesi fondatori e di tre o quattro altri.

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