UNA GRANDE FIGURA RINASCIMENTALE, CHE ILLUMINA CON LA SUA ARTE POLIEDRICA LA MILANO DEI NAVIGLI
Presentazione di una nuova mostra di pitture, sculture e ceramiche di Gigi Pedroli, a Lodi, in occasione del quarantesimo anniversario del Centro dell’Incisione da lui fondato, 5 novembre 2016 .
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Sentii parlare per la prima volta di Gigi Pedroli nel 1988, quando il presidente della Cooperativa Centro Storico, l’architetto Remo Pancin, propose al consiglio di amministrazione di affidare a lui la realizzazione di un mosaico rappresentante l’“Albero della Vita”, all’ingresso del nuovo stabile di via Valenza 5, che la Cooperativa stava allora costruendo: “è un artista straordinario – ci disse –, pittore, incisore, scultore, e conosce anche la tecnica del mosaico; ha fondato un Centro dell’Incisione unico nel suo genere”. Due anni dopo, andai ad abitare in quella nuova casa, dalle cui finestre si vede oltre il giardino quella dove ha sede il Centro dell’Incisione, che compiva proprio allora i primi dieci anni di vita. Conosciuto di persona Gigi Pedroli, non tardai a rendermi conto che la presentazione che di lui ci aveva fatto l’architetto Pancin diceva solo una piccola parte della sua persona e del suo valore. Gigi Pedroli non è soltanto pittore, incisore, scultore, ceramista; e non basta neanche aggiungere che è un cantautore di prima grandezza e un cuoco straordinario: è soprattutto un poeta che ci insegna a vedere e conoscere il mondo con occhi nuovi.
Nella casa incantata sull’Alzaia del Naviglio Grande, interamente coperta dalla vite canadese, Gigi Pedroli e la sua generosa Gabriella hanno conservato in modo perfetto e fanno vivere ogni giorno, da quarant’anni, un pezzo della Milano di un secolo fa. Che ci si venga di giorno o di sera, al Centro dell’Incisione e nel giardino circostante tutto ispira una felice serenità. Lì, dove il tempo sembra essersi fermato, il legno e la pietra si uniscono agli olii, alle acqueforti, alle ceramiche e alle sculture di Gigi nell’aiutare il visitatore a ritrovare il senso profondo della vita. Lì tutti i sabati mattina lui crea e insegna la sua arte a chiunque lo desideri. Lì, di sera, lui e lei offrono agli amici fortunati un risotto o una polenta cotti sulla legna, di irripetibile bontà, innaffiati con l’immancabile Bonarda; e alla cena fanno seguito le sue canzoni accompagnate con la chitarra, la fisarmonica o il tolòn. Ma a chi passa di lì in qualche momento del giorno in cui c’è meno gente in giro, può accadere di scoprire Gigi solo con il suo pianoforte o la sua fisarmonica, mentre suona sommessamente per sé e per l’edera che pende sulla finestra.
Nei suoi quadri e incisioni si vede, come nelle sue canzoni si sente, un amore singolare per l’umanità e il mondo che la contiene: un mondo nel quale i puerett (l’“Ernesto senza fissa dimora”, quello che el magna la sboba di fraa e canta battendo il tempo sul tolòn del Tintal, l’acquarellista che el purtava un paltò anca quand l’era està, quel che durmiva sott i pont del Navilli con il pigiama di flanella, e tanti altri) hanno ciascuno una propria spiccata individualità e parlano in milanese, mentre i sciuri parlano in italiano e tendono a essere tutti uguali (come nel matrimonio al Principe Savoia, teatro delle imprese dell’Ernesto); ma lui non li giudica, non li condanna, li capisce. È chiaro che il cuore di Gigi batte per i primi, perché lui si sente uno di loro:
A disen che sunt un pitur de strapass,
a disen che sun matt…
ma il suo sguardo è benevolo anche verso i secondi. Così, per esempio, nella canzone in cui la vecchietta sfrattata parla con l’assessore (lui che le dice: “Signora, le daremo una nuova sistemazione, di più non so cosa dirle”; e lei:“lü el sa no cusa dì, mi su no cusa fa, me daga almen qualche speransa de restà chi”) non c’è polemica, non c’è neppure la minima venatura di antipolitica; il discorso dell’assessore è ragionevole, lui non può fare di più. E tuttavia protagonista della canzone è il dolore della vecchietta per la perdita del suo poggioeu cunt i fiurr.
Vedo più compassione che riprovazione anche nei confronti del Conte che el purtava la vestaja con le cifre e lo stemma del casato, e che arriva all’assassinio per appropriarsi di una collezione di francobolli: qui Gigi non canta tanto l’abominio dell’omicidio notturno sulla riva del lago, quanto l’emozione della gente nel leggere quella notizia di cronaca nera e la storiaccia di sfruttamento della prostituzione che la precede.
Un amore semplice, mite e intelligente, quello di Gigi per il mondo e per l’umanità che descrive; non possessivo; nutrito dell’umorismo e dell’autoironia di chi sa che l’assoluto non è di questa terra e neppure dei sentimenti umani. Nelle sue canzoni come nella sua pittura si vede e si sente una laica povertà evangelica: distacco dalle ricchezze apparenti che nasce da una serenità profonda e che al prossimo ispira serenità; attaccamento alle ricchezze vere della vita, quelle per le quali gli occhi di Gigi si illuminano e ridono: l’affetto per gli amici e degli amici, la grandezza nascosta degli ultimi (che la città relega ai propri margini estremi e che lui ci insegna a vedere e amare nella loro intensa umanità), i piaceri della tavola semplice, la bellezza della natura. Nulla è più lontano da lui che il predicare una qualche verità, un qualche comandamento morale, un qualche credo politico che non sia lo stare dalla parte dei semplici e guardare il mondo con i loro occhi. Salvo, come è sacrosanto, dare del mascalzone al caporale che sül paiun sensa preghiera né urassiun sbatte la povera mondariso, dopo averla fatta lavorare per il giorno intero piegata in due nell’acquitrino (Sü el cü, giò el cou).
Ma sono la stessa vita straordinaria di Gigi e la sua stessa persona – come quelle dei veri profeti ‑ che senza bisogno di teorie ci insegnano e ci inducono a cogliere il senso profondo della vita e di noi stessi, a discernere ciò che di questo mondo conta veramente e resta per sempre (quante, infinite cose, piccole o immense!), da tutto ciò che non conta ed è destinato a perdersi, travolto dal tempo.
Gigi ci aiuta a guardare al cuore della nostra vita con i suoi personaggi stralunati e profondamente normali nella loro deformità, che si librano per aria sopra le isole del sogno o le città assorte, dalle mille finestre; oppure volgono al cielo gli occhi spalancati dalla loro barca di legno in lento movimento in un mare metafisico; oppure ancora vanno a passeggio su pattini a rotelle con l’aria seria e intimamente elegante di chi si gode con gratitudine quel poco che la vita gli offre, pur sapendo che non c’è molto da scherzare. In ciascuno di loro c’è una parte di noi, così come una parte di noi vive in alcuni personaggi immaginari e paradossali delle sue canzoni: primo fra tutti il Collesiunista de carte de caramèla, che preferisce l’incerto senso civico subalpino, produttivo di qualche reperto utile per la sua collezione, al lindore asettico dominante a nord delle Alpi:
Ma mi Lügano no, Lügano me piass no,
per strada te trovet nanca un piccul pessett de carta!
Mentre in veste di cantautore commenta ironicamente le novità tecnologiche che via via fanno la loro comparsa, dal cecùp sanitario al fésbuc, dal telefonino al Viagra, con le loro pretese di progresso, Gigi ci avverte della fragilità del sogno di superare i limiti del nostro essere umano nei bellissimi quadri dedicati alle macchine volanti: impegnati alla loro guida, i suoi personaggi sembrano chiedersi che cosa riesca a farli volare per davvero; e per prudenza non si sollevano troppo dalla terra quotidiana.
Gigi descrive il ceto medio milanese laborioso e tranquillo che lo circonda, con un’ironia non corrosiva, nella quale si esprime il suo sguardo benevolo e ottimista. È gente che ogni tanto gioca a prendere il volo, ma non fugge lontano: soltanto, forse senza accorgersene, ritorna per un momento bambina. Ma i suoi uomini e donne che si guardano seduti su di una panchina, o intorno a un tavolo domestico sotto la lampadina, sono un inno all’amore che è dato a tutti cercare e trovare, anche ai non più giovani, anche ai non più belli. E le api e le farfalle che ronzano intorno al suo “Albero della vita” sono un inno alla vita e alla bellezza del creato.
Non si possono capire fino in fondo le immagini dei quadri, delle incisioni, delle sculture di Gigi, se non si conoscono le sue canzoni, ciascuna delle quali è animata da un misto irripetibile di poesia e di umorismo. In ciascuna lui esprime in parole e suoni il suo mondo, la sua storia. L’animo di Gigi è lo stesso, ingenuo e limpido, del cartunista che in una notte di luna piena trova, nascosto in uno scatolone, un morto vestito di tutto punto e poi non sa spiegare la cosa al poliziotto che gliene chiede conto:
Mi laùri come un matt
a catare su i cartoni
però quando sono pieni
non so dare spiegazioni.
In un’altra delle sue canzoni più belle (Il colore alimentare) sono protagoniste le caramelle. Nelle quali non è difficile riconoscere quelle – nuove pétites maidelenes meneghine – che hanno addolcito la sua infanzia di orfanello nella Milano dei Martinitt (lui, in realtà, fu allevato al Don Guanella) percorsa dalla guerra, dove compaiono quasi soltanto bambini, suore, preti e militari:
… le ciüccen i fioeu, le ciüccen i vecc,
le ciüccen le soeur, le ciüccen i prett;
le ciüccen i fant e i culunel…
In un’altra ancora il ricordo delle nuotate estive in un Naviglio dall’acqua limpida (quan che sera giuin almen gh’avevum un foss de nuà) si accompagna a quello dei pesci e delle rane che ci si potevano pescare e del modo in cui se ne traeva un piatto saporito.
Anche se a tratti si allarga all’intera regione circostante – come nella stupenda canzone Lumbardia, con i suoi toni foschi e a tratti surreali (Cupertun che brüsen in süla strada dei mobill…) – il mondo di Gigi Pedroli è principalmente la Milano del Navilli, con i suoi ponti, con le sue trattorie (Vegia usteria che nissün te capiss…), con la sua nebbiolina che d’inverno aleggia sul canale creando un ponte tra la Ripa e l’Alzaia (Che ümidità…), con i meravigliosi tramonti che nelle giornate limpide di primavera e d’autunno si specchiano nell’acqua e inondano il Naviglio Grande di una luce irripetibile, via via digradante dall’arancio al viola, ma anche con la sua acqua inquinata e con le nuove butiques. Nelle sue incisioni come nelle sue canzoni quei luoghi un tempo patria delle ragazze prostituite dalla ligera e dei puerett che dormivano sotto i ponti, o che si riscaldavano bevendo nelle osterie affacciate sul canale, si trasformano nei luoghi trendy che oggi assediano il Centro dell’Incisione, frequentati dal nuovo ceto medio: quel che l’era per i puerett, al dì d’incoeu l’è per i sciur, ci avverte nella sua canzone intitolata al dormitorio di viale Ortles. Lui li canta e li ritrae non come una istantanea di settanta o ottanta anni fa, oggetto di malinconica nostalgia, ma come sono. E come lui continua ad amarli. Una delle sue incisioni più belle celebra il trionfo del Naviglio Grande in festa, invaso dalla movida.
Gigi Pedroli non si erge a giudice. E neppure si ripiega nella laudatio temporis acti. Osserva il mondo che cambia con simpatia, usando il suo straordinario umorismo per avvertire che, nonostante cecùp e fésbuc, cellulari e Viagra, in realtà il nostro animo resta sempre quello, con le sue ansie, il suo desiderio di amore, la sua capacità di vedere il bello anche in un bimbo che abbraccia il suo asinello, in un gatto accoccolato sulla stufa, o in un’ape che ronza intorno al fiore.
Grazie Gigi!
E grazie Gabriella: senza di te non ci sarebbe il Centro dell’Incisione. E anche Gigi, probabilmente, sarebbe un’altra persona.
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